Ancora buio
Siamo in due. Io e un nepalese: Mangal. Sepolti dai bagagli di un gruppo di turisti americani. Al buio, senza aria e con gli arti indolenziti. Da quando hanno invaso il Tibet nel 1950 i cinesi hanno sempre vietato a tutti gli stranieri di visitare il tetto del mondo. Oggi l’unico modo per visitare il Tibet è con un viaggio organizzato gestito da un’agenzia di viaggio cinese che ti prende all’aeroporto, ti scorrazza in giro con delle jeep di ultima generazione, ti fa vedere solo quello che puoi e che devi vedere, ti fa spendere solo dove puoi e devi, e ti riporta a casa come sei venuto.
Ma questi gruppi di turisti hanno bisogno di bagagli. E non se li portano nelle jeep. Gli impicciano. Glieli porta un camion che, mentre loro si fermano a fare foto e a comprare souvenir, tira dritto e arriva prima di loro per montare le tende e preparare la cena.
Un camion pieno di bagagli. Bagagli che ora sono sopra di me e del mio compagno di viaggio, e di sepoltura, Mangal. Io sono un clandestino curioso che deve raccontare a un suo amico come è il Tibet. Mangal un devoto pellegrino buddista che tenta di raggiungere la sua montagna sacra. Il monte Kailash. Quelli fuori sono i soldati cinesi dell’ennesimo posto di blocco.
Come nei posti di blocco precedenti qualcuno sale sul cassone, solleva il tendone, smuove qualcosa e poi scende. Noi restiamo immobili senza respirare. Poi aspettiamo di ripartire. In questo posto stiamo fermi più a lungo rispetto agli altri. Si vede che ci stiamo avvicinando alla montagna sacra.
Aspettiamo immobili interminabili minuti. Finalmente provo quello che provano tutti quei disperati che si imbarcano sulle navi della speranza che approdano ogni giorno alle coste del mio Paese e che il mio governo costantemente rispedisce al mittente.
Poi sentiamo il rumore della portiera del camion che si chiude. Stiamo per ripartire. Tra pochi minuti potremo uscire da questa sepoltura. Tanto è il silenzio che sentiamo la chiave inserirsi nella serratura e il rumore del motorino di avviamento. Ma null’altro. Il camion non parte.
Il camion è un vecchio scassone e non mi stupisco che non parta, però al posto di blocco…
Un gruppo di soldati spinge il camion, probabilmente per toglierlo dalla strada, e poi cominciano a trafficare nel motore. Non so quanto tempo sia passato ma a me sembra un’eternità.
Noi attendiamo pazientemente. Ormai non sento più le gambe e mi manca l’aria, ma dobbiamo resistere se vogliamo arrivare sul tetto del mondo. Ad un tratto, finalmente, il rombo del motore e il camion va. Aspettiamo un paio di curve e poi finalmente usciamo dalle nostre sepolture. Risistemiamo le valige in modo che siano pronte per un eventuale “seppellimento di emergenza” e ci sgranchiamo gli arti intorpiditi dalla posizione immobile. Penso a Palden che, durante la sua permanenza in carcere, fu costretto con le mai incatenate dietro la schiena per ben sette mesi. Ci mise quasi un anno a riprendere l’uso completo degli arti.
Il viaggio continua tra scossoni e pause per riparare il motore. Ogni tanto ci danno tre colpi sul cassone e noi ci precipitiamo nei nostri nascondigli di emergenza. Poi con due colpi usciamo. Mentre il cielo dell’Himalaya si accinge al tramonto arriviamo a Drachen, ai piedi della montagna sacra.
La Montagna Sacra
Oggi raramente un uomo percorre lunghi viaggi a piedi. Non lo fa quando è imprigionato nella sua città tra lavoro e famiglia, ma non lo fa neanche quando decide di andarsene. La stragrande maggioranza delle persone quando parla di viaggio intende un viaggio in treno, in macchina, in autobus o addirittura in aereo. Ma il vero viaggio, il viaggio di scoperta e di esplorazione è solo il viaggio a piedi. Il viaggio a piedi è l’unico tipo di viaggio che consente di vedere nuove terre ma anche, come diceva Proust, di vedere con nuovi occhi.
