Premessa
Vi sono molte maniere di relazionarsi con gli eventi; c’è chi li utilizza per raccogliere consensi, chi ne fa strumento di demagogia politica e religiosa, chi realizza attraverso di essi affari, chi attraverso di essi pone critiche contingenti. È difficile ragionare quando un evento comporta un’onda di sensazioni forti e spesso disperate, ed è al contempo difficile parlarne quando grossolanamente e viene smaccatamente utilizzato per i suddetti fini. Nel caso del recente terremoto risulta evidente ad esempio che parte dei lutti sia addebitabile all’esistenza di interessi economici formanti un tessuto di connivenze che ha reso possibile la costruzione di edifici in zona sismica in maniera incongrua o alla miopia, sempre mossa dagli interessi economici, che permette di considerare L’Aquila nella seconda zona per rischio sismico sebbene la distanza dalla zona a maggiore rischio non sia superiore ai dieci chilometri. Di tutto ciò non ci occupiamo; certi della capacità di interpretazione dei lettori di “A”, ma anche segnalando l’azione di approfondita informazione avviata da Umanità Nova con i resoconti di “Le compagne e i compagni di Spazio Libero 51. L’Aquila” e “Fricche”. Le successive riflessioni si limitano ad evidenziare la relazione stretta tra costruire e società e di come sia opportuno che la comunità gestisca direttamente il suo patrimonio e le sue abitazioni. |
Conoscenza scientifica e azione diretta
Le case sono costruite da grandi e piccole imprese, da singoli mastri, direttamente dai cittadini. Le abitazioni mono-bifamiliari costituiscono una significativa percentuale del totale delle residenze; se all’azione di costruzione si aggiungono i lavori di adattamento e manutenzione si comprende come l’azione diretta da parte degli abitanti sia una parte significativa nella gestione del patrimonio edilizio esistente. Un’altra parte dell’edificato è costituito da piccoli condomini che non presentano particolari difficoltà costruttive e che non necessitano di particolari progettazioni e approvazioni.
In questo quadro risulta evidente che le grandi imprese, i grandi tecnici, i “professori”, sono chiamati a progettare, ad esprimere un parere, a dirigere l’esecuzione dei lavori in casi numericamente molto, ma molto, limitati.
La qualità del costruito non è definita dagli edifici particolari ma dall’insieme degli edifici e quindi è determinata dal livello tecnico diffuso che permette al mastro, alla piccola impresa, al cittadino di conoscere in che maniera si può costruire, trasformare, modificare, adattare, gestire la propria casa.
Questa cultura diffusa non è sostituibile dalla conoscenza scientifica di pochi: ovvero la presenza della conoscenza scientifica non garantisce la presenza della cultura diffusa e non è garanzia del fatto che le abitazioni siano costruite bene. Maggiore è la qualità della cultura diffusa del costruire e più essa permea la società in tutti i suoi aspetti e nei ruoli che i diversi soggetti svolgono, a partire dall’amministrare fino a quello del gestire direttamente.
Nel tragico racconto di più terremotati è stato narrato come il crollo delle travi in cemento armato, aggiunte nelle coperture alla specifica finalità di aumentare la capacità di resistenza al sisma dell’edificio, abbia provocato insostenibili perdite di persone.
Eppure le integrazioni erano state studiate per garantire una maggiore sicurezza, tanto che quelle stanze erano state riservate proprio alla persone che più si importanti del nucleo familiare, ed erano state consigliate da tecnici addetti a questo scopo. Ed è evidente che in questi casi non si possa credere ad una cattiva esecuzione per risparmiare sui materiali.
Questa constatazione, unita alla colpevole superficialità con cui sono stati costruiti alcuni recenti edifici, mostra come la cultura del progetto antisismico sia rimasta interclusa nel ristretto ambito dei tecnici specializzati ovvero parte esigua dell’insieme dei progettisti. La generalità dei progettisti ha elementi informativi generali forse nemmeno sufficienti a garantire la qualità di un progetto antisismico ma ancora di più la società diffusa gli abitanti, i mastri, le piccole imprese non hanno elementi conoscitivi adatti a rispondere a questi problemi in maniera qualificata.
Questa espropriazione culturale è la concausa degli enormi danni e delle perdite umane.
Se il terremoto è un problema che investe tutta la comunità è necessario che la comunità stessa abbia conoscenze adeguate per gestire questo problema, abbia quindi le capacità tecniche diffuse che consentano di discernere come e quando intervenire sulla propria abitazione rivolgendosi ad operatori locali.
Ciò se ha un senso per quanto riguarda le nuove costruzioni ha maggior valore per quanto attiene l’intervento sul patrimonio edilizio esistente. L’adeguamento di questo tipo di edifici è un lento e parcellizzato intervento che consente nel tempo di migliorare l’efficienza mantenendo la qualità testimoniale, storica, abitativa, sociale dei manufatti; interventi che spesso sono di limitata entità che possono essere gestiti direttamente dagli abitanti con il supporto di tecnici e delle piccole imprese locali, nella stessa maniera in cui si è operato fino ad oggi nella conservazione dei centri storici e del patrimonio edilizio.
Bisogna dunque aprire le porte delle conoscenze alla comunità, riempire di informazioni tecniche basilari, semplici, sintetiche che permettano la gestione diretta da parte dei cittadini di quanto altri non possono fare.
La centralizzazione delle conoscenze, la perimetrazione della tecnica in specialismi non collegati con la società porta ad effetti disastrosi non solo a livello culturale.
