Ho scritto più volte, quasi ossessivamente, anche sulle pagine di questa Rivista, che il capitalismo non è emendabile. Questo assunto, a mio modo di vedere, non deriva soltanto dalla logica barbara che sta alla base dell’accumulazione capitalistica, non è cioè una riserva mentale soltanto di natura etico-ideologica, ma è un assunto che ha a suo fondamento l’analisi delle dinamiche che del capitalismo indirizzano gli esiti e cadenzano gli eventi.
La crisi scatenata dai subprime e che ha travolto le economie del mondo occidentale, ha evidenziato il peccato originale di un processo che ha finito col privilegiare le rendite parassitarie del denaro che produce denaro, rispetto al denaro inteso come strumento indispensabile per la produzione di una ricchezza diffusa, di quella ricchezza, per intenderci, che produce beni socialmente utili e che allarga la base del benessere dei popoli.
Alcuni sostengono che le crisi servono a correggere le derive perverse che le hanno determinate, dopo di che tutto tornerà al suo posto e il “progresso” riprenderà più spedito che mai.
È questa un’ affermazione tipica dei sostenitori del libero mercato, i quali però sorvolano sulle macerie che queste derive si lasciano alle spalle e come alla fine i popoli ne escano con le ossa rotte per la riduzione drastica dei servizi a sostegno dei redditi più deboli e l’allargamento della forbice che separa i destini dei pochi ricchi da quelli dei molti poveri.
Perché questa è la realtà vera della dinamica del capitalismo, quella che ha desertificato interi continenti depredandoli delle loro risorse e imponendo le sue leggi.
Anche in questa crisi che alcuni definiscono epocale i rimedi che si approntano tendono tutti a ripristinare gli assetti originari. Nessuna revisione critica, neppure la più innocua. Barak Obama, che appariva il fustigatore del costume di vita americano, ha proseguito il cammino del suo predecessore. Bush aveva regalato alle banche 750 miliardi di dollari alla fine del suo mandato e Obama ha continuato a privilegiarle con sostegni ancora superiori visto che si calcola in oltre due miliardi di dollari il costo del salvataggio dei principali gruppi bancari e assicurativi statunitensi. Così il popolo americano, già gravato da un pesantissimo debito individuale per l’istigazione del sistema a consumare molto al di là delle sue reali possibilità, si trova adesso a sopportare l’onere ulteriore di una ristrutturazione del sistema che lo ha così pesantemente penalizzato. Ma questa volta con esiti niente affatto esaltanti se è vero che, secondo analisi assolutamente attendibili, il sistema bancario americano, nel periodo 2007/2010 accumulerà ulteriori debiti per 1050 miliardi, con un crollo del Pil valutato, per il 2009, del 2,8% (fonte FMI) e della produzione industriale del 13%. I tre dati sono naturalmente collegati perché il deficit di liquidità del sistema creditizio deprime gli investimenti produttivi e riduce la produzione di ricchezza dell’area.
Insopportabile debito pubblico
L’Europa, considerata complessivamente più virtuosa dell’America, attraversa questa crisi in condizioni se possibile peggiori: l’indebitamento delle banche sino al 2010 è valutato in 1200 miliardi, la riduzione del Pil del 4,2% e della produzione industriale del 18%.
In termini di costi umani, negli USA la disoccupazione investe l’8,9% della popolazione attiva, in Europa i dati ufficiali parlano dell’8,5%, ma in termini reali, considerate tutte le categorie di lavoratori che non rientrano nei computi statistici e gli altri che, a scadenza dei contratti a termine, non avranno più lavoro (solo in Italia, entro la fine di quest’anno, saranno 1 milione e 700 mila), il dato statistico reale è destinato a salire di molto.
I dati che abbiamo riportato, per quanto già di per sé drammatici, non raccontano tutta la verità. I debiti delle banche riportati riguardano soltanto le sofferenze di gestione, ma nulla dicono degli scheletri ancora chiusi negli armadi di molti istituti in America come in Europa.