Zaino in spalla mi inerpico subito verso il monastero di Chuku. Un piccolo monastero arroccato su un costone di roccia all’esterno del kora. Una volta questo monastero ospitava una ventina di monaci ma dopo la follia della Rivoluzione culturale non è rimasto che un cumulo di pietre che qualcuno sta coraggiosamente tentando di rimettere in piedi.
Proseguo lungo la grande vallata del Lha-chu e incontro decine di pellegrini che sembrano felicissimi di vedermi. Sono tutti allegri, cantano, ballano lungo il percorso e si fermano nei tantissimi luoghi sacri per pregare e prostrarsi. Il kora non è semplicemente camminare in senso orario intorno a un luogo sacro. Lungo il kora bisogna rispettare certe regole, prostrarsi nei luoghi sacri, aggiungere pietre ai chörten, legare bandierine in determinati luoghi e pregare in altri. Spesso il kora viene preparato nei giorni precedenti con un digiuno purificatore e lunghe sessioni di meditazione. Alcune persone compiono il kora in giornata e poi lo ripetono il giorno successivo. Particolarmente propizi sono i percorsi di tre o otto kora. Ma l’ideale sarebbe percorrerlo tredici volte in tredici giorni successivi. Tuttavia, anche se un unico kora è sufficiente a lavare via i peccati di un’intera vita, solo percorrere il circuito 108 volte garantisce l’accesso al nirvana (la liberazione dal dolore) nella prossima reincarnazione.
Continuo il mio percorso in questo luogo impregnato di un’antica sacralità, ma anche qui i cinesi ci hanno messo lo zampino. Per oltre dieci chilometri lungo la valle del Lha-chu i cinesi hanno costruito una strada carrozzabile e ogni tanto passano le jeep che portano i turisti, principalmente cinesi, fino a un ponte da cui si scorge la parete nord del monte Kailash. Percorrere un pezzo di kora in auto è un’eresia per la cultura tibetana, nata da un pellegrino nomade, che affonda le sue radici nel pellegrinaggio da percorrere a piedi. Inoltre, le automobili arrivano fino a un certo punto e poi sono costrette a tornare indietro e, ovviamente, mentre tornano sui loro passi (se così si possono chiamare) percorrono quel pezzo di circuito in senso antiorario, il che è un ulteriore affronto alla sacralità del luogo. Come se non bastasse, il governo della Repubblica popolare ha in cantiere da anni il progetto di costruire una strada che possa percorrere l’intero circuito; e compagnie aeree nepalesi stanno trattando per ottenere la possibilità di percorrere circuiti in aereo intorno alla montagna. Sarebbe il colpo di grazia per questo luogo e per tutto ciò che rappresenta.
Camminando
Cammino a lungo, intorno a me c’è solo un’immensa pianura verde. Sono circa cinquanta i chilometri che mi separano dal lago sacro. Ci vorrà più di un giorno. Non mi spaventa. Sono qui per camminare. Non posso sperare di entrare dentro il Tibet se non mi muovo come si muovono i tibetani. E i tibetani, da sempre, si muovono a piedi. Se vuoi conoscere i Maori devi muoverti in barca, se vuoi conoscere i mongoli devi muoverti a cavallo, se vuoi conoscere gli Stati Uniti devi viaggiare in macchina, e se vuoi conoscere l’Europa in treno. Ma se vuoi conoscere il Tibet l’unico modo è muoverti a piedi. Camminare.
