Nei primi anni Sessanta George Woodcock affermò che il 1939 segnò la vera e propria morte in Spagna del movimento anarchico. I gruppi, periodici, scuole e comunità che vennero dopo avrebbero soltanto costituito il fantasma del movimento anarchico storico. (1)
L’affermazione potrebbe sembrare plausibile, se non fosse che è stata l’analisi-tipo dell’anarchismo sin dai suoi albori. Per gran parte della storiografia, gli anarchici sono sempre stati dei perdenti e non potevano essere altro che questo. L’anarchismo è descritto di volta in volta come un’ideologia morta, morente o destinata a morire, a seconda del periodo di cui uno si occupa. Il compito dello storico diventa quindi quello di spiegare perché le cose non avrebbero potuto andare altrimenti.
La storiografia marxista ha seguito un modello stabilito dallo stesso Marx, il quale bollò l’anarchismo come una forma di settarismo tipico delle fasi iniziali dello sviluppo del proletariato. Nell’ambito di questo modello, troviamo sempre l’anarchismo dalla parte sbagliata dell’inesorabile corso della storia. Di conseguenza, la trama tipica della storiografia marxista dell’anarchismo è sempre in chiave di “fine,” “morte” o “liquidazione.” Per esempio, nei lavori di storici come Elio Conti, Luciano Cafagna, Franco Della Peruta ed Enzo Santarelli, l’anarchismo italiano viene dato per morto a un’epoca che varia dal 1877 al 1891, benché si aggiunga che continuò tuttavia a serpeggiare fra le classi subalterne fino a dopo la seconda guerra mondiale. In breve, lo schema marxista è il seguente: qualunque sia il periodo in questione, dopo un’effimera vampata di attività l’anarchismo dovette soccombere al corso della storia proprio alla fine di quel periodo, agonizzando poi per un periodo indefinito di tempo e mostrando spesso una sorprendente vitalità durante tale agonia. (2)
Il giudizio della storiografia liberal di lingua inglese ha invece i toni del paternalismo. Un primo necrologio fu emesso nel 1911 da Ernest Alfred Vizetelly, il quale riconobbe che l’anarchismo meritava comprensione, ma dichiarò che i suoi eccessi lo predestinavano a una brutta fine. Irving Louis Horowitz conferma che “l’anarchismo era destinato al fallimento,” trattandosi di un punto di vista assurdo. Tuttavia, “le sue stesse assurdità e carenze” derivano in parte dalla società moderna: “gli anarchici sono una romantica, assurda specie che non può, grazie al cielo, adattarsi agli eccessi oppressivi della civiltà.” Secondo Raymond Carr, gli anarchici erano “commoventi nella loro sincerità,” ma “ingenui fino all’autodistruzione.” Infine, per James Joll la storia dell’anarchismo illustra la sua incoerenza e impossibilità di essere messo in pratica. Tuttavia egli riconosce che l’anarchismo ha costituito una minaccia costante all’autocompiacimento borghese, e conclude: “Ci sono stati pochi periodi nella storia umana in cui abbiamo avuto bisogno di ciò più di oggi.” Insomma, in contrasto con la storiografia marxista, che si affretta a suonare le campane a morto per l’anarchismo, la storiografia liberal gli augura una lunga vita di fallimento permanente. (3)
I due destini attribuiti all’anarchismo, quello di essere sorpassato e quello di essere irrazionale, sono fusi insieme nell’autorevole analisi di Eric J. Hobsbawm nel libro I ribelli: forme primitive di rivolta sociale (Torino, 1966). Hobsbawm interpreta l’anarchismo come un movimento millenario, sostenendo che il suo rivoluzionarismo astratto e la sua indifferenza verso i mezzi politici pratici implicavano che l’anarchismo fosse non solo irrazionale, ma anche immutabile. Come rileva Jerome Mintz nell’ammirevole The Anarchists of Casas Viejas (Chicago, 1982), Hobsbawm “mette in un unico fascio o considera intercambiabili tendenze e idee del 1903-5, 1918-20, 1933, e 1936.” A sua volta, tale immutabilità fornisce a Hobsbawm la giustificazione per estendere il suo verdetto dal passato al futuro, concludendo che l’anarchismo ha una storia fatta di invariabili fallimenti ed è destinato ad essere associato dai posteri a quei profeti che, benché non disarmati, non seppero che fare delle loro armi, e furono sconfitti per sempre.
