L’Italia è una nazione che affida molta della propria identità alla cucina: la consuetudine alimentare viene con compiacimento considerata la migliore al mondo ed è opinione comune che affondi le sue radici in una pratica immutata nei secoli. In realtà non solo non è mai stato così, perché gran parte delle ricette sono il frutto di innumerevoli contaminazioni e degli scambi di millenni di storia, ma soprattutto non sarà così nel futuro.
L’immigrazione è un fenomeno relativamente recente nella penisola e le abitudini a tavola dei nuovi cittadini vengono ancora tenute ai margini e costituiscono al momento un sistema parallelo. D’altro canto per i nuovi cittadini il cibo non è solo sapore ma anche appartenenza, legame profondo con la propria comunità: chi si trasferisce in un altro paese è obbligato a cambiare abito e lingua, ma cerca sempre di conservare qualcosa della cucina originaria.
Ma nella vita quotidiana la pratica del meticciamento è inavvertita e costante, invade un po’ alla volta le rispettive consuetudini, mischia gli ingredienti e le pratiche, crea nuovi gusti.
Ricette scorrette. Racconti e piatti di cucina meticcia di Andrea Perin, edizioni Elèuthera, propone dei piatti ma non è un ricettario: di solito un libro di cucina stabilisce quali sono le regole davanti ai fornelli, ma in questo volume ogni pietanza è un atto di invenzione individuale, un sorprendente incontro di tradizioni e sapori.
Attraverso trentasei interviste a stranieri e italiani si affaccia una realtà dove gli immigrati rappresentano una risorsa per innovare in maniera inaspettata le consuetudini della penisola a tavola. Sono ricette scorrette perché non si trovano sui libri di cucina, né su quelli italiani né su quelli etnici: hanno sapori imprevisti, ingredienti nuovi, gusti che contaminano la presunta correttezza delle pietanze originali. E spesso hanno spiazzato tutti quelli che, insieme all’autore, li hanno assaggiati.
Kumari
Quando parla delle spezie il suo volto, paffuto e allegro, si illumina. «Un profumo meraviglioso». Sono diciott’anni che Kumari ha lasciato lo Sri Lanka, ma i gusti sono rimasti.
«Noi non mangiamo i nostri piatti ogni giorno, mangiamo italiano. Non ho fatto fatica ad abituarmi alla cucina italiana. Ma dopo tre o quattro giorni, il sabato o la domenica quando abbiamo più tempo, mio marito dice: “Facciamo il riso, dài”. Per voi la pasta è il piatto principale, per noi il riso. Noi mangiamo un piatto di riso insieme a un pof di carne, insalata, verdura. Non più di uno o due volte a settimana, perché ci vuole più tempo e poi siamo abituati alla cucina italiana. Ma dopo tre o quattro giorni…».
Stiamo chiacchierando nella portineria di un palazzo in centro città dove lavora Lucky, suo marito. Ogni tanto passa qualche condomino dall’aria contegnosa e butta appena un’occhiata in guardiola. Da qui si ha uno sguardo diverso della società. «In questo palazzo ci sono signori che non usano aglio e cipolla, non lo comprano neanche. Lo so dalle domestiche». Ma le cose stanno cambiando un po’ e lei stessa lo ha notato. «È vero, nelle case in cui vado per lavoro si vedono le spezie. Io ho lavorato in diverse case, e una volta non si utilizzano tutte queste spezie nel vostro paese».
Le chiedo quali sono le spezie che si usano in Sri Lanka, e l’elenco è lungo: il curry (che fanno loro unendo vari ingredienti), il peperoncino ovviamente («Qui nessuno mangia peperoncino. Da noi colazione, pranzo, cena, tutti vogliono peperoncino, anche se fa caldo. Specialmente gli uomini: vogliono sentire bruciare»), chiodi di garofano, cardamomo, cannella, senape sia in grani che macinata, zenzero; poi due o tre tipi su cui non riusciamo a intenderci,
Si è preparata all’intervista e si presenta con ben sei ricette scritte («sono semplici» si schernisce), ma una mi colpisce più delle altre. «Nel nostro paese c’è un tipo di verdure che qui non si trova, si chiama mugununuanna. Abbiamo visto il cavolo nero al supermercato e lo facciamo alla stessa maniera. Adesso si trova, costa di più, ogni tanto la compro per sentire i sapori di là».