Presto raggiungo le sponde del lago e mi incammino verso il villaggio di Hor Qu, che vedo in lontananza. Passo tra qualche piccola casa di fango che d’inverno funge da stalla. Sono le case dei pastori seminomadi. D’estate si muovono con le tende e le greggi come dei veri nomadi, e nei mesi più freddi vengono a vivere in queste piccole case di fango vicino al lago. Sembrerà strano, ma il Tibet è una delle zone più aride del mondo. Qui piove meno che nel Sahara. Il monsone che d’estate arriva dall’Oceano indiano viene bloccato dalla catena himalayana e d’inverno il freddo intenso impedisce le precipitazioni acquose. Per fortuna non mancano i fiumi e i laghi e, sulle loro sponde, con ampi terreni a disposizione, si può avviare anche una qualche forma di allevamento stanziale nei mesi invernali.
Il termine nomade deriva dal greco nomós, pascolo. In senso stretto il nomade è un pastore errante. Molti dizionari vogliono che il nomade si sposti casualmente da un luogo ad un altro, ma in realtà non è così. Un nomade si sposta seguendo dei percorsi precisi. Una migrazione nomade è un percorso organizzato che unisce tra loro una serie ben determinata di pascoli, spesso posti in una sorta di circolo che, prima o poi, si chiude. Spesso il nomade si ritrova nello stesso luogo anno dopo anno, quando il circolo si conclude. Il territorio di un nomade è costituito dai percorsi che uniscono i vari pascoli, ed egli riversa su questi sentieri tutto l’attaccamento che uno stanziale dimostra per la sua casa o il suo campo. Ogni gruppo nomade ha i suoi pascoli e i suoi sentieri. Ma i pascoli perdono di interesse non appena le mandrie li hanno abbandonati e i sentieri sono, sostanzialmente, solo luoghi su cui passare.
I nomadi difficilmente riconoscono le frontiere politiche che sono, di per sé, un insieme di campi coltivati. I nomadi si identificano nei loro percorsi e con i fiumi, con i laghi e con le montagne. Due tribù nomadi che vivono, in un determinato momento, sulle sponde dello stesso fiume si considerano vicini di casa, anche se distano tra loro centinaia di chilometri. I khampa, gli abitanti nomadi del Tibet orientale, chiamano la loro terra col nome di Chizhi Gangdrung, che significa “quattro fiumi, sei catene montuose”.
La Grande Muraglia, simbolo supremo della Cina, non è altro che la linea di confine tra due mondi diversi. Di qua l’impero cinese, fatto di città e di popolazioni stanziali. Di là i nomadi. Una barriera fisica tra nomadi e stanziali. Questo è la muraglia. Null’altro.
Oggi questa barriera esiste ancora. Non fisica ma morale. Non c’è una muraglia fisica che divide il Tibet dalla Cina ma ce ne è una culturale, morale. Da quando hanno invaso il Tibet, i cinesi stanno tentando invano di rendere stanziali i nomadi dell’altipiano ma questi si ribellano in continuazione. Tra il 1951 e il 1973 un gruppo di nomadi khampa del Tibet orientale si ribellò all’occupazione e creò un vero e proprio esercito guerrigliero di oltre quindicimila uomini che fu denominato Chizhi Gangdrung, il nome tradizionale della regione. Avevano tentato di renderli stanziali, e questo fu il risultato. Tentare di rendere stanziale un nomade assicura una ribellione. Tutte le rivolte più grandi contro i cinesi sono state compiute dai nomadi. Anche la rivolta più grande di tutte. Quella lunga e silenziosa. Quella che li fa rimanere ancorati al loro nomadismo. Alle loro tradizioni. Quella che i cinesi non riescono a sopportare. Quella che fa sì che loro, i nomadi, restino nomadi anche nella Cina del boom economico. Che restino nomadi nella Cina globalizzata. Che si spostino al ritmo delle stagioni nella Cina che si muove in aereo. Che misurino gli spostamenti in mesi, nella Cina che li misura in ore. Che regolino la loro vita con la quantità di erba prodotta da un pascolo, nella Cina dei centri commerciali.