Controculture anarchiche
Gli eventi del 1968 e la comparsa della “nuova storia sociale” hanno cambiato lo scenario. Un rinnovato interesse per l’anarchismo ha dato origine a uno stuolo di opere che hanno messo questo movimento in una luce positiva, mettendo in risalto la capacità dell’anarchismo di adattarsi ai mutamenti di condizioni. Tuttavia, l’attribuzione d’irrazionalità è tutt’altro che scomparsa, riaffiorando in modi meno grossolani ma altrettanto seri. Per esempio, Peter Marshall, nel suo enciclopedico volume Demanding the Impossible (Esigere l’impossibile) (Londra, 1993), sostiene con ardore la validità dell’anarchismo, impegnandosi a confutare idee erronee, come la sua usuale associazione col terrorismo. Tuttavia, sulla spinta di tali preoccupazioni, la sua discussione della violenza anarchica finisce per avvalorare alcuni dei piatti forti dello stereotipo irrazionalista, come quando fa notare che “il massimo della violenza delle loro azioni non è andato solitamente molto oltre l’innalzamento di barricate o l’ingresso in qualche villaggio muniti di armi rudimentali,” proprio come supporrebbe lo stereotipo millenario. Qualche altro esempio preso da periodi e paesi diversi può servire a illustrare ulteriormente questo punto.
Bruce C. Nelson, in Beyond the Martyrs (Al di là dei martiri) (New Brunswick, 1988), si occupa dei fatti di Chicago del 1886, concentrandosi non sugli “alberi,” i leader martiri, ma sulla “foresta,” il movimento e la sua cultura, che avrebbe racchiuso la vera ideologia del movimento. Egli sostiene che “l’idea di Chicago” è compresa al meglio quando è vista non come anarchica, ma come espressione di una tradizione di repubblicanismo artigiano, rimodellata in termini socialisti. Mentre l’anarchismo di Chicago finì coi fatti di Haymarket, conclude Nelson, il movimento in senso lato confluì nella più ampia corrente del movimento operaio americano, costituendo così l’eredità autentica di Haymarket. Nel libro Workers, Neighbors, and Citizens (Lavoratori, vicini di casa e cittadini) (Lincoln, 2001), John Lear tesse una trama simile a proposito dei lavoratori urbani di Città del Messico nel periodo della rivoluzione messicana, quando essi erano organizzati dal sindacato anarchico Casa del Obrero Mundial.
Un filone di ricerca affine è quello che mette in risalto i concetti di controcultura e comunità alternativa. Nel volume Anarchist Ideas and Counter-Cultures in Britain, 1880-1914 (Aldershot, 2005), Matthew Thomas mette in discussione la tesi che l’anarchismo britannico ebbe un’importanza trascurabile. Analizzando le controculture anarchiche riguardanti le relazioni sessuali, la pedagogia, le comuni alternative e i lavoratori, Thomas illustra il loro impatto su di una cultura politica più ampia. Nel fare ciò, delinea un contrasto fra pragmatismo possibilista e purismo impossibilista. Egli sostiene che gli anarchici furono efficaci nella misura in cui sacrificarono il purismo, rappresentando così con la loro azione un “atto d’accusa all’anarchismo come ideologia.” La transizione dal terreno istituzionale a quello culturale è ancora più netta nel libro di Richard D. Sonn Anarchism and Cultural Politics in Fin de Siècle France (Lincoln, 1989). Secondo Sonn, la sottocultura anarchica interpretò efficacemente la mentalità delle classi subalterne parigine e attrasse gli artisti d’avanguardia. Tuttavia, tale fermento culturale fu in relazione inversa alla capacità degli anarchici di organizzarsi e di promuovere i loro scopi. Analogamente, in Paris and the Anarchists (New York, 1996), Alexander Varias si occupa della relazione fra l’anarchismo e la cultura parigina. Egli sostiene che la forza dell’anarchismo parigino risiedeva nella sua varietà, che gli permetteva di affrontare le questioni culturali al centro della vita parigina. Però la sua varietà costituiva anche la sua debolezza, poichè Parigi era una città dai mille contrasti, che l’anarchismo rispecchiava.
Nella loro varietà, tutti questi libri mettono in risalto il realismo e l’efficacia dell’anarchismo. Però tale efficacia non è misurata in relazione agli scopi degli anarchici, bensì in contrasto con essi. Per i movimenti operai studiati da Nelson e Lear, come per le controculture di Thomas, gli obiettivi anarchici sono considerati in ultima analisi dei fastidi. Come tali, o venivano accantonati dai lavoratori, nella sostanza se non nella forma, oppure finivano per diventare un’ingombrante zavorra. Realismo, adattabilità, utilità ed efficacia vengono presentati come incompatibili con gli obiettivi anarchici, considerati invece sinonimi di purismo e impossibilismo. Analogamente, per Sonn e Varias, la varietà stessa che metteva gli anarchici in grado di affrontare le questioni del giorno impediva loro di perseguire con successo i loro scopi.
