Quasi nessuno sa o crede che in Spagna c’è stata una rivoluzione. C’è stata per davvero?
Sì, certo che c’è stata, anche se è stata nascosta dalle menzogne. Ma quando dici la verità presto o tardi questa verità ti viene riconosciuta. Tanto per iniziare, bisogna considerare le Comunità Autonome della Castiglia. L’unico storico che ci ha riflettuto seriamente è stato Maravall. Nel 1519 abbiamo anticipato di due secoli la rivoluzione del 1789, perché essenzialmente si tratta della stessa rivoluzione. Quella gente aveva un concetto di democrazia molto avanzato, si parlava ad esempio del mandato imperativo. Il responsabile nominato rappresentante della comunità se non rispettava la volontà popolare, il mandato imperativo, veniva automaticamente deposto, come successe a Segovia quando votò le tasse imposte da Carlo V. Quella visione era talmente radicale che di fatto l’anarchismo non fece altro che riprendere in mano le fila di quel discorso e portarle avanti fino al 1936. Non si può parlare di rivoluzione spagnola nel 1936 senza tenere in considerazione i periodi della storia in cui quella rivoluzione era stata un qualcosa rimasto in sospeso. Malraux, parlando della rivoluzione spagnola, diceva che era un qualcosa rimasto in sospeso, che si vedeva arrivare dalla storia di Spagna.
Se si può dire che la rivoluzione è rimasta in sospeso fino al 1936, a giudicare dalla realtà si potrebbe anche dire che la controrivoluzione ha campato alle sue spalle nel corso della storia.
Sicuramente. Per molti la storia spagnola inizia con Ferdinando e Isabella, come se prima di loro non ci fosse stato nulla. Con la particolarità che con la cultura araba la Spagna era già entrata nella modernità. Con i re cattolici, quando la cacciata degli ebrei e degli arabi, la Spagna retrocede di due secoli, sprofonda nel Medioevo. Questi sono due secoli di ritardo che ha avuto la Spagna. Qua abbiamo ancora strutture feudali. L’aristocrazia, una concezione sociale che non corrisponde a quella europea. Latifondi... tutti problemi che noi abbiamo risolto nel 1936.
Voi?
È stato il popolo ad averli risolti in modo immediato. La repubblica cercò di fare la riforma agraria ma non poté portarla a termine perché non ebbe il coraggio di affrontare l’aristocrazia, che deteneva il potere. Ma noi arrivammo, occupammo il terreno e si creò una collettivizzazione, senza pensarci troppo. E se l’aristocratico o il borghese voleva entrare a farne parte veniva accettato, in caso contrario lo si mandava via. Ma chi voleva integrarsi non veniva cacciato, chi accettava le riforme, i piani di espropriazione. Il padrone della fabbrica che non ebbe paura e rimase a far parte della collettività si integrò. A volte partecipavano perfino al controllo, ma se non lo accettavano li si toglieva di mezzo. Non si poteva ritardare il cammino con gli eventuali ostacoli trovati. Per questi aspetti, la rivoluzione spagnola ha superato la stessa rivoluzione russa.
Alleanza tra CNT e UGT
In che senso dici questo?
La rivoluzione russa sopravvisse appena tre mesi, la nostra durò fino al 1939. L’economia stava nelle mani dei lavoratori e si riuscì a decentrare totalmente il potere. Il potere locale aveva una forma personale: i comitati. Nonostante la Generalitat, nei paesi funzionavano i comitati, esisteva una specie di democrazia diretta, non si proibirono i partiti ma questi inviavano i loro rappresentanti al comitato. Non c’erano programmi, i programmi consistevano nel risolvere i bisogni più urgenti del popolo. Sette o otto rappresentanti votati dall’assemblea popolare dovevano rispettare la volontà popolare. Se non funzionavano, venivano sostituiti e con gli altibassi del caso, il sistema funzionò. Ad esempio, si elettrizzò la linea del treno durante e nonostante la guerra. Vennero distribuiti i compiti per settori e ogni comune si assunse la parte che gli spettava. In tre mesi i lavori erano completati. Oggi una così è inconcepibile. Si dava lavoro ai disoccupati del paese. I salari venivano dati dalla cooperativa del popolo dato che era un’opera di comune interesse.