Non raccontano, questi dati, le sofferenze regionali: raccolti nel gran calderone del campione, non dicono quali sono le componenti che contribuiscono ad alzare o ad abbassare la percentuale delle sofferenze, sicché rimane sempre attuale la storiella del pollo, di cui restano ignoti i consumatori reali.
Ma perché siamo partiti dall’assunto che il capitalismo non è riformabile? Non lo è perché le misure prese per superare la crisi attuale non sono affatto nuove nella storia ormai secolare del capitalismo.
Se partiamo dalla crisi del 1929 (anche allora si parlò di crisi epocale) essa ebbe un’origine assai simile a quella attuale. Anche allora a presiedere il governo americano c’era un repubblicano, Herbert Hoover, un convinto, acritico assertore di un capitalismo senza regole. Come con George Bush e la scuola di Chicago, ottant’anni fa alla Casa Bianca prevalevano le tesi di un liberismo senza lacci e lacciuoli e chi parlava di regole appariva come un nemico della patria. Il crollo di Wall Street, allora come oggi, colse tutti con le mani nel sacco: si scoprirono le magagne del sistema finanziario, l’inerzia delle poche autorità di controllo, le speculazioni di un’imprenditoria di rapina protetta dai governi. Si riscoprì, allora come oggi, lo Stato imprenditore, uno Stato che, incurante del livello spesso insopportabile raggiunto dal debito pubblico, salvò i protagonisti che avevano in prima persona innescato la crisi, facendone pagare il conto alla povera gente. Correttamente si notò allora che tali iniziative dei governi (prima del governo Hoover e poi, in misura enormemente maggiore, di quello di Franklin Delano Roosevelt) sarebbero state del tutto transitorie, il tempo necessario, cioè, per rimettere in piedi il sistema privatistico ristrutturato. Il tanto celebrato New Deal portò l’America degli anni successivi all’innalzamento di barriere protezionistiche e ad una sorta di autarchia che la isolò dal resto del mondo sino al Secondo Conflitto Mondiale.
Logiche roosveltiane
Anche se sono imparagonabili i dati quantitativi, Barak Obama non si discosta molto dalle logiche rooseveltiame, una logica riproposta episodicamente dalla destra quando agli inizi degli anni Settanta Nixon si trovò a dover salvare la Lockheed, industria di armamenti, con i soldi dei contribuenti, e negli anni Ottanta, quando Ronald Reagan salvò con le stesse modalità la Crysler, fino allo stesso Bush padre che sacrificò denaro pubblico per salvare dalla bancarotta le Casse di Risparmio.
Barak Obama ha impiegato miliardi di dollari dei contribuenti per (tentare di) ricostituire le riserve, dilapidate dai grandi gruppi bancari in speculazioni dissennate, senza che i “miracolati” fornissero serie garanzie sul ripristino delle loro funzioni primarie: l’erogazione del credito a tassi accettabili, dinamiche interne più trasparenti e meno rischiose e, soprattutto, senza che si avviasse quella riforma che sancisse finalmente la separazione tra banche commerciali e banche di affari.
Insomma, il bene che si può dire della nuova amministrazione americana è che si dimostra sensibile verso esigenze primarie delle categorie meno protette del suo popolo: la riforma sanitaria, ad esempio che, se attuata, dovrebbe lenire le sofferenze di 50 milioni di americani che sono privi del tutto di tutela per gli alti costi del sistema sanitario e delle assicurazioni che lo sostengono; altrettanto meritorio Obama quando tende a mettere ordine nel regime borsistico o allo strapotere dei manager delle grandi imprese. Ma sono, queste, misure di transizione per l’approdo a sponde consuete: basterebbe un’inversione di tendenza della politica americana (assai probabile per l’anima profonda del suo elettorato) o la prevedibile opposizione radicale dei poteri forti, tutt’altro che sconfitti, per vanificare anche queste misure cautamente riformiste. Quindi nessun bagliore all’orizzonte che annunci l’alba di un giorno nuovo.
E, del resto, sull’altro versante, quello che dovrebbe essere segnato dall’invenzione e la pianificazione di un’alternativa consapevole e credibile, neppure un’increspatura sulle acque tranquille, mentre la macchina impietosamente seguita a segnare elettroencefalogramma piatto.