La maggior parte della popolazione tibetana è nomade. E come si fa a sottomettere un nomade? Come si può controllare uno che si sposta in continuazione lungo percorsi che solo lui conosce? Non si fa. Punto. E finché ci saranno i nomadi in Tibet sarà impossibile controllarli. E i nomadi, quassù a cinquemila metri, ci saranno sempre. Non ci sono alternative a queste quote.
Fuoco di steppa
Camminiamo a lungo fino a quando troviamo, sulla sponda di un fiume, un vecchio pastore con delle pecore che ci invita a ripararci in una grotta poco lontano. Entriamo nella grotta bagnati e infreddoliti e ci accingiamo ad accendere un fuoco. Poiché siamo sulle sponde di un fiume possiamo contare su qualche arbusto di ginepro, oltre che sul solito sterco di yak. Andiamo a raccogliere qualche radice secca di ginepro, che però è bagnata. Fatichiamo a lungo ad accendere il fuoco. E fatichiamo a mantenerlo acceso. Qui sull’altipiano, così come nelle steppe e nei deserti, il fuoco non è come il nostro. Questo è un fuoco di steppa, ed è ben diverso da un fuoco di bosco. Quando si accende un fuoco di bosco si fa prendere qualche legno piccolo, poi si aggiungono dei legni un po’ più grandi e alla fine va da solo. Una volta aggiunto qualche bel pezzo di legna quello va a lungo senza più spegnersi. Ma qui è diverso. Il fuoco di steppa è un fuoco che non si può abbandonare un solo momento. Se ti distrai un attimo il fuoco di steppa si spegne. È un fuoco fatto di cacca secca, di piccoli arbusti e di paglia. Un fuoco che non si può lasciare a se stesso. È un fuoco sterile come la terra in cui sboccia. È un fuoco effimero come i sogni di queste terre. Ed è un fuoco che ha bisogno di continue attenzioni, proprio come la terra da cui nasce.
Manteniamo vivo a fatica il nostro fuoco di steppa e ci riscaldiamo un po’. Beviamo il solito tè. Il pastore ci segnala un posto di blocco più avanti, vicino alla strada. Ci indica anche un sentiero alternativo da percorrere per evitarlo.
Lo ringraziamo e partiamo. Saliamo lungo un crinale. E da lì a un passo. Seguiamo il sentiero che ci ha segnalato il pastore. Sotto di noi corre la strada occidentale. Una strada che i cinesi hanno costruito già verso la fine degli anni Cinquanta; praticamente appena occupato il Tibet. I mezzi che passano da questa strada sono davvero pochi. Ci passa qualche jeep di turisti diretti al monte Kailash e qualche camion che trasporta materiali da e verso lo Xing Jiang. Nulla più. Le popolazioni locali non usano le strade. Così come non le usiamo noi. Per chi si muove a piedi o a dorso di yak una strada è pressoché inutile. E poi, le strade fanno sempre percorsi più lunghi del necessario e sono costellate di posti di blocco.
Io sono clandestino e, chiaramente, non posso passare dal posto di blocco. Tenzingutu è tibetano e non capisco il vero e proprio terrore che ha per questo posto di blocco. Lo indica spesso e mi fa cenno più volte che lì ci sono i militari. E ogni volta fa il segno delle pistole, come se i militari sparassero a vista a ogni tibetano. Io cerco di tranquillizzarlo, gli dico che comunque siamo lontani e non ci possono raggiungere, e che non è vero che tutti i militari sparano a vista, ma lui è spaventato dalla sola presenza del posto di blocco.
Proseguendo lungo il sentiero che ci ha segnalato il pastore superiamo un colle adorno di bandiere di preghiera e sbuchiamo in un’altra vallata. Siamo ormai ben lontani dal posto di blocco e il mio compagno di viaggio inizia a tranquillizzarsi. Ma io resto abbastanza colpito dal terrore che ha suscitato in lui la sola presenza dell’esercito.