Dal punto di vista della razionalità, nel senso di coerenza fra ciò che si desidera, si crede e si fa, coloro che condividono il giudizio di Hobsbawm sulla “monumentale inefficacia” dell’anarchismo e coloro che cercano di riscattare l’anarchismo da questa accusa sono le due facce della stessa medaglia irrazionalista, ben rappresentata dal comune concetto dell’anarchismo come movimento necessariamente sconfitto, o permanentemente fallimentare. Gli uni prendono sul serio gli scopi dichiarati dagli anarchici e mettono in risalto l’inadeguatezza e la futilità dei mezzi impiegati per perseguirli. Gli altri prendono sul serio i mezzi degli anarchici, mettendone in risalto l’adattabilità ed efficacia, ma li valutano secondo un metro diverso dagli scopi “ufficialmente” dichiarati, che tendono a essere considerati, nella migliore delle ipotesi, come lettera morta, e, nella peggiore delle ipotesi, come un peso morto. In entrambi i casi, ciò che manca è la comprensione razionale di come gli anarchici scegliessero i loro mezzi alla luce dei loro fini. In un modo o nell’altro, ci si spiega l’anarchismo introducendo in qualche passaggio un elemento di stranezza, di incongruenza o di irrazionalità, vuoi sotto forma di scopi impossibili, di mezzi futili o di convinzioni assurde. Purtroppo, però, l’attribuzione di irrazionalità influisce negativamente su come gli storici affrontano il loro lavoro. È una scorciatoia che fa dare spiegazioni semplicistiche invece di trovare un senso all’agire umano. Nulla è mai così bizzarro o sconcertante che l’irrazionalità non sia a portata di mano come opportuna spiegazione. In breve, l’attribuzione di irrazionalità promuove una storiografia di livello inferiore.
Nessuna benevolenza
Va detto che le spiegazioni irrazionalistiche non sono il monopolio della storiografia. L’attribuzione di irrazionalità è stata oggetto di ampio dibattito nelle scienze sociali. In particolare, è stata vigorosamente messa in discussione da teorie secondo le quali la razionalità è un principio metodologico piuttosto che un’ipotesi empirica. Tali teorie si prestano ad essere estese al campo della storiografia, offrendo così un’alternativa al modello irrazionalista. In particolare, la razionalità è al centro della teoria dell’interpretazione difesa specialmente dai filosofi americani Willard V. O. Quine e Donald Davidson. La teoria sostiene che il presupposto fondamentale nell’interpretare un’altra persona è di considerarla un agente razionale. Il nocciolo della teoria è il principio metodologico noto come “principio di benevolenza” interpretativa (principle of charity), che Quine applica al problema della traduzione. Secondo Quine, asserzioni che, a giudicare dalle apparenze, sono di una sbalorditiva falsità, dipendono probabilmente da differenze di linguaggio nascoste; e la stupidità dell’interlocutore, al di là di un certo limite, diventa meno probabile che una cattiva traduzione. Quanto più assurde sono le idee attribuite a un soggetto, tanto più sospetta è la traduzione. (4)
Il punto di partenza di Davidson è che né il linguaggio né il pensiero possono essere interamente spiegati l’uno per mezzo dell’altro e nessuno dei due viene concettualmente prima dell’altro. Nel fornire simultaneamente una teoria della credenza e una teoria del significato è possibile attribuire pensieri e azioni irrazionali a un agente, ma ciò impone un onere su tali attribuzioni. Per esempio, spiega Davidson, se vediamo un uomo tirare un pezzo di corda da entrambe le estremità possiamo concludere che egli vuole muovere la corda in direzioni incompatibili. Tale spiegazione richiederebbe una elaborata giustificazione. Invece non sorge alcun problema se la spiegazione è che egli vuole rompere la corda. La chiave di volta della soluzione di Davidson all’identificazione simultanea di ciò che un agente vuol dire, crede e desidera è una “politica di adattamento razionale.” Tale linea di condotta ci chiede di adattare le nostre interpretazioni alle parole e atteggiamenti degli altri in modo tale da rendere comprensibili i loro discorsi e comportamenti. Ciò ci richiede necessariamente di considerare gli altri pari a noi in fatto di coerenza e correttezza complessiva. Davidson sottolinea che tale linea di condotta non è una scelta fra tante alternative possibili. Invece, “è l’unica linea di condotta disponibile se vogliamo comprendere le altre persone.” (5)