Le chiedo se è l’unica della sua comunità a cucinare in questa maniera. «Ci sono alcuni miei paesani a cui non piace la cucina italiana, loro vogliono ogni giorno il riso. Ma ci sono nostre amiche che fanno tante tante cose. Infatti mia figlia Iresha mi dice “tu non sai cucinare”, perché quando andiamo dagli amici assaggiamo tante cose diverse». Lei mangia italiano? «Sì. Mia figlia ha sedici anni, è nata qua, è cresciuta qua. Dice “mamma è poco piccante”. Io pensavo che non avrebbe mangiato piccante» Kumari ride («Lei mangia troppo per me!») e continua «Iresha si sente italiana. Siamo andati un mese fa in vacanza in Sri Lanka, e dopo un po’ ha detto “io voglio andare a casa mia”»
In Sri Lanka si conosce la cucina italiana? «Quando sono arrivata in Italia non sapevo cosa fosse la pasta, però mi sono abituata in un attimo. Adesso, nel villaggio di mio marito, non c’è più nessuno, ci sono solo nonni e persone che non possono venire». Ma ormai anche lì si trovano cibi italiani. «Ora si può comprare pasta, pomodori in scatola, mai visto prima. A Colombo, nella capitale, si possono comprare anche mozzarella e salami, ma costano tantissimo».
Cavolo nero
con il cocco grattugiato (4 persone)
400 g di cavolo nero, 1 cipolla,
4 cucchiai di cocco grattugiato,
pepe, olio di oliva
Fate un soffritto con la cipolla affettata sottile e l’olio. Unite il cavolo nero tagliato il più fine possibile, sale e pepe,
e cuocete a fuoco vivace per 10-12 minuti.
Da ultimo aggiungete il cocco grattugiato. |
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Alcuni commenti tratti dal libro
“Il cocco però no, quello proprio non lo amo. Chiedo solo un piccolo assaggio, che comunque bisogna provare tutto. Alla fine faccio il bis. Eccezionale l’accostamento del cavolo amarognolo e del cocco dolciastro, amalgamati dal salto in padella.” Silvia
“Puoi mettere senza remore nel libro che ho cucinato il cavolo per varie persone in questo mese e tutti, ma dico tutti, sono rimasti entusiasti. Tra l’altro la prima volta ho sbagliato la ricetta e non l’ho nemmeno cotto. Divino lo stesso.” Carolina
“Ricetta facile che sposa un vegetale tipico della nostra cucina con un elemento esotico come il cocco, il tutto molto gustoso e particolare.” Chiara G.
“Il cavolo nero con cocco non l’avrei mai scelto leggendolo sul menù di un ristorante e avrei commesso un errore ... Sebbene non ami affatto mischiare il dolce con il salato, ci sono sfumature che fanno vacillare la mia convinzione: il cocco è davvero dolce? E se lo è, perché si sposa bene con il cavolo nero? Forse il cavolo nero non è semplicemente salato? Non so la risposta a queste domande ma consiglio il piatto, mi complimento con l’inventore e sicuramente proverò a cucinarlo.” Andrea
Yuan
«Una volta gli ho fatto assaggiare l’insalata cotta. Noi l’insalata non la mangiamo cruda ma solo cotta. Era molto molto buona, Raffaele ha mangiato tutto però mi ha detto: “Non farti vedere dai miei genitori sennò scappano via”. Scherzava – Yuan ride – Io non cucino tanto, lavoro tutti i giorni e non ho molto tempo. E poi ho un fidanzato napoletano e gli dico: “Fai tu”. Da quando conosco Raffaele sono ingrassata di dieci chili!».
Stiamo chiacchierando seduti a un tavolo del ristorante gestito con i genitori e il fratello: periferia milanese e cucina italiana; oggi è sabato all’ora di pranzo e i clienti, pensionati e operai, cominciano a entrare.