Dorje
Ci vengono incontro dei bambini, che mi guardano come un bambino occidentale guarderebbe un videogioco nuovo. Tenzingutu gli chiede ospitalità e loro vanno a chiedere ai genitori che ci dirottano verso il monaco del villaggio. Il monaco ha una piccola casetta divisa in due stanze. Una è la sua. L’altra è il monastero. Con lui vive un bambino, suo figlio, il pastore del suo gregge e un paio di altri “servi”. Già, dei servi. Non è una cosa rara. In realtà il mondo dei monaci e in generale il Tibet, soprattutto quello anteriore all’invasione cinese, viene spesso idealizzato. Ma in realtà non era il “paradiso in terra”.
Fino al 1959, la maggior parte della terra arabile era ancora organizzata attorno a proprietà feudali religiose o secolari lavorate da servi della gleba. Secondo la giornalista Anna Louise Strong, nel 1953 la maggioranza della popolazione rurale, circa 700.000 persone su una popolazione totale di circa 1.250.000 abitanti, era composta da servi della gleba. Vincolati alla terra, veniva loro assegnata soltanto una piccola parcella fondiaria per poter coltivare il cibo necessario al loro sostentamento. Per loro non c’era accesso alle cure mediche né all’istruzione e trascorrevano la maggior parte del tempo lavorando per i monasteri, per i Lama di alto rango e per un’aristocrazia secolare, laica, che non contava più di duecento famiglie. Sostanzialmente, non erano altro che proprietà dei loro signori, che gli comandavano quali prodotti della terra coltivare e quali animali allevare.
Forse l’unica cosa buona che hanno portato i cinesi in Tibet è stato un ridimensionamento di questo sistema che, però, sopravvive ancora oggi in alcune zone. Come questo monastero, dove il monaco ha una sorta di “corte” di lavoratori che lavorano per lui.
La “corte” del monaco prepara la cena e ci serve delle tazze di riso con verdure. Poi rovista tra gli scaffali e tira fuori una latta di carne in scatola, ma ne serve solo al monaco e a suo figlio. Né loro, né noi ne riceviamo. Mangiamo tutti allo stesso tavolo ma la carne è riservata solo a loro. Poi giunge l’ora di andare a dormire. Ci spostiamo in una stanza dove ci sono tre panche-letto. Il monaco si corica su una di queste panche. Io e Tenzingutu ci avviciniamo alle altre due, ma prima di averle anche solo toccate il proprietario ci strilla qualcosa indicandoci il pavimento. Guardo il mio compagno, che annuisce. Ci sono due panche vuote, ma noi dormiremo per terra.
Ancora una volta il peggior trattamento ce lo riservano i monaci. E mi viene da pensare che in realtà i monaci tosti, quelli come il mio amico Palden, sono ormai tutti in esilio o in carcere e che quelli che restano in Tibet in realtà sono un po’ come i preti cattolici del medioevo: imborghesiti dal lusso e dal potere, e totalmente indifferenti al resto del mondo.
È vero che i monaci sono sempre stati in prima linea nelle lotte per l’indipendenza e per difendere il popolo tibetano dall’invasore, però ora mi sembra di vedere un buddismo corrotto dal benessere e dal potere. Una volta i monaci entravano nei monasteri praticamente privi di beni materiali. Ora spesso hanno telefoni cellulari, televisioni, bracciali preziosi... Il potere indiscusso di cui godono tra la popolazione fa il resto. E l’uomo è uguale in tutto il mondo. Il potere e il denaro corrompono l’anima. Chiaramente molti sono e restano monaci veri, e lo dimostrano le loro continue battaglie, anche a costo della vita e della libertà. Ma sono pur sempre uomini e alcuni di loro si lasciano travolgere dalla spirale di ricchezza e potere che corrompe il mondo. Anche quassù.