Gran parte della storiografia dell’anarchismo ha preso una direzione opposta a una politica di adattamento razionale. In contrasto col risalto dato da Davidson all’interconnessione olistica fra credenze, desideri e mondo, nonché alla sua direttiva di ottimizzare sia la coerenza interna dell’interlocutore che la sua coerenza con la verità, tutte le analisi storiche precedentemente discusse introducono in qualche punto forme di distacco dalla realtà, contraddizioni interne o convinzioni illogiche. La benevolenza interpretativa, nel senso di un’impostazione metodologica rigorosa, è largamente assente dalla storiografia dell’anarchismo. Comprendere l’anarchismo nei termini suoi propri significa che ogniqualvolta lo comprendiamo in termini che appaiono stravaganti o irrazionali, è la nostra comprensione che dobbiamo mettere in dubbio per prima. Sia per le caratteristiche intrinseche della sua teoria e tattica che per il fatto di essere stato spesso costretto alla clandestinità, l’anarchismo ha usato risorse di tipo diverso da quelle di altri movimenti. Di conseguenza, bisogna affrontare problemi convenzionali con impostazioni non convenzionali per riscattare l’anarchismo dalla sua apparente stranezza.
Il divario fra l’apparenza e la realtà dell’anarchismo è ben illustrato dalla questione dell’organizzazione. Se uno dovesse studiare l’anarchismo italiano attraverso le sue organizzazioni durante i quasi quarant’anni intercorsi fra la Prima Internazionale e la prima guerra mondiale, troverebbe ben poco materiale su cui lavorare. Un tentativo di creare un partito ebbe luogo nel 1891, col congresso di Capolago, ma ebbe vita breve. Se si eccettua l’Alleanza socialista anarchica italiana del 1907, per avere un’altra organizzazione formale su scala nazionale bisognerà attendere il 1919, con la formazione dell’Unione comunista anarchica italiana.
La storia dell’anarchismo italiano segue un modello ciclico, fatto di scoppi di rivolta seguiti da periodi di quiete e da rinascite, simile a quello identificato da Hobsbawm in Spagna. Così, anche storici che hanno respinto l’analisi millenaristica, come Nunzio Pernicone nel suo Italian Anarchism, 1864-1892 (Princeton, 1993), hanno rilevato che il movimento italiano sembrava “bloccato in un circolo vizioso di avanzate e ritirate,” nel quale ogni risveglio coincideva con una nuova ondata di repressione che spazzava via tutto ciò che era stato realizzato. Tale modello suggerisce un’immagine di impotenza di fronte alla repressione e di cicliche ricomparse come per germinazione spontanea, prestandosi così a interpretazioni che identificano discontinuità, spontaneismo e mancanza di organizzazione come tratti salienti dell’anarchismo.
Movimento transnazionale
Tuttavia, una politica di adattamento razionale può condurre lo storico a mettere in discussione le apparenze. Una volta imboccata questa strada, può accadere di scoprire che la mancanza di organizzazione formale non significa che gli anarchici non si organizzassero, ma piuttosto che non si organizzassero formalmente. La conseguenza è che lo storico non può occuparsi soltanto di congressi, programmi di partito e strutture istituzionali, ma deve soprattutto rivolgere l’attenzione alla fitta rete di collegamenti fra individui e gruppi, se vuole studiare come l’anarchismo funzionasse collettivamente. Nell’intreccio di duraturi e molteplici legami personali fra individui e gruppi si può rintracciare la coordinazione e continuità che di solito viene cercata nelle strutture impersonali e nei ruoli fissi delle organizzazioni formali. Gli anarchici si organizzavano, ma il carattere necessariamente sotterraneo di tale lavoro lo fa scomparire dai resoconti storici. Agitazioni alimentate da preparazioni sotterranee, come quelle del 1° maggio 1891 a Roma, affioravano sotto l’apparenza di tumulti spontanei di folle facilmente eccitabili, rafforzando così lo stereotipo irrazionalistico. Analogamente, le apparenti scomparse dell’anarchismo italiano sono da imputare allo storico, non al movimento, la cui continuità e risorse organizzative erano maggiori di quanto le analisi di ambito nazionale possano rivelare. L’anarchismo italiano era un movimento transnazionale che abbracciava l’Oceano Atlantico e il Mar Mediterraneo. Le sue apparenti entrate e uscite sulla scena nazionale corrispondevano in realtà a passaggi di mano dell’iniziativa dal territorio italiano al segmento transnazionale del movimento, specialmente in tempi di repressione.
