Il blues patafisico di Dick Annegarn
- Non si può cantare cento volte l’anno per due ore ogni sera con piacere. È un mestiere da puttane questo: dobbiamo simulare un piacere che non proviamo. Tutto puzza di prefabbricazione. È ora di smetterla, mi ritiro dalla mischia competitiva.
Fu più o meno con queste parole che Dick Annegarn all’apice del successo – un successo di nicchia, negli anni ’70, poteva essere un successo enorme e anche piuttosto lucroso – decise di abbandonare a soli 27 anni, e dopo 5 che lo faceva, “le metier”, il mestiere di “cantante originale” (etichetta incollatagli addosso dai suoi discografici), per andare a “vivere la vita” su una chiatta un po’ marcia ancorata sulla Marne, dalle parti di Anversa.
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Dick Annegarn |
Lì passò degli anni a rifarsi le forze e a rifarsi i suoi forse, a cercare i suoi perché, a proseguire l’affinamento tecnico del suo talento di grande chitarrista blues. Su quella chiatta marcia Dick non fece vita da eremita, d’artista che cerca suoni e parole per dialogare solo con se stesso. Su quella chiatta marcia, trasformata in una sorta di bar/associazione, Dick restò un uomo che canta per altri uomini, perché, certo modo di fare e suonare canzoni, non è solo esibizione, ma è punto di raccolta, punto d’ascolto per tutti coloro che cercano.
Fu per lui un’epoca di piccoli spettacoli, un po’ casuali ma non infrequenti, che rifiutavano ogni sovvenzione. Dischi totalmente autoprodotti in fiera autarchia: la vita libera di una ricerca senza compromessi.
Da quell’epoca è nata l’idea di una sorta di festival, che oggi Dick dirige in Guascogna, un festival della “parola”, che rifugge dal concetto di parola scritta, pensata, non un festival della “canzone d’autore” dunque, ma un festival delle parole improvvisate, da cui emergano gli elementi musicali, sciamanici e liberatori della parola stessa.
Sono già dieci anni poi – dal 1997 quando pubblicò lo splendido “Approche-toi”, l’album definito del ritorno – che Annegarn fa di nuovo dischi, sempre diversi, in una dimensione umana, con la piccola (ma molto grande, per altri versi) etichetta “Tot ou tard”, vera miniera di nomi nuovi della canzone francese e di glorie che hanno avuto il talento di “diventare vecchie ma non adulte”, come lui.
Ha ritrovato così anche la strada del palco: non le tournées di centinaia di date casuali, affiancato da manager di cui non si fidava, appioppatigli dalla casa discografica, non la foga di quando si trovò a riempire l’Olympia a 22 anni, ma succosi grappoli di date, in giro per Francia e Belgio, con piccoli ensembles di musicisti, con arrangiamenti straordinariamente creativi che riscrivono in continuazioni le sue canzoni – quelle di oggi, come quelle del 1971 – ad esempio la canzone Bruxelles che gli ha dato la notorietà (e, per la cronaca, di recente la cittadinanza onoraria della capitale belga).
Bruxelles, mia bella, ora ti raggiungo
dal momento che Parigi mi tradisce
e sento che il suo amore inacidisce e poi
sospetta che io passi con te le mie notti…
E io confesso, è vero, ogni sera nella mia testa
è la festa dei veterani di una guerra mai dichiarata
Bruxelles, guarda, arrivo, presto prenderò la deriva…
Michel, ti ricordi dell’angoscia, della kermesse
della stazione centrale, ti ricordi della tua Sofia
che manco ti riconosceva, i neon, i leoni, i nomi di dio
sublime decadenza, la danza delle pance
ministero della birra, arteria verso l’inferno
piazza Brouckére.
Crudele duello quello che oppone
Parigi nevrotica a Bruxelles abbrutita
che dice che ben presto sarà finita la noia della noia.
Mi rivedrai Madamigella Bruxelles
ma non sarò più quello che hai conosciuto
sarò abbattuto, spossato, combattuto
ma sarò lì.
Bruxelles, guarda, arrivo, presto prenderò la deriva. (1973)
- Io non volevo neanche inserirla nel disco, è un po’ troppo un esercizio di stile, come tutte quelle canzoni sulle città…
Alla fine ho acconsentito perché non è del tutto una canzone su Bruxelles, è una canzone su Michel, il mio compagno. Essendo io omosessuale, già quando dico “Bruxelles mia bella”, mi riferisco a una sposa immaginaria, una sposa un po’ ridicola. In più, quando l’ho scritta, già vedevo nei miei coetanei una certa nostalgia da ex contestatori sessantottini – la canzone è del ’72 – così quella canzone è una lotta contro il ricordo, contro la nostalgia della resistenza, per una resistenza che è ancora tutta da farsi e che io mi sono forgiato con la vita.
Quando nel ’73 si affacciò alla ribalta, quando sporse il suo sguardo timido eppur determinato dagli schermi televisivi in bianco e nero, quando cominciò a trascinare per le scene musicali quel corpo di gigante (oltre un metro e novanta) goffo, ma pieno di una grazia un po’ marziana, Benedictus Albertus Annegarn – oriundo olandese cresciuto, al seguito del padre traduttore, in Belgio e poi in Francia – apparve subito come un musicista inclassificabile, innovativo ed estraneo a tutto ciò che aveva attorno… e non aveva che 21 anni.