Le strade del Tibet
In serata raggiungiamo il monastero di Dargyeling. Un bellissimo complesso tinto di ocra e bianco arroccato su una collina. È tutto il giorno che camminiamo, e siamo stanchi. Ci inerpichiamo lungo la ripida salita con molta fatica. Andiamo a passi lenti. Ormai la stanchezza si fa sentire su tutti e due. Ogni tanto mi giro. Da questa collina si domina l’ampia vallata irrigata dai numerosissimi fiumi che scendono dai fianchi delle montagne innevate. Il monastero è sempre sopra di noi e splende dei colori del tramonto.
Tante cose non dimenticherò mai di questo viaggio. Tante. Tra queste, sicuramente, i colori del tramonto. La mattina il cielo è spesso coperto, di giorno a volte si rannuvola pesantemente, ma la sera si apre come d’incanto. Un paio di ore prima del tramonto le ombre si allungano, le nuvole si diradano ed esce un cielo blu terso e profondo come solo quassù lo può essere. Poi il sole si avvicina all’orizzonte, tinge il cielo di rosa e di arancione e le poche nuvole rimaste sembrano degli enormi batuffoli di cotone colorato.
Con questo cielo raggiungiamo il monastero. Ci vengono incontro abbaiando alcuni cani, poi anche dei giovani monaci. Ci fanno entrare in un cortile e ci offrono il tè. Il monastero è molto grande. Una parte è ancora distrutta dalle scorribande della Rivoluzione culturale, un’altra è stata ristrutturata ed è divisa in due: una zona per la preghiera, e un’altra dove si trovano le abitazioni dei monaci.
Restiamo lì per più di un’ora, poi ci spiegano che non possono ospitarci. Lì per lì mi arrabbio. Com’è possibile che fino ad ora ci hanno ospitato tutti tranne i monaci? Tutti ci hanno dato ospitalità. Dai nomadi ai contadini, dai pastori agli artigiani. Tutti. Tutti tranne i monasteri. Non capisco. Poi mi spiegano. Mi dicono che loro sono tenuti costantemente sotto controllo dall’esercito e che ospitare dei clandestini come noi sarebbe troppo pericoloso.
Da quando i cinesi hanno invaso il Tibet sono sempre stati loro, i monaci, al centro delle proteste e delle rivolte. Se non in prima persona, ne sono stati quantomeno gli ispiratori. I monasteri rappresentano la resistenza contro l’invasore, e per questo sono tenuti costantemente sotto controllo dall’esercito. Per i monaci noi siamo pellegrini ma per l’autorità costituita noi siamo solo dei clandestini, e come tali dobbiamo essere trattati. E il monastero non può permettersi grane solo per il fatto di ospitare due clandestini di passaggio. Quindi non ci ospitano. I monaci ci riempiono lo zaino di burro di yak e di farina d’orzo, ci benedicono, e noi ripartiamo.
Flaviano Bianchini
Tibet
Perché invidio Bianchini e il suo Tibet
di Massimo Ortalli
Sicuramente non è solo un libro di viaggio questo che stiamo leggendo. O, perlomeno, non uno dei soliti libri di viaggio a cui siamo abituati, quelli, per intenderci, confezionati per invogliare il lettore a fare un po’ di turismo nelle località descritte affidandosi pigramente a quanto già raccomandato dall’ “esperto” di turno. Non è il solito libro di viaggio per due motivi. Il primo perché l’autore è un viaggiatore assolutamente speciale, consapevole che “se vuoi conoscere il Tibet l’unico modo è muoverti a piedi. Camminare”, e che “il vero significato di un viaggio non sta nel raggiungere la meta ma nel percorso che si fa per raggiungerla” (1), il secondo perché Bianchini ha una tale empatia con il paese e con il popolo che lo ospitano, che nel raccontare la straordinaria esperienza che ha vissuto, riesce a comunicare con singolare efficacia tutti i nodi, politici, sociali, culturali, che fanno del Tibet una sorta di campionario in corpore vili delle devastazioni che l’imperialismo, anzi, l’Imperialismo con la I maiuscola, riesce ancora a produrre in tempi che vorremmo considerare civili.