Nonostante tutte le carenze e le difficoltà?
Nonostante tutto. Ed è che quando c’è la fame, se tutti hanno fame e non c’è nessun privilegiato che non ce l’ha, allora sei felice della tua fame. Stai condividendo la disgrazia collettiva, il problema si pone quando c’è un gruppo di gente che sta mangiando bene e altri che muoiono di fame. In generale, la gente sopportava perché era uguale per tutti. Ricordo il Consigliere della Difesa della Generalitat. La moglie andava la mattina a fare la coda per il pane, a prendere la sua razione, quando lui, con il ruolo che aveva, avrebbe potuto chiedere che gli fosse portato il pane a casa, ma era un uomo molto corretto. Ossia, l’uguaglianza non era un mito, era una realtà.
In quali parti del territorio si può dire che ci sia stata una rivoluzione?
Riguardò tutta la zona repubblicana anche se non nello stesso modo. C’erano zone in cui la CNT era in minoranza. Ciò nonostante, anche lì si produssero le collettivizzazioni. Ci fu anche qualche paese con la CNT al potere dove rimase tutto uguale. In altri coesistettero collettivizzazioni socialiste insieme ad altre libertarie; quella socialista rispettava la proprietà privata e i metodi erano più autoritari. Ma in generale, le collettivizzazioni si estesero in tutta la repubblica.
Quali furono le caratteristiche più significative di questa rivoluzione?
I suoi aspetti più peculiari si verificarono in realtà il 6 ottobre 1934 nelle Asturie. Lì l’alleanza operaia tra la CNT e la UGT fece in modo che si formasse la comune, la collettivizzazione era un accordo tra i socialisti e gli anarchici con cui si cercava di ottenere un socialismo libertario, ma in generale fu la tendenza libertaria a ispirare quella rivoluzione. Fino a quel momento la CNT aveva provato movimenti di carattere insurrezionale ma non aveva raggiunto le basi della UGT. L’alleanza era imprescindibile. C’era una popolazione attiva di 9 milioni di lavoratori, la UGT aveva 1.200.000 affiliati e la CNT 1.500.000, niente a che vedere con gli iscritti di oggi. La gente era molto attiva anche se la burocrazia socialista frenava l’alleanza tra i sindacati. Ma alle elezioni del febbraio del 1936 vinse il fronte popolare contro le candidature delle destre. Quando la sinistra arriva al potere la gente che l’ha votata non è più quella che l’aveva votata nel 1931. Qualcosa era cambiato, c’era più esperienza. I partiti di sinistra arrivano al potere ma le basi mantengono il potere d’azione. Non aspettano che venga concessa un’amnistia ma passano all’azione e aprono immediatamente la porta a 80.000 detenuti. I contadini non aspettano che si riprenda in mano il dibattito della riforma agraria ma si lanciano a occupare le terre. Nel mese di marzo sono 80.000 i contadini che in Estremadura, Andalusia e La Mancha occupano i feudi. Non prendono la terra per sé ma la collettivizzano, la occupano per lavorarla in comune. Nel marzo del 1936 si inizia la rivoluzione in maniera pacifica.
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Barcellona, 2008. Diego Camacho a casa sua, con sigarette e vino |
La questione Marocco
Eppure al governo repubblicano non sembrava piacere molto quello che stava iniziando a succedere.
È vero, il governo di Azaña non lo vede di buon occhio. A nessun politico piace venire sovrastato dalle basi, ma non si può nemmeno mandare le guardie civili a cacciare i contadini. E le comunità agricole iniziano a svilupparsi. Nel frattempo la destra si prepara per il golpe militare. Grazie alla lezione della rivoluzione d’ottobre rafforza le sue alleanze. Ma quando avviene il golpe militare si era consolidata anche l’alleanza tra la CNT e la UGT.