«Sono tantissimi anni che sono qua in Italia, quasi diciotto, sono venuta quando ero piccolina, dalla provincia di Zhejiang, vicino a Shanghai».
Allora, mangi cucina italiana o cinese? «Cucina messicana, cucina ... di tutto. Oddio, all’inizio con quella italiana ho avuto alcune difficoltà, perché in Cina non esiste il formaggio, non ci sono i salumi, non c’è tutto questo condimento di pomodoro. Il pomodoro c’è ma non lo usiamo con la pasta. Oddio, non c’è neanche la pasta. Noi abbiamo la pasta ma tutta di riso: pasta di riso, gnocchi di riso.
Da piccola, quando andavo a scuola, alla mensa c’era la pasta al pomodoro con tantissimo formaggio: io mi ricordo che mangiavo la pasta dove non c’era formaggio e scartavo tutto il resto. Perché non mi piaceva proprio. I secondi erano molto molto molto buoni. Era più facile abituarsi a loro».
I tuoi connazionali mangiano italiano come te? «La maggior parte devo dire che mangia cucina cinese, forse perché più tradizionalisti. A differenza della mia famiglia che a mezzogiorno mangia sempre cucina italiana, un po’ perché la facciamo, un po’ perché non abbiamo il tempo. La sera mangiamo cucina cinese».
Ma cosa assaggiano i cinesi della cucina italiana? «Forse i classici spaghetti con il pomodoro. Mia cugina, che è venuta qui da poco, due o tre anni, mangia solamente spaghetti al pomodoro e spaghetti ai frutti di mare; ma se condiamo leggermente di più, tipo con la ricotta, i formaggi, subito...» La carne la mangia? «Sì, se è una costata alla griglia. Mangia le cose semplici, ma i primi piatti che sono un po’ più lavorati o gli involtini di lonza con il loro ripieno, non li mangia». E il risotto? Mi ha sempre incuriosito l’opinione degli orientali verso questo nostro modo di cucinare il riso. «Io l’adoro, mammamia. Gli altri no perché c’è il burro, il formaggio».
Insomma poche occasioni di incontro tra le due cucine? «Mio fratellino che è nato qui mangia gli spaghetti di soia con pomodoro». In brodo. «Fare il brodo cinese è facilissimo: olio, sale e dado cinese. Non quello italiano, lì dentro chissà cosa c’è: di tutto di più. E poi ci mette il pomodoro, in salsa o fresco» Molto brodoso o poco, chiedo? «Dipende dai gusti, a me piace con tantissimo brodo. Si mangia con le bacchette ma anche con le forchette, a volte si beve il brodo, a volte no».
Non solo. «I ramen. Sono tagliolini in confezione, con una bustina per fare il brodo dentro i quali si cuociono. Il mio ragazzo quando li ha visti si è spaventato: “Non farmi mangiare quella roba”. Adesso li adora». Lei ci mette a volte la pasta italiana, di solito le pennette. «Una cosa velocissima e anche buona».
Ma a convincermi è l’ultima ricetta: «Gli gnocchi di riso al pomodoro o al ragù. Li abbiamo fatti qui a mezzogiorno e anche gli italiani piacevano».
gnocchi di riso al ragù (4 persone)
400 g di gnocchi di riso (si trovano confezionati nei negozi cinesi), ragù
Mettete gli gnocchi a bagno nell’acqua fredda per almeno dodici ore.