Il divario fra apparenza e realtà è altrettanto lampante riguardo alle idee degli anarchici sull’organizzazione. Come ha osservato lo storico dell’anarchismo spagnolo Gerald Brenan, la vera storia del movimento anarchico non è contenuta nei libri, ma nella sua stampa periodica e nelle memorie degli anarchici viventi. Perciò, concentrarsi su pensatori autorevoli e libri per tracciare la storia delle idee anarchiche può essere fuorviante. Per esempio, nessun libro o opuscolo degno di nota riguardo all’organizzazione è reperibile nella letteratura italiana anarchica fino alla prima guerra mondiale. Eppure l’organizzazione fu l’oggetto della più accesa, lacerante e durevole controversia dell’anarchismo italiano, condotta per decenni nella stampa. La controversia aveva implicazioni profonde, riguardanti specialmente la partecipazione al movimento operaio. Inoltre, la controversia italiana somigliava notevolmente a quella fra collettivisti e comunisti in Spagna. Infatti, anche quest’ultima controversia sorse sul terreno della tattica. Allorché le idee comuniste-anarchiche penetrarono in Spagna, gli elementi dissidenti divennero seguaci della nuova ideologia, ma le divergenze teoriche rimasero legate a quelle organizzative. Non più tardi degli anni 1890 la controversia si ridimensionò nella sua componente teorica, ma la divergenza tattica restò viva. In breve, la tattica non fu soltanto una componente importante ma accessoria della controversia in Spagna, ma ne fu la vera sostanza.
La morale è che, in contrasto con l’indifferenza per i mezzi pratici asserita dall’interpretazione millenaristica, la principale preoccupazione degli anarchici, in Italia come in Spagna, non riguardava lontane utopie, bensì i mezzi più proficui da impiegarsi nell’ora presente. Mettere in risalto tale interesse per la questione dell’organizzazione implica guardare l’anarchismo con un occhio diverso. Per esempio, diventa problematico considerare la Spagna come il caso eccezionale di un paese in cui il collettivismo sopravvisse più a lungo che altrove. La realtà è invece che le stesse questioni tattiche furono dibattute per decenni tanto in Spagna quanto altrove. Più in generale, occorre rivedere a fondo le classificazioni delle correnti anarchiche. Categorie standard, come individualismo, collettivismo, comunismo e anarco-sindacalismo spesso nascondono più di quanto rivelino. Viceversa, una suddivisione basata sull’organizzazione e la partecipazione al movimento operaio mette in luce affinità neglette fra gli organizzatori italiani, i collettivisti spagnoli e i sindacalisti francesi.
Nonostante il suo ampio respiro, il dibattito anarchico sull’organizzazione è passato per lo più inosservato al di fuori degli ambienti anarchici. Eppure fu un dibattito di notevole spessore e complessità. In contrasto col grossolano stereotipo degli anarchici puramente e semplicemente avversi all’organizzazione, molte idee dibattute fra organizzatori e anti-organizzatori sono diventate patrimonio comune della letteratura sociologica, in particolare attraverso l’opera di Robert Michels, il cui libro La sociologia del partito politico nella democrazia moderna è stato definito “uno dei libri più influenti del ventesimo secolo.” In questo libro Michels riconosce che gli anarchici furono i primi a insistere sulle conseguenze gerarchiche e oligarchiche dell’organizzazione di partito. La questione non riguardava se organizzarsi o no, bensì l’organizzazione formale. Gli anti-organizzatori si opponevano alla conformità alle regole prodotta dalla burocrazia, una questione la cui importanza e le cui conseguenze controproducenti sono state successivamente riconosciute da sociologi come Robert K. Merton. Gli anti-organizzatori intendevano arrestare l’organizzazione nel punto in cui essa sfociava nella burocrazia. Focalizzando sui possibili esiti autoritari dell’organizzazione anarchica, al di là delle intenzioni dei membri, il dibattito verteva sul tema, noto ai sociologi, delle “conseguenze involontarie dell’azione sociale intenzionale.”