Questa incipiente alleanza era una minaccia terribile per le classi conservatrici. Può aver contribuito ad accelerare la preparazione del golpe?
In parte sì, ma non si può scollegare il conflitto spagnolo dal contesto internazionale dell’epoca. È il momento di auge dei fascismi, c’è il problema del Marocco. Non si tratta di un problema privato, è internazionale ed è da questo momento che noi abbiamo perso la guerra. Franco assicura all’Inghilterra e alla Francia un regime forte che garantisce la proprietà privata e la loro posizione nel Mediterraneo. Sfortunatamente la Spagna è il punto più strategico del Mediterraneo. È in questo contesto che si può affermare che la guerra è persa dal principio. Certo che ci fu una rivoluzione in Spagna! Ma in un contesto internazionale in cui non poteva sopravvivere. Ci sono aspetti della nostra guerra che sono stati taciuti. Ad esempio il problema del Marocco. La forza militare di Franco sta in Marocco. Quando scoppia il conflitto in Spagna gli operai sono disarmati. La repubblica non gli dà le armi. Eppure a Barcellona gli operai sconfiggono gli insorti e Barcellona in quei momenti era il faro della Spagna. Se avessero preso il potere a Barcellona si sarebbe perso fin dal primo momento ma avendo sconfitto i fascisti in 32 ore, si riuscì a trasmettere il coraggio e anche Madrid li sconfisse. Quando si seppe per radio la notizia che a Barcellona Goded era stato fatto prigioniero e che la rivolta era stata domata, andarono a dire ad Azaña: “Presidente: i catalani hanno sconfitto l’esercito. Goded è stato fatto prigioniero”. Azaña rispose: “Non può essere vero, è una storia che stanno mettendo in giro i catalani. Presto, fammi parlare con Companys”. “Senti, Lluís – era questo il loro modo di parlarsi –, che succede da quelle parti, a Barcellona?” Companys gli disse: “Niente, siamo i padroni”. “Come i padroni? Ma che è successo? E questa storia che Goded è stato fatto prigioniero?” “Sì, sì. È qua nel mio ufficio”. “E com’è andata?” “Beh, quei matti di anarchici che sono scesi in strada”. In quel momento iniziò tutto. Sono successe talmente tante cose...
Mi raccontavi del Marocco...
Sì, la notte tra il 18 e il 19 luglio Franco aveva già fatto il suo programma. Loro riponevano molta fiducia nei 35.000 uomini che avevano in Africa, ma dovevano comunque trasportarli in Spagna. Azaña, molto equilibrato, diede l’incarico di governo a Martínez Barrio e gli chiese di mettersi in contatto con i faziosi. È quando Mola gli disse: arrivi tardi, non si può più fermare nulla. Azaña diede allora un nuovo incarico di governo a José Giral. Questi, senza consultarsi con Azaña, consegnò le armi ai lavoratori socialisti (ma non gli anarchici). A Madrid le milizie iniziano a organizzarsi. Manda un telegramma a Léon Blum chiedendogli armi per combattere il golpe militare. Lo chiede con insistenza perché la Francia si era impegnata in caso di bisogno a rifornire il popolo spagnolo di armi, armi pagate in anticipo con un deposito nella banca francese. Era stato firmato un accordo. Ma la borghesia francese si tira indietro. Blum va a Londra e lì gli dicono di non impicciarsi, di lasciare che si facciano fuori tra di loro. È quando si inventa il patto del non-intervento, un modo per appoggiare Franco e far perdere la Repubblica. La Francia, che era obbligata ad aiutare, si tira indietro. Il Marocco rappresenta un problema decisivo. La Spagna non aveva firmato un protettorato con il Sultano. La Spagna stava nel Marocco su pressione degli inglesi che non volevano che la Francia si piazzasse di fronte a Gibilterra.