Fascino misterioso
Partito nel 2007, l’anno precedente le Olimpiadi organizzate dalla Cina, che sono state anche il detonatore dell’ennesima rivolta del popolo tibetano contro l’invasore, Bianchini ha percorso a piedi, ma qualche volta anche “rubando” scassatissimi passaggi su scassatissimi mezzi di trasporto locali, più di mille chilometri, attraversando così, in un lento peregrinare scandito dal ciclo solare e non dall’orologio, questo paese per tanti versi ancora sconosciuto. Grazie a questa particolare esperienza, il racconto di viaggio è diventato sia una sorta di rapporto geografico ed etnologico del paese attraversato – rivelando il fascino misterioso che questa terra riesce ancora a trasmettere nonostante tutto e nonostante tutti – sia, al tempo stesso, un trattato sociopolitico attentissimo a cogliere quegli elementi di realtà che solo il contatto diretto con la popolazione può consentire e che proprio per questo la censura cinese vorrebbe, invece, oscurare.
Il maggior merito di questo libro, che riesce davvero a farsi leggere quasi d’un fiato, è che queste due componenti sono perfettamente integrate, nessuna si sovrappone all’altra: quasi sempre, infatti, la descrizione di un luogo o di un incontro casuale diventa anche un’osservazione di carattere sociologico e culturale. Del resto l’intelligenza con la quale Bianchini dimostra di saper viaggiare facilita enormemente questo processo mentale. Se volessi anch’io rifarmi ad antichi, e al paragone ben più modesti, viaggi “via terra” da me compiuti qualche epoca fa, potrei dire di ritrovarmi completamente in questo spirito e in questa dimensione, che a suo tempo mi permisero di cogliere con immediatezza e senza alcun distacco il valore dell’esperienza che stavo facendo. Del resto, l’imperialismo non si manifesta solo come quello che una grande potenza può esercitare nei confronti di un paese più debole, ma anche nell’atteggiamento mentale di pretesa – ma assolutamente ingiustificata – superiorità del ricco nei confronti del povero, che confina non solo nell’ignoranza ma anche nel disprezzo. Esemplari sono, al riguardo, le pagine con le quali Bianchini descrive i guasti morali e culturali che i turismi di massa – in Tibet sono due, quello cinese (2) soprattutto nelle città e nei monasteri e quello occidentale che ha fatto delle vette hymalaiane (3) delle discariche a cielo aperto – ha operato in questo paese, alimentato dalla Cina non solo per la cupidigia dei dollari e degli euro occidentale ma anche perché interpretato come una forma di assoggettamento di una cultura e di un modo di vivere altrimenti difficilmente scalfibili.
Una lettura duramente emozionante
Da questa descrizione così accurata, l’immagine che esce del Tibet non è dunque soltanto quella affascinante di una paese meraviglioso e di una cultura millenaria che cerca ancora di mantenersi refrattaria alla colonizzazione e alla omologazione, ma è anche quella sconvolgente di un paese costretto a subire la feroce oppressione della potenza cinese che si è riproposta di sfruttarne le risorse, di devastarne il territorio con la costruzione di ciclopiche centrali idroelettriche e l’inquinamento minerario e di imbrigliarne ogni manifestazione di autonomia e identità culturale. Non a caso oggi la lotta non violenta promossa dal Dalai Lama dal suo esilio indiano, finito il tempo delle sanguinose rivolte armate dei primi tempi dell’occupazione, è rappresentata dalla parola d’ordine del mantenimento della cultura tibetana (4). E questo perché i tibetani sanno che “i cinesi hanno il terrore dei tibetani. Loro, con un miliardo e più di persone, con la bomba atomica, con uno degli eserciti più potenti del mondo si cagano addosso di un paese con sei milioni di abitanti malnutriti, senza esercito e senza aiuti da nessuno”.