In un altro classico delle scienze sociali, La logica dell’azione collettiva, Mancur Olson sostiene che i beni collettivi non vengono forniti nei gruppi numerosi a meno che vi sia coercizione o incentivi speciali. Olson contrappone questa tesi con l’errore, che egli bolla come “anarchico,” di credere che, una volta rovesciato lo stato repressivo e sfruttatore, una nuova, volontaria e naturale unità emergerebbe in qualche modo per sostituirlo. Allo stesso tempo, egli sostiene che i piccoli gruppi sono più efficaci di quelli numerosi. Ebbene, quest’ultimo era l’argomento principale degli anarchici anti-organizzatori. Olson ammette anche che i gruppi federati, anche numerosi, sono l’eccezione alla regola generale da lui enunciata. Ebbene, la federazione è la forma standard di organizzazione anarchica. Infine, Olson concede che gruppi anche numerosi che lavorino per un’utopia possono avere un motivo per agire come gruppo. Così, piuttosto sorprendentemente, Olson rivendica senza volerlo la razionalità delle idee anarchiche sull’organizzazione, benchè egli travisi la realtà dell’anarchismo.
Riconoscere che la razionalità di un agente è un presupposto metodologico, piuttosto che un’ipotesi da sottoporre a controllo empirico, implica che l’attribuzione di irrazionalità segnali più delle manchevolezze nell’osservatore che nell’agente osservato. Quando uno storico di professione come Perez Zagorin, recensendo il libro di Joll, scrive che “il disinteresse e l’eroismo dei migliori attivisti anarchici destano la nostra ammirazione, ma allo stesso tempo la loro stupidità ci irrita e sconcerta,” egli esprime un sentimento diffuso che la dice lunga sul perché della qualità scadente di buona parte della storiografia dell’anarchismo. Quanto più tali asserzioni sono fatte a cuor leggero, tanto più esse testimoniano la “monumentale inefficacia” della storiografia che rappresentano.
La razionalità
dell’anarchismo
La rinascita dell’anarchismo negli anni Sessanta ha messo a nudo tale inefficacia, costringendo molti storici a smorzare i toni di asserzioni precedenti. Hobsbawm ha chiamato quel risveglio “inatteso” e “sorprendente,” pur ritenendolo al tempo stesso “ingiustificato”; e Woodcock ha pubblicato una nuova edizione del suo libro che, al contrario della precedente, non era più “un’elegia funebre.” (6) Eppure, col senno di poi, storici più recenti hanno riesumato il modello dell’anarchismo come movimento permanentemente fallimentare. Così, secondo Varias, il 1968 fu la ricomparsa di un movimento “destinato a essere diviso, incoerente, e senza uno scopo comune,” e che perciò “non avrebbe mai potuto essere altro che una sottocultura.”
A dispetto delle inadeguate ma ostinate analisi dell’anarchismo in termini di discontinuità, spontaneismo, fasi cicliche e predestinazione al fallimento, la rinascita anarchica degli anni Sessanta può risultare meno sorprendente se si comprende meglio la razionalità dell’anarchismo. Al centro della teoria e tattica anarchica vi è il principio della coerenza fra mezzi e fini, che non è un dogma, ma deriva dalla preoccupazione pragmatica di rimanere sulla strada giusta. Di conseguenza, gli anarchici non considerano la sconfitta come un fallimento incondizionato. Per loro, l’abbandono dei principi anarchici costituisce un fallimento maggiore della sconfitta. Ancora una volta, in contrasto con lo stereotipo irrazionalistico degli anarchici come paladini donchisciotteschi delle cause perse, tale atteggiamento è motivato razionalmente da ragioni di opportunità nel perseguimento dello scopo ultimo degli anarchici.
Il dibattito anarchico sull’antimilitarismo durante la prima guerra mondiale esemplifica bene quest’ultimo punto. In opposizione a Kropotkin e ad altri, che sentivano come loro dovere il prendere posizione sul conflitto, Errico Malatesta sostenne che quando agli anarchici mancano le forze materiali per agire efficacemente allo scopo di indebolire lo Stato e le classi capitalistiche, il loro dovere è “di rifiutare ogni volontario aiuto alla causa del nemico e tenersi in disparte per salvare almeno i proprii principii, vale a dire, per salvarsi l’avvenire.” In contrasto col crollo della Seconda Internazionale sulla questione della guerra, la fermezza della maggioranza degli anarchici nel sostenere i loro principi e nel sopportare la loro momentanea impotenza salvò proprio l’avvenire. Da allora in poi l’antimilitarismo è diventato non soltanto una pietra angolare indiscussa dell’anarchismo, ma anche un elemento fondamentale della maggior parte dei movimenti di sinistra.