Così la Spagna fece da gendarme di Gibilterra. Nel 1904 la Francia e la Spagna avevano firmato un accordo per spartirsi il Marocco: la Francia si era impegnata ad aiutare la Spagna qualora questa non fosse riuscita a garantire l’ordine. La Spagna si era impegnata a non concedere l’indipendenza alla sua zona ne ad appoggiare un’altra potenza. Giral ricorda questo accordo alla Francia. Questo è il momento in cui la Francia dovrebbe entrare nel gioco, ma non lo fa. I fascisti mandano le loro truppe nella penisola con l’aiuto di Hitler. Ma qui intervengono gli anarchici, che il 21 luglio formano un comitato di milizie, e la gente che fa parte di questo comitato assume la direzione della difesa della Generalitat. Qui c’era un rappresentante della lega araba. Si cercò un accordo con i resistenti marocchini. Questo rappresentante va a Ginevra, dove parla con i rappresentanti della lega. Loro si impegnano a far sollevare le popolazioni della Cabilia e a impedire che Franco continui a nutrirsi delle leve marocchine. Firmano un accordo ma gli arabi del Comitato di Azione Marocchina erano tutte persone interne al sistema: proprietari, borghesi. Dicono: siamo d’accordo con voi catalani ma quello che abbiamo firmato deve avere l’avvallo del governo centrale. Allora una commissione andò a Madrid. Julián Gorkin, per il POUM, Juame Miratvilles per l’ERC, Aurelio Fernández per la CNT e Rafael Vidieia per il PSUC. A Madrid gli dissero: come può venirvi in mente a voi catalani di incaricarvi di un tema internazionale. Largo Caballero lo comunicò a Léon Blum, e questi rispose che non se ne parlava nemmeno. Blum aveva molti problemi nel Marocco francese e gli inglesi avevano problemi in Egitto: se facciamo un casino nel Rif, si potrebbe susseguire un sollevamento dietro l’altro.
Gli anarchici sapevano che sarebbe stato facile avvicinare la rivoluzione al sud perché erano popoli arretrati economicamente. E sapevano che al nord sarebbe stato più difficile con i comunisti e i socialisti. Erano problemi internazionali molto complicati. Largo Caballero si pentì. Blum anche, ma molto più tardi. Largo Caballero cercò di cedere il Marocco agli inglesi e ai francesi per avere in cambio il loro aiuto. E non bisogna dimenticare che la nostra guerra si produsse in un contesto internazionale che potremmo considerare come il capitolo finale di un periodo storico in cui in un certo modo l’onore del proletariato è salvato dai proletari spagnoli che fanno la rivoluzione più profonda che sia mai stata fatta nella storia, come ho detto ancora più profonda della rivoluzione russa. Si può arrivare perfino ad affermare che la rivoluzione russa si collega alla comune del 1500 e alla comune di Parigi. È figlia di questi processi storici.
Una rivoluzione operaia
La rivoluzione che grado di penetrazione ebbe nel tessuto economico?