Ecco quindi cosa giustifica la ferocia della repressione che Bianchini illustra con dati e notizie regolarmente “sfuggite” alla informazione indipendente delle nostre democrazie, apparentemente sostenitrici dei diritti dei popoli ma, nei fatti, strutture di potere complici di altre strutture di potere. Lascio al lettore la lettura completa dei crimini cinesi, una lettura non certo piacevole ma necessaria per comprendere la vera dimensione della tragedia tibetana.
Una lettura duramente emozionante, dicevo, ma al tempo stesso anche piena di speranza perché Bianchini comunica la convinzione che comunque il Tibet è indistruttibile, che la sua cultura riesce a sopravvivere e a manifestarsi quotidianamente (c’è da dire che gli aspetti primitivi e inaccettabili di questa cultura come il servaggio della gleba o l’antica cupidigia e arroganza dei monaci hanno trovato un limite positivo nello scontro con il comunismo cinese ateo e materialista), che l’umanità di quel popolo, il senso dell’ospitalità, la disponibilità al confronto e al dialogo per spiegare le ragioni della propria lotta, la conservazione di tradizioni alimentari refrattarie alla contaminazione e della struttura economica fondata sull’allevamento e l’incoercibile e insopprimibile nomadismo, tutto questo riesce ancora a fare muro oggi, così come ha fatto muro nei secoli passati quando il ruolo dei cinesi l’hanno avuto le popolazioni della steppa o le “civiltà” europee. L’amore per la libertà, degli spazi e dello spirito, che viene quotidianamente gridato negli altopiani deserti e nelle piazze di Lhasa, Pö rangzen! Tibet libero! fanno sì che i tentativi di colonizzazione e di dispersione culturale trovino una resistenza determinata e collettiva, non incrinata dal presunto progresso portato dal neocapitalismo cinese. E Bianchini l’ha ben potuto sperimentare nel confronto dal basso e paritario che solo un “viaggiatore a piedi” poteva avere in quella terra di nomadi.
Non mi dispiace ammetterlo, sono proprio un po’ invidioso di Bianchini e del suo Tibet.
Massimo Ortalli
Note
- “Oggi ci si catapulta nei luoghi. Non si viaggia per raggiungerli. Oggi l’obbiettivo è la meta. Non il viaggio. Bisogna arrivare a destinazione in tempi brevi, vedere tutto di corsa e ripartire per un’altra meta. Nessuno assapora più il gusto di entrare in una grande, bella e famosa città attraverso un lungo viaggio a piedi”.
- “In linea di massima odio i turisti. Ma qui in Tibet li odio ancora di più. Arrivano e si muovono, come prevede la legge, solo con le agenzie di viaggio cinesi che li fanno alloggiare in hotel cinesi e li fanno muovere con bus cinesi e li fanno mangiare nei ristoranti cinesi così che tutti i soldi vanno agli invasori. Poi, quando si sentono in colpa, gli mollano due dollari ai tibetani pensando di aiutarli, ma in realtà li abituano solo a diventare dei mendicanti”.
- “Sono un po’ spaventato da come troverò l’Everest. Ho paura di quello che posso vedere. Ho paura di trovare le bancarelle per i turisti. Ho paura di trovare degli alberghi stile Rimini. Ho paura di trovare una discarica”.
- “I cinesi sono furbi, sanno degli errori commessi dai sovietici. Sanno che se i russi avessero impiantato meglio la loro cultura in Cecenia ora non avrebbero i problemi che hanno. […] Sanno che se vogliono mantenere il Tibet devono cinesizzarlo. E per farlo devono arrivare dovunque. E così dal nulla in una casa isolata dell’altopiano occidentale ti ritrovi la carta da parati Walt Disney e il ritratto di Mao”.
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