Le sconfitte storiche dell’anarchismo rimangono tali. Eppure, mentre storici poco caritatevoli hanno sentenziato che esse erano la conferma inappellabile della futilità dell’anarchismo, quelle sconfitte sono state il presupposto delle successive rinascite dell’anarchismo, perché nelle loro sconfitte gli anarchici furono sensibili alla necessità di salvare l’avvenire. In questa luce ci si può spiegare meglio il senso dell’anarchismo fra gli anni Quaranta e Sessanta. Non è vero né che la sconfitta degli anarchici spagnoli nel 1939 segnò la morte dell’anarchismo, né che la sua rinascita nel 1968 avvenne per germinazione spontanea. Nel periodo compreso fra quelle due pietre miliari gli anarchici continuarono a elaborare le loro idee. Elementi del pensiero anarchico sono penetrati in molti aspetti della vita sociale e culturale, dall’arte alla scienza e tecnologia, alle relazioni sessuali. Se in questo periodo l’anarchismo era un fantasma, doveva essere un fantasma molto vivace. Dovunque gli anarchici fossero troppo pochi per avere un impatto come movimento di massa, essi hanno lavorato per l’avvenire, per consegnare un ideale integro alle generazioni successive. Discontinuità e spontaneismo, predestinazione al fallimento e rinascite a mo’ di fenice si completano a vicenda nel fornire interpretazioni irrazionalistiche, che ignorano il legame fra le sconfitte e le rinascite dell’anarchismo. Illustrando la continuità del pensiero e dell’azione anarchica, la dovizia di materiali contenuti in questo volume fa luce su quel legame e contribuisce a colmare il divario che separa le interpretazioni irrazionalistiche da un’adeguata comprensione dell’anarchismo.
In contrasto con lo stereotipo dell’anarchismo come una dottrina del tutto-o-niente, già nel 1899 Malatesta dichiarava: “non si tratta di fare l’anarchia oggi, o domani o tra dieci secoli; ma di camminare verso l’anarchia oggi, domani e sempre.” Quell’articolo chiude appropriatamente il primo volume di questa storia documentaria delle idee libertarie. I capitoli di questo secondo volume illustrano come gli anarchici siano andati avanti lungo quel cammino nei quasi quattro decenni fra il 1939 e il 1977.
A dispetto della propensità di molti storici a profetizzare sul destino dell’anarchismo, nessuno sa se alla fine le idee anarchiche trionferanno o no. Per gli anarchici, ciò non dipende da un’immutabile natura umana, o da un ineluttabile corso della storia, ma dalla volontà dei membri della società di essere guidati dalla solidarietà anziché dall’egoismo. In ogni caso, benché nessuno possa profetizzare che l’anarchia verrà mai completamente realizzata, la ricchezza, ampiezza e penetrazione delle idee anarchiche illustrate in questo volume autorizza una più modesta ma fondata previsione, che gli oltre quattro decenni dal 1977 ad oggi hanno solo iniziato a confermare: che l’anarchismo qui è e qui resta.
Davide Turcato
davide_turcato@sfu.ca
Note
- George Woodcock, L’anarchia, 3a ed. (Milano, 1973), epilogo. Mi scuso con i lettori di “A” per non aver potuto consultare le traduzioni italiane di opere in inglese. In tali casi ho comunque citato le edizioni italiane, sostituendo i riferimenti alle pagine, che non possedevo, con riferimenti a capitoli e sezioni delle edizioni originali, presupponendo che questi siano rimasti immutati nelle edizioni italiane.
- Elio Conti, Le origini del socialismo a Firenze, 1860-1880 (Roma, 1950), 240; Luciano Cafagna, “Anarchismo e socialismo a Roma negli anni della ‘febbre edilizia’ e della crisi, 1882-1891,” Movimento operaio 4, n. 5: 770-1; Franco Della Peruta, “L’Internazionale a Roma dal 1872 al 1877,” Movimento Operaio 4, n.s., n. 1 (gennaio-febbraio 1952): 52; Enzo Santarelli, Il socialismo anarchico in Italia (Milano, 1959), 7.
- Ernest Alfred Vizetelly, The Anarchists (1911; ristampa, New York, 1972), 299-300; Irving Louis Horowitz (a cura di), The Anarchists (New York, 1964; ristampa, 1970), 588-9; Raymond Carr, “All or Nothing,” The New York Review of Books 24, n. 16 (13 ottobre 1977): 22; James Joll, Gli anarchici, 2a ed. (Milano, 1976), cap. 10; James Joll, “Anarchism between Communism and Individualism,” in Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo (Torino, 1971), 284.