In Catalogna si può dire che tutta l’industria venne collettivizzata. Poi sorse il problema degli investitori stranieri che iniziarono a reclamare, a lamentarsi con gli ambasciatori... Bisogna ricordare che il 45% dell’economia spagnola era monopolizzata dal capitale straniero, come a Cuba nel periodo della rivoluzione. E una rivoluzione vuole intervenire su tutto perché se rimangono sacche di miseria allora non è una vera rivoluzione. Noi collettivizzammo le ferrovie, la metropolitana, le fabbriche... Qui le fabbriche erano tutte tessili, non c’era l’industria pesante, e le dovemmo montare con le 50 fabbriche che si crearono per gli armamenti. La cosa curiosa è che dopo 15 giorni dallo scoppio della rivoluzione si producevano già esplosivi, dinamite e obici. Prima c’erano fabbriche importanti ma senza grandi concentrazioni di operai. Il comitato delle milizie formò una commissione e unificò tre sindacati: quello Chimico, quello Metallurgico e quello minerario per formare l’industria bellica. Lì venne inserito Eugenio Vallejo, un operaio metallurgico, e in poco tempo si raccolsero tutti i torni e le frese disponibili fra i molti piccoli industriali ripartiti per la Catalogna e si riuscì a concentrare dieci fabbriche in grandi terreni edificabili che riuscirono a dare impiego a 150.000 lavoratori in tre turni. Ossia, che la grande concentrazione industriale che la borghesia fu incapace di realizzare la realizzammo noi, tutti i lavoratori. Fino al 1939 venne tutto amministrato dai comitati di fabbrica e dai sindacati. Ci fu un’ingerenza ufficiale del ministero della difesa che volle intervenire. Nominò direttori per la fabbrica e quando arrivarono occuparono gli uffici, ma non fecero nient’altro. Da lì non usciva nemmeno una pallottola, nemmeno un fucile senza la firma del comitato di difesa. Poteva uscire senza la firma del direttore ma non senza quella del comitato. Furono sempre amministrate dalle assemblee. Il massimo che si può raggiungere in una rivoluzione parziale come la nostra. Nell’industria tessile funzionava tutto allo stesso modo: con comitati di fabbrica coordinati dal consiglio dell’economia, nominati dai sindacati. Sopravvenne la crisi delle materie prime. Non si poteva produrre per via dell’embargo. Quelli che riuscirono a organizzarsi meglio furono i valenciani. Il ministro dell’agricoltura, comunista, cercò di intervenire ma senza riuscirci. Valencia esportava agrumi in Inghilterra e con la valuta acquistava quello di cui aveva bisogno.
Nonostante gli ostacoli del ministro dell’agricoltura si riuscì a mantenere tutto quasi fino alla fine della guerra. C’erano problemi di rifornimento, problemi con il cibo. A Valencia, il consiglio tecnico lavorò il cipero, lo si trattava chimicamente e si arrivò a estrarne un latte di una qualità sufficiente per allattare i neonati. Si trattò chimicamente la fibra vegetale. Gli americani più tardi avrebbero inventato il nylon con lo stesso procedimento. Era una rivoluzione operaia. E gli operai non avevano molte conoscenze tecniche ma avevano quelle pratiche. Si crearono istituti operai per i ragazzi della mia età. Lì, a ritmo forzatamente veloce, ti specializzavi in economia, chimica, studi molto concreti. E questo fece sì che una gran quantità di giovani poteva migliorare l’agricoltura, ad esempio in Aragona. Lì tutta l’agricoltura era collettivizzata. E i contadini iniziarono a compiere studi di agronomia, per coltivare meglio la terra, per fare delle fattorie sperimentali. Questa doveva essere la base essenziale dell’economia della rivoluzione. L’Aragona fu il posto dove si collettivizzò maggiormente la terra.
E in Catalogna dov’eri?
In Catalogna ci imbattemmo con organizzazioni catalaniste come l’ERC, la campagna era diversa. I piccoli proprietari terrieri avevano le loro coltivazioni disseminate in minilatifondi, un pezzo qua e un altro là. Loro ebbero il grande merito di unire tutte le terre per produrre di più e con meno fatica. Questo successe in Aragona e in parte in Catalogna. Líster diceva stupidamente che le collettivizzazioni erano state imposte. È ovvio che c’era sempre qualcuno che non era d’accordo. Ma l’obiettivo era quello di eliminare la proprietà privata, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Dare alle donne i diritti di cui non avevano mai goduto. Una delle prime cose che apportarono le collettivizzazioni furono ad esempio i lavatoi collettivi, gli asili, le scuole, dove prima non ce n’erano. La donna guadagnò del tempo. In una collettivizzazione in cui vissi, le donne giovani utilizzavano questo tempo dipingendo quadri, facendo teatro, o altre iniziative culturali... Chi ne sapeva di più dava una mano a chi ne sapeva di meno.