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Dick Annegarn |
Colpì subito l’impressionante perizia di chitarrista, capace di accompagnarsi con elaborati giochi ritmico-percussivi, accordi jazzati, svisate blues. Colpì la voce, fuori dall’intonazione, ma straordinariamente coerente e musicale nella capacità di scandire e adattare le sillabe del francese a ritmi così estrosi e melodie così aliene. Colpì l’accento straniero, accostato a una padronanza di ogni sfumatura linguistica, una vena di giocoliere della parola e surrealista moderno, che con una danza di parole leggere affrontava temi spessi e impegnati.
La signora maestra
è morta stamane all’alba
immersa nell’acqua della vasca
c’è chi dice ch’è deceduta
io dico che s’è suicidata.
Era piccola e brizzolata
abbigliata e abile come governante
i suoi armadi di fard e di compiti
non proteggevano più la sua storia.
Era ieri nell’ora di storia
l’impero romano contro i barbari.
Ha detto: comincia l’inizio della fine
l’impero romano perirà domani.
Forse può essere che è meglio così
l’impero romano in paradiso
ed eccoci qui senza istituzioni
senza istruttrici colla crocchia.
La sua vita non era certo bella
signorina, signora vedova e signorina…
Vedete cosa dico? Non lo vedete?
Ciò che voglio dire non ve lo dirò. (1973)
È restato poi sempre quello che era Annegarn, che si considera un buon allievo dei patafisici; se mai col tempo il suo lavoro sulla parola s’è fatto meno giocosamente compiaciuto, ed è divenuto via via più secco, descrittivo.
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Dick Annegarn |
Dick scava con le unghie sulle corde del fondo della vita, in una serie di canzoni sui personaggi a lui cari – personaggi veri o inventati – che compongono una galleria di ritratti. Il ritratto è un genere in cui eccelle, nel suo ultimo CD del 2008, ne ha dedicato uno al maestro di vita Jacques Brel.
Jacques, ti do del tu come un amico
che faccia parte della famiglia dei Brel
Jacques, t’intravvedo come un marchese
che è partito partigiano ribelle.
Tu sei passato, e ripassato
col pantalone troppo ben stirato
cosa ti capita, come passi le notti
perché ti nascondi, perché fuggi?
Jacques, non ti ci vedo in paradiso
è un paese troppo piccolo, pudibondo…
Jacques in che tempesta ti sei cacciato
una grande festa come dipinta da Breughel (…)
Jaques mica so dove sei partito
un partigiano si fa amici per la vita. (2008)
Un altro – in forma di lettera delirante e luminosa – di Vincent Van Gogh al suo fratello-amante Theo.
Theo, che bello un quadro vivente
Theo ho bisogno di soldi (…)
Dipingiamo assieme ciò che ci siamo detti dai nipoti
le nostre anime provengono dalla stessa madre
dipingiamo assieme e vendici se vuoi
tu e i tuoi visionari.
Devo ancora un mese alla madre di Adeline Ravoux
forse devo regolare il contatore dell’acqua prima dimartedì, mannaggia.
Devo pagare la bibita gialla al veleno verde chiaro di luna
forse dovrei toccare
terra.
Pensare quadri a misura dell’universo
ecco lo scopo del mio spirito fratello
immergere il pennello nell’acqua del fiume
la pianura di Caux come falange. (2008)
Qualche anno prima aveva già fatto il ritratto del grande poeta ungherese Attila Jozsef.
Cosa ne so di quel poeta
se non che aveva il verbo breve
e che si chiamava Attila, Attila Jozsef.
In antica Transilvania
nacque un povero giorno
suo padre era già partito, l’amore breve.
Le sue sorelline e la madre
vivevano nelle stesse due stanze
con altri coinquilini, poco avare delle loro chiappe.
Gli hanno cambiato famiglia
che gli ha cambiato il cognome
amico in terra nemica, bambino senza pallone.
È cresciuto invecchiato
leggendo tutto quello che si legge
vivendo per quel po’ di tregua che gli ha lasciato il destino.
Lo hanno radiato dalle scuole
per false indecenze
senza giri di parole ci predica il delitto d’innocenza.
Lasciò anche il partito
che non lo accettò
ha preso parte ed è partito per l’eternità.
Ha lasciato casa
per fare un giro per sempre
ha sceso la scalinata senza ritorno.
Povero magiaro, avresti voluto convalidare la tua storia
ma non avresti potuto fare meglio. (1997)
Sono tutti personaggi che esprimono quel senso di estraneità, di umano errore, di prossimità aliena che – si potrebbe dire – è da sempre il tema più esplorato dalle sue canzoni, che siano dedicate al mito letterario di Ubu o che descrivano il cucciolo di elefante che ha smarrito il branco dei suoi simili, e che, enorme paradosso, si muove invisibile nella giungla di un’esistenza ingrata, come l’autore di questi versi, al contempo timido, beffardo, triste, ironico, geniale musicista.
Sono un cucciolo d’elefante perduto
per favore potreste cercarmi?
Non mi sento a casa mia in questa giungla sconosciuta
per quel che ne so tutti sono incorsi in qualcosa
nessuno sa di dove sono
sono uno scontroso, ineducato.
Quale tribù vorrebbe adottarmi?
Sono un profugo senza carta d’identità
mi piegherei ai vostri costumi
se poteste accettare il mio volume. (1973)
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
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