Concentrazione dei profitti
e memoria del promotore
È da tempo che con più voce in ogni occasione possibile, si parla di nuovi assetti delle città ottenuti attraverso la sostituzione di parti degli insediamenti, non attraverso un continuo adattamento ma con un atto forte che ignora quanto prima vi fosse in quei luoghi e configura una nuova entità insediata.
Quale più quale meno, molte città del paese sono state oggetto di interventi finalizzati a sostituire edifici esistenti senza collegarsi con la società, i luoghi, i desideri diffusi ed anche la prima stesura del “piano casa” indicava questo metodo “demolitore” come strumento più efficace di riqualificazione.
L’occasione di un dopo terremoto non è stata persa per rimarcare la necessità di intervenire costruendo nuove città.
Il nuovo costruire mette in moto finanziamenti e opere concentrate e gestibili direttamente da pochi soggetti che nessuna ricostruzione può comportare. Se invece si interviene su un centro storico o su di un qualunque insediamento esistente per migliorarne l’efficienza strutturale, energetica, per mantenere la qualità storico culturale comunque si agisce con numerosi piccoli cantieri, in cui l’ingerenza delle diverse proprietà, la parcellizzazione degli interessi sono caratteri ineludibili e proprio le ridotte dimensioni dei cantieri e la tipologia dei lavori implica un consistente uso di manodopera. Costruire ex novo rende possibile la concentrazione della proprietà (in fase di costruzione) e dei cantieri, l’uso di tecniche e processi industrializzati, la riduzione dei tempi, la massimizzazione dei vantaggi economici per i costruttori, la vendita del prodotto una volta terminato. Non solo ma i due sistemi permettono una diversa gestione dei finanziamenti pubblici: il primo li distribuisce direttamente ai soggetti che hanno subito il terremoto il secondo le pone nelle mani delle grandi imprese.
Se questi caratteri sono quelli che motivano, da sempre, il partito dei costruttori del nuovo ve ne sono degli altri che in questo periodo si sono aggiunti.
Costruire il nuovo rende possibile la permanenza della paternità dell’intervento, materializza la memoria della persona, dell’individuo che ha promosso, progettato, costruito l’edificio. Di Pienza si ricorda il promotore ed il progettista ma non certo chi per cinquecento anni è intervenuto per gestire, mantenere, adattare gli edifici; e questo vale per tutti gli edifici e per tutti gli insediamenti.
La ricostruzione concede poca visibilità in quanto si parte dall’esistente e su di esso si poggiano le integrazioni e gli adattamenti tecnici e formali; l’azione rimane negli annali ma non permette la riconoscibilità dei soggetti.
La nuova costruzione rappresenta l’individuo in quanto rende possibile la concretizzazione di immagini “nuove”, che sostituiscono quelle precedenti, compongono il paesaggio e permangono nel tempo strettamente connesse al momento storico che le ha prodotte: la ricostruzione dell’esistente rappresenta al contrario la comunità che nell’agire ricostruendo tenta di mantenere una continuità con gli spazi che già viveva, una relazione con i luoghi che aveva già vissuto con la memoria e che ne compongono il presente senza tentare strappi in quanto non ha bisogno di riconoscibilità.
Il processo insediativo
La nuova costruzione conserva solo i monumenti con una rapporto di affiancamento; la ricostruzione si interessa alla conservazione di un tessuto insediativo nel quale le persone hanno abitato e sono interessate ancora ad abitare.
La ricostruzione può essere un sistema che garantisce anche l’aumento della qualità degli insediamenti in quanto interviene puntualmente a migliorare le condizioni di uso partendo da una condizione già consolidata; essa può intervenire senza ignorare il pregresso aggiungendo in particolare nei tessuti post bellici quella qualità che le nuove città post belliche non hanno avuto interesse a comporre e che le nuove città post terremoto non sono mai riuscite a raggiungere.
Il processo insediativo è un processo temporalmente lento che acquisisce qualità con continue aggiunte, con il passare del tempo nel quale gli abitanti adattano gli spazi alle forme della loro esistenza; è per questo che intervenire su tessuti consolidati pretende un’attenzione che il nuovo, se impostato come frattura con il vecchio come segno riconoscibile di un promotore o di un progettista, non solo non ne garantisce la qualità ma può mettere a repentaglio l’identità e la coesione delle popolazioni residenti.
Infine il recupero e la ricostruzione lasciano un tessuto di operatori formati sulle tecniche del costruire, delle persone soddisfatte per avere gestito l’adattamento delle proprie abitazioni, una comunità che ha operato direttamente (e quindi lavorato) per anni, ed ha accumulato esperienze e conoscenze. La costruzione di nuovi insediamenti lascia un edificato senza identità sociale, la memoria dell’immaginifico promotore, molta ricchezza a pochi operatori.
Di tutto questo ci sono esempi concreti: le città di nuova fondazione, ad esempio quelle Calabresi del dopo terremoto del 1783, hanno una astrattezza ancora oggi non colmata da duecento anni di vita, la ricostruzione di Gibellina, o il nuovo insediamento di in qualunque caso sia in Belice che in Irpinia mostrano che quando i centri sono stati abbandonati o sostituiti con nuovi insediamenti la comunità non è riuscita a ricomporsi a sentire propri quei luoghi anche in presenza di progetti di noti architetti.
È necessario sfuggire alla prosopopea e la alla demagogia della nuova città, quella bella perché nuova, quella funzionante perché voluta da un promotore buono, quella che risolve i problemi di tutti, e operare per recuperare le fila di un abitare che già esisteva integrando le parti, migliorandone il funzionamento al fine di garantire il massimo benessere alle persone includendo in esso un benessere culturale, tecnico e civile.