Salario operaio
Le espropriazioni delle fabbriche furono molto traumatiche?
No: a volte i padroni rimanevano e collaboravano ma in generale quando i padroni e i tecnici videro che i lavoratori scendevano in strada e sconfiggevano l’esercito sparirono. Quando entravi nelle fabbriche trovavi solo le macchine. Gli operai erano rimasti soli e si chiesero: Che facciamo? E si misero a lavorare formando dei comitati per far funzionare le fabbriche. Io ebbi la fortuna di vivere ogni tipo di esperienza. Passai da una caldereria, da un istituto operaio, lavorai nei campi... Il capo della caldereria aveva 50 operai ma era un uomo molto cordiale. Quando gli collettivizzarono la caldereria si presentò e disse: io che faccio? Rimango? Sono un tecnico, posso darvi qualche consiglio? E stette lì, riscuotendo lo stesso salario degli altri. E poi andò a finire in carcere come tutti gli altri. Perfino le botteghe dei barbieri vennero collettivizzate. Mi sorpresi quando vidi la rivoluzione dei garofani, in Portogallo, ci arrivai in aereo. Esco dall’aeroporto e vedo uno che lucida le scarpe. Mi chiesi: ma che rivoluzione è? E dissi a quell’uomo: che fa, lucida le scarpe? Mi rispose che era il suo lavoro. La rivoluzione non ti ha ancora liberato dalla cassetta del lustrascarpe? E diedi un calcio alla cassa. Era finito tutto, che ognuno si pulisse le proprie, di scarpe.
Che successe alle imprese straniere?
Vennero controllate fino alla fine della guerra. Ma è curioso, negli archivi ci sono ancora i bilanci di quel periodo... Quando ritornarono i proprietari, nel 1939, trovarono che le loro fabbriche avevano avuto un surplus e una produzione maggiore rispetto a prima della guerra. Ora si conosce la contabilità dell’epoca. Dal punto di vista economico non fu una sconfitta, perché non si trattò di una economia diretta ma di un’autogestione. Non fu l’autogestione di Tito, e nemmeno in Russia ci fu autogestione. Uno degli errori più grandi fu che quando si crearono i soviet di fabbrica e si diressero direttamente ai minatori per gli approvvigionamenti arrivarono subito gli uomini dello stato e l’intervento sfociò nella paralisi dei primi tempi dell’industria sovietica. L’antica struttura sindacale servì da colonna vertebrale allo sviluppo dell’economia operaia. In Russia non esisteva nulla di tutto questo, dovettero inventarlo e fu soprattutto una rivoluzione contadina, prevalentemente contadina. Noi trovammo soluzioni a molti problemi che poi tornarono a riproporsi. Tito ad esempio copiò molte cose della nostra economia, sfortunatamente con carattere autoritario, centralizzatore.
Nel dibattito se è meglio un’autogestione diretta dal mercato o un’economia completamente pianificata, nel caso della rivoluzione spagnola si verificò una peculiarità, già che le necessità della guerra imponevano una determinata maniera di produrre. Ma se non ci fosse stata la guerra, la rivoluzione avrebbe optato per un’economia di autogestione con mercato?