- Willard V. O. Quine, Parola e oggetto (Milano, 1970), §§ 7, 13 e 15.
- Donald Davidson, Verità e interpretazione (Bologna, 1994), saggi 10 e 11; Problems of Rationality (Oxford, 2004), 35-36.
- E. J. Hobsbawm, I rivoluzionari (Torino, 1978), saggio 9; George Woodcock, Anarchism, 2a ed. (Harmondsworth, 1986), 8.
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Questo testo è la traduzione, ad opera dell’autore stesso, dell’introduzione al volume Anarchism: A Documentary History of Libertarian Ideas, Volume Two: The Emergence of the New Anarchism (1939-1977), appena pubblicato da Black Rose Book (www.blackrosebooks.net). Il primo volume, sottotitolato From Anarchy to Anarchism (300CE to 1939) era apparso nel 2005. È in corso di preparazione il terzo volume, The Anarchist Current, che completa l’opera arrivando fino ai giorni nostri. Il curatore dell’opera è lo storico anarchico canadese Robert Graham, che negli anni Settanta e Ottanta fu tra i redattori del periodico Open Road.
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L’opera è un’antologia di testi che documenta le origini e lo sviluppo delle idee anarchiche, distinguendosi per l’originalità dei testi scelti, molti dei quali inediti in inglese. I materiali inclusi provengono non solo da Europa e Nord America, ma anche da America Latina, Cina, Giappone, Corea, India, Australia, Africa e Medio Oriente. Ciascun testo è preceduto da una breve introduzione del curatore, che pone autore e testo nel loro contesto storico e ideologico.
Gli scritti di questo secondo volume trattano un ampio spettro di argomenti, che vanno da temi “classici” come anticapitalismo, antimilitarismo, sindacalismo, comunismo libertario e azione diretta, a temi più recenti come ecologia, anarco-femminismo, liberazione sessuale, educazione libertaria, democrazia partecipativa, tecnologia, antropologia, arte, burocrazia, e post-modernismo. Fra gli autori inclusi vi sono Noam Chomsky, Murray Bookchin, Emma Goldman, George Woodcock, Maria Luisa Berneri, Herbert Read, Alex Comfort, Martin Buber, Paul Goodman, Carole Pateman, Colin Ward, Paul Feyerabend, Pierre Clastres, Chaia Heller, Ivan Illich, Daniel Guerin, Luce Fabbri e Nico Berti.
Per la sua ampiezza sia cronologica che geografica, l’opera è senz’altro la più esauriente storia documentaria del pensiero anarchico mai pubblicata in qualsiasi lingua, e ci auguriamo di poter vedere un giorno la traduzione italiana non soltanto di un’introduzione ma dell’intera opera.
Davide Turcato ha iniziato a interessarsi all’anarchismo come studente medio nel 1975, complici alcuni opuscoletti della collana “La Rivolta” trovati su una bancarella. A quel tempo esisteva a Modena, sua città, una Federazione Comunista Anarchica di ambito regionale. Ha studiato filosofia a Bologna, negli anni caldi dal 1977 in poi, interessandosi in particolare di filosofia del linguaggio. Nella stessa Bologna ha lavorato per anni come analista-programmatore presso le Ferrovie dello Stato. Eterno studente, nei primi anni Novanta ha svolto ulteriori studi di linguistica computazionale a Edimburgo.
Da quasi quindici anni vive a Vancouver, sulla costa occidentale del Canada, dove lavora nell’industria informatica occupandosi di tecnologia del linguaggio umano. Il 30 novembre 1999 era a Seattle nella storica giornata in cui il WTO fu costretto a chiudere i battenti.
Da una decina d’anni ha intrapreso l’ambizioso progetto, tuttora in corso, di reperire tutti gli scritti di Errico Malatesta, allo scopo di completare la pubblicazione delle sue opera complete, iniziata negli anni Trenta da Luigi Fabbri e Luigi Bertoni. Nel contempo si è interessato di studi storici sull’anarchismo, partecipando in questi ultimi anni a conferenze e pubblicando articoli in riviste storiche sia in Europa che in Nord America. Ha completato quest’anno una tesi di dottorato in storia su Malatesta, presso la Simon Fraser University di Vancouver. Fra i suoi interessi vi è anche la lingua ausiliaria Esperanto, sul cui rapporto con l’anarchismo ha presentato una relazione al Congresso Universale di Esperanto del 2006 a Firenze. |
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