Fate il sugo in padella e quando è pronto scolate gli gnocchi e aggiungeteli; dopo pochi minuti, quando perdono la loro rigidità, sono pronti. |
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Alcuni commenti tratti dal libro
“Dal punto di vista energetico gli gnocchi cinesi sono dei campioni di sobrietà, infatti la loro preparazione non richiede alcuna fonte di calore. Basta tenerli a mollo in acqua fredda e si riprendono pronti per essere conditi con qualsiasi sugo o ragù che si voglia, con il sollievo di non aver violato il protocollo di Kyoto sui cambiamenti climatici. La risposta degli gnocchi di riso al sugo è stata sorprendente. Ottima tenuta alla cottura senza alcuno sfaldamento (come spesso avviene, ahimè, con gli gnocchi di patate) e buona capacità di assorbire il condimento. Al gusto e alla masticazione si sono rivelati morbidi ma resistenti (non si sciolgono in bocca ma rimangono piacevolmente integri da masticare). Tutto sommato una piacevole scoperta: da rifare.” Il Cip
“Mi hanno lasciata un po’ così, gli gnocchi di riso non sanno di molto e la consistenza non mi fa impazzire. Il sugo mi è piaciuto molto.” Valentina
“A me sono piaciuti, ti dico non una cosa eccezionale ma veramente dignitosi. Mi piace l‘idea che si mettano a bagno e non si cuociano. Buoni e mi danno l’idea di un qualcosa molto simile alla pasta, un po’ più naturali, ma ovviamente la pasta è un’altra cosa. Insomma con onestà un’esperienza nuova e qualcosa fuori dal comune.” Otto
Julian
«Per noi è praticamente la pietanza per eccellenza, quando viene un ospite e gli offri un cuy è il massimo, è un ospite d’onore». Julian è molto serio e attento, mi racconta con precisione tutto quello che voglio sapere su questa pietanza, e sotto sotto conserva un po’ di stupore sul perché noi italiani siamo molto turbati all’idea di mangiare il cuy, ovvero il “porcellino d’india”.
«A Milano è praticamente impossibile trovarlo, bisogna fare una ricerca speciale, in quindici anni mi è capitato di mangiarlo due volte. Primo perché non c’è, secondo è impegnativo cucinare il cuy perché bisogna andare fuori città e fare la brace. Al forno si può fare, però che io sappia nessuno o quasi lo fa».
Il cuy è stato per secoli una delle poche risorse proteiche delle popolazioni andine ma in Italia, a parte qualche tentativo di allevamento subito dopo la scoperta del Nuovo Mondo (da cui il nome di “porcellino d’india”), subito fallito, non è commercializzato. Ci sono due tipi di cuy, quello comune che può arrivare a 600-700 grammi di carne senza scarti, e una razza migliorata, più industriale, che può arrivare a pesare il doppio. «Sicuramente quello comune rimane il più squisito come sapore. Noi diciamo che il cuy è una bomba calorica». Riesco a stupire Julian quando gli dico che alcuni in Italia lo tengono come animale da compagnia.
«Una volta sono stato vicino a Torino a casa di una ragazza che ha sposato un contadino piemontese e quando siamo arrivati abbiamo visto 250 cuys. Lì ne abbiamo mangiato in abbondanza. Il pranzo era un mix, abbiamo mangiato il cuy e poi pietanze italiane, perché ovviamente il marito non mangiava il cuy: gli faceva impressione». Forse tradisco una silenziosa solidarietà con l’uomo, perché Julian aggiunge subito: «In Italia si mangiano le lumache, le cose più schifose che esistono». Eccomi sistemato.
«Ho avuto un impatto radicale con la cucina quando arrivai, quindici anni fa non c’erano tutti i peruviani di adesso, e neppure i ristoranti: studiavo filosofia a Palermo e tutti i giorni mangiavo alla mensa studentesca. Non avevo scelta, dovevo mangiare cucina italiana, dovevo parlare italiano, i miei amici erano solo italiani».
Anche ora che vive a Milano e ormai spazia tra le due culture, perché ha ritrovato quella peruviana e conosce bene quella italiana, sul cibo non accetta contaminazioni. È solo nel privato, quando prepara per se stesso, che mischia le tradizioni. Allora cucina per sé il riso condendolo con il ragù: la sostituzione della pasta con il riso («Fa ingrassare meno, io qui sto utilizzando tranquillissimamente il riso al posto della pasta» sostiene Julian) corrisponde alle consuetudini peruviane, dove il riso è parte integrante dell’alimentazione, così come è abitudine aggiungere la cipolla tritata alla fine, lasciandola croccante.