Non credo. No, perché in Spagna avrebbe dovuto esistere almeno un sistema misto. Altrimenti ci saremmo rinchiusi in una specie di autarchia. Non avevamo nemmeno grandi pretese. La gente voleva solo vivere, anche in modo povero, ma con dignità. Non importava camminare con espadrillas ai piedi ma volevi avere almeno le espadrillas, un pezzo di pane con olio e aglio. C’era molto scambio. L’Aragona faceva gli scambi con Tortosa, per il riso. L’importante era che ci fosse l’essenziale. Noi abbiamo dato un valore alle cose, che non ha niente a che vedere con la concezione marxista del valore, ne con quella capitalista. Abbiamo creato una moneta non accumulativa, senza alcun valore, i buoni. Tu nella collettivizzazione avevi tutto pagato. L’unico controllo che avevi era quello della comunità, quello di dover andare a lavorare. Se la domenica avevi voglia di andare in un’altra collettivizzazione utilizzavi i buoni perché non formavi parte di quell’altra collettivizzazione. Se volevi prendere un caffé in qualche altro posto pagavi con i buoni. Ma non con i soldi. Era un elemento di controllo. Con questi non ci potevi pagare le espadrillas o i pantaloni perché te li davano già nella tua collettivizzazione. Non potevi dire: ho 10.000 pesetas in buoni. Che ci avresti comprato, visto che non c’era niente da comprarci? Noi, nella nostra collettivizzazione, avevamo l’olio. Era difficile calcolare le quantità con cui fare gli scambi ma c’era un’altra mentalità. Alla gente di Tortosa veniva dato più olio di quello che poteva valere il riso.
La rivoluzione non fallì
Si riuscì a far sparire completamente il denaro nelle collettivizzazioni?
Sì, in molti luoghi della campagna non esisteva più, anche se nell’industria era una questione più delicata. Ma per esempio la questione della locazione era risolta. Con il cibo non c’erano problemi, potevi mangiare in fabbrica o in osteria. Un uomo sposato con due figli poteva guadagnare quanto quattro persone. Un uomo non sposato guadagnava molto meno. Ma se un uomo celibe doveva mantenere la madre aveva un premio. Si trattava di un salario familiare meno arbitrario di quello convenzionale.
In ogni caso della rivoluzione non è rimasto nulla, nemmeno la memoria. La sconfitta militare ha cancellato tutto.
Noi abbiamo vinto la rivoluzione, ma abbiamo perso la guerra. La rivoluzione prevede che i lavoratori diventino padroni degli strumenti di lavoro e che non falliscano nella gestione dei mezzi di produzione. La rivoluzione non fallì, venne sconfitta militarmente. Forse con il tempo si sarebbe sviluppata una burocrazia paralizzante ma questo non lo sapremo mai. Ci sono vittorie che sono sconfitte e sconfitte che sono vittorie. Se la storia della Russia può essere considerata una vittoria, chi fu il vincitore? Gli operai? No. La comune di Parigi fu una grande vittoria operaia. La nostra anche. Fu una vittoria rivoluzionaria anche se diede vita a una sconfitta militare. Abbiamo spinto la rivoluzione fino a dove è stato possibile.
Dimenticare la rivoluzione che tu hai vissuto, che hanno vissuto tante persone ancora vive è sicuramente incomprensibile.
Si è voluto dimenticare. C’è stata la volontà politica di nasconderla. Sì, perché c’è molta paura. L’anarchismo ha delle radici molto forti in Spagna. L’orgoglio e la resistenza sono valori della nostra gente. Tra di noi l’anarchia è un comportamento normale che nasce dalla ribellione di fronte all’ingiustizia, non è una teoria. L’essere umano di ogni epoca avrà sempre questo spirito di ribellione. Oggi c’è un anarchismo virtuale nelle case occupate, nella renitenza alla leva, nella lotta femminista, in tutte queste battaglie parziali ed è giusto che si sviluppino parallelamente alla lotta politica perché un partito politico soffocherebbe tutto. In questo aspetto sono abbastanza ottimista, penso che può risorgere perché noi siamo ancora ribelli. Quello che per altri è la modernità, in realtà è una moda.
Mi piacerebbe che si formasse una piattaforma con i centri sociali, gli ecologisti, le femministe... in un patto solidale. Queste sono le nuove forme di organizzazione. C’è molto anarchismo per strada, nell’individuo, ma non può venire organizzato. Io voglio sperare che il futuro non sia la barbarie, ma il socialismo. Il capitalismo non sa dove sta andando: ha perso il controllo ma voglio essere ottimista e per questo penso che il terzo mondo ci darà una grande lezione.