«Ma non posso fare questo a un amico italiano, lui si aspetta la cucina peruviana».
Riso al ragù (4 persone)
400 g di riso, 400 g carne trita bovino, 1 spicchio d’aglio, 400 g di polpa di pomodoro, 1 cipolla, 200 g di piselli, olio di oliva
Soffriggete l’aglio nell’olio d’oliva, poi toglietelo e aggiungete il pomodoro; quando si sta restringendo aggiungete la carne trita e quando è quasi cotto unite i piselli e pochi minuti prima di spegnere la cipolla tritata (deve rimanere croccante). Lessate il riso e conditelo con il ragù. |
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Alcuni commenti tratti dal libro
“Il riso al ragù italo-peruviano (che non mi è però sembrato nulla di particolarmente eretico) mi è piaciuto molto. Bello il verde dei piselli sul bianco del riso e il rosso brunito del ragù. Buona la cipolla ancora croccante (concordo con te che ne metterei di più) aggiunta a fine cottura. Corposo l’amalgama con il riso e la sua natura neutra, che accompagna quella calda della carne soffritta e rimestata abbastanza a lungo da assorbire tutti i sapori aggiunti via via.” Laura D.
“Interessante per me perché ha evocato una bizzarria culinaria della mia famiglia (e in particolare di mio padre) che farebbe il riso tutti i giorni. Ma siccome siamo bolognesi, un po’ di ragù ci sta sempre bene. I piselli un po’ crudi alla fine: una deliziosa nota di colore che senza dubbio stempera un po’ la mappazza del riso. Voto finale: approvato!” Carolina
Dall’introduzione del libro Ricette scorrette
(...) Nostra patria è il mondo intero
La considerazione secondo cui mangiare è anche un atto sociale e politico sta lentamente entrando a far parte della consapevolezza comune. Alimenti per vegetariani o per carnivori, cibi biologici o industriali, produzioni locali o merci globalizzante, presidi alimentari o piatti precotti: è sempre più chiaro che la scelta di cosa cibarsi ha conseguenze dirette sull’ambiente, incide sulle dinamiche economiche, contribuisce a modificare le condizioni di lavoro.
Con questo piccolo libro si è provato a spostare la questione e ad attribuire al cibo non solo un valore organolettico o economico, bensì a riconoscere una valenza simbolica di elemento identitario, e soprattutto si è cercato di verificare quanto siano friabili, in questo caso, i confini: «Attribuire simboli ai gesti alimentari – scrive Massimo Montanari – non è uno sfizio postmoderno, non è invenzione degli antropologi e degli storici. È un valore che nel gesto alimentare c’è sempre stato, da quando esistono gli uomini e forse anche da prima» (1).
Le ricette contenute in questo volume non intendono solo proporre nuovi sapori, che poi è l’aspetto primario di un libro di cucina, bensì testimoniare l’esistenza di un’alternativa alla semplificazione che si sta imponendo nei parametri culturali e sociali e, soprattutto, a riconoscere il valore dell’incontro squisitamente personale rispetto allo scontro di sistemi. Come scrive Marco Aime a incontrarsi o a scontrarsi non sono culture, ma persone (2). Rispetto alle politiche di esclusione, o viceversa di integrazione, che rischiano di essere inglobamento e normalizzazione, la condivisione e l’incontro, anche individuale, offrono la possibilità di andare nel concreto oltre l’identità, di verificare come questa sia transitoria e in continua evoluzione.
In ogni caso è stato stimolante scrivere questo testo, ogni incontro ha fornito emozioni e conoscenze nuove, ed è sperabile che anche un libro dal tono volutamente leggero e allegro come questo possa suggerire come la quotidianità, nello specifico la cucina, può fornire un piccolo contributo per oltrepassare il tema dell’identità.
A ribadire, sempre, che la nostra patria è il mondo intero.
1. Massimo Montanari, Cibo, storia, didattica, in «Il cibo e l'impegno. I Quaderni di Micromega», Roma 2004, p. 165.
2. Marco Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004.