All’inizio di questo decennio si respirava in Australia un clima di speranza, una sorta di euforia aveva inondato il paese: la rinconciliazione fra bianchi e aborigeni sembrava a portata di mano. Era entrata nel cuore della gente durante le olimpiadi di Sydney, simboleggiata dal giro d’onore dell’atleta indigena Cathy Freeman nello stadio olimpico. Era stata cantata nel corso di grandi e pacifiche manifestazioni. Fu bello ritrovarsi in una di quelle marce, come un battesimo insperato, poche settimane dopo aver messo piede sul suolo australiano, trasportato dai sentimenti di una folla festosa, unito a gente di ogni colore che chiedeva a gran voce alla politica un gesto di buona volontà.
Quel clima è durato poco, spazzato via da un governo conservatore poco incline a sostenere questioni di giustizia e ammenda storica. Preoccupato piuttosto delle conseguenze legali dei suoi atti, quel governo si rifiutò di offrire scuse ufficiali agli aborigeni per gli orrori del passato, determinato a non incrinare la tradizionale visione anestesizzata della storia della Federazione e soprattutto preoccupato di non scoperchiare il vaso di Pandora dei risarcimenti per le molte ingiustizie inflitte agli indigeni nel corso di due secoli.
Non che le richieste di risarcimento fossero mancate in passato. Non sono mancate le dispute legali su un’enorme serie di violazione dei diritti umani. Ma l’Australia è l’unica ex colonia dell’impero inglese a non aver mai stipulato un trattato con le popolazioni indigene. L’unica democrazia di tipo occidentale a non aver costituito, nel proprio ordinamento, le norme necessarie a dare validità giuridica alla dichiarazione universale dei diritti umani, alla convenzione delle Nazioni Unite contro il genocidio e ad altri trattati internazionali, di cui pure è firmataria. Così, ad esempio, nel luglio 1998 una rappresentanza aborigena sporse denuncia contro il Governo Federale per “incitamento al genocidio”, ma la Corte Federale dovette archiviare la richiesta, in mancanza di una legge che sanzionasse tale reato.
“Anche voi siete invasori”
La mia personale iniziazione alla questione aborigena è avvenuta poco dopo il mio arrivo in Australia, accompagnando un gruppo di ragazzi di vari paesi all’incontro con Dennis, attivista aborigeno cresciuto in una “missione”, eufemismo utilizzato per indicare le riserve istituite nell’ottocento.
Piuttosto che mettersi a raccontare la sua vita Dennis preferì cominciare con una provocazione: “Anche voi siete invasori”, disse, “per venire qui avete chiesto il visto a chi occupa illegalmente questa terra da duecento anni”.
Di quella serata ricordo nitidamente le lacrime di una ragazza australiana che improvvisamente si sentiva straniera nella sua terra, assalita dai rimorsi per i massacri commessi dai suoi avi. Finì per lei che Dennis dovette restituirle la terra dichiarandola “adottata” e benvenuta. Finì che andò via da quell’incontro cresciuta, sapendo cose del suo paese che aveva ignorato fino a quel momento. Finì per me, più consapevole e informato di lei, che ne uscii con un tarlo in testa. Sono anch’io un invasore? Quel tarlo scava ancora oggi.
Ai nuovi arrivati l’Australia riserva molte gradevoli sorprese. Agli antipodi c’è una nazione giovane, bella, accogliente e piena di fascino. Le grandi città sono moderne, organizzate e pulite. Le strade sono affollate di gente di tutti i colori, si respira un’atmosfera giovane e positiva, si avverte il successo di quelle politiche multiculturali che nell’ultimo ventennio hanno assicurato la buona convivenza di una popolazione sempre più diversificata.
Per chi ama la natura e l’avventura il paese offre grandiosi scenari, bei parchi naturali, deserti immensi, spiagge oceaniche lunghe e deserte, tramonti spettacolari, un cielo stellato fino all’inverosimile e una fauna affascinante.
Le differenze sociali e di classe sono decisamente meno esacerbate che in Europa, il paese ha una vocazione egualitaria e nutre la convinzione che ad ognuno debba essere consentito di avere nella vita un: “Fair Go”, una partenza equa, la possibilità di vivere onestamente e decentemente. Ai nuovi migranti viene offerta la possibilità di inserirsi con relativa facilità e l’acquisizione della cittadinanza è piuttosto facile e veloce.
La condizione in cui versa la maggior parte degli aborigeni, però, contrasta drammaticamente con questo quadro.
Visitando i musei, ricchi di sezioni dedicate alla storia aborigena, curiosando nei negozi di souvenir pieni di boomerang e dipinti tradizionali, si ha l’impressione che l’Australia di oggi mostri grande attenzione e rispetto per le culture originarie di questa terra. La realtà però è assai diversa. Chi vuole cercare l’Australia indigena non può trovarla nei musei e neanche fra gli aborigeni che suonano il didjeridoo per le strade e si fanno fotografare con i turisti per qualche dollaro di mancia. La realtà è altrove.
Gli studi più recenti datano la presenza umana in Australia ad oltre 50.000 anni fa. Quella aborigena è quindi la più antica cultura vivente. All’atto della fondazione della colonia almeno cinquecento diverse lingue erano parlate da altrettanti gruppi etnici o tribù. Si trattava di gruppi molto diversificati, dalle popolazioni semi stanziali delle coste ai nomadi del deserto, ma tutti avevano in comune alcuni tratti: il rapporto profondo, intestricabile con la terra madre e nutrice; un’organizzazione sociale caratterizzata da un intricato sistema di rapporti fra gruppi e tribù basati su parentele allargate e consanguineità; una cosmologia complessa e raffinata, fondata su un tempo mitico della creazione oggi comunemente conosciuto come il “dreamtime”, il tempo del sogno.
Di quelle antiche culture gli inglesi, forti della loro pretesa superiorità e ansiosi di portare la vera “civiltà”, non capirono nulla. Essi videro solo selvaggi seminudi e dichiararono che l’Australia era “Terra Nullius”, non apparteneva a nessuno, e se ne impossessarono.
Da nomadi a sedentari
L’espansione della colonia privò gli indigeni dei loro tradizionali territori di caccia e raccolta. Decimati dalle nuove malattie arrivate con le navi degli invasori, scacciati o abbattuti come animali, tentarono di resistere e vennero sterminati un po’ ovunque. Antiche tribù e lingue scomparvero per sempre dalla faccia della terra.
Fra i superstiti di quella lotta impari, alcuni, ridotti alla fame e alla disperazione, si spostarono ai margini delle città dei bianchi e divennero gli schiavi della nuova società, destinati ai lavori più umili e degradanti in cambio di poco cibo. Gli altri furono rinchiusi nelle riserve, sottoposti all’autorità di “Protettorati” dotati di enormi poteri esercitati senza scrupoli.
Il passaggio dalla vita nomade a quella sedentaria, in condizioni igieniche e alimentari disastrose, portò anche al declino della salute, con conseguenze ancora oggi evidenti.
Il contatto fra i voraci coloni e le donne indigene aveva lasciato in eredità una popolazione meticcia che divenne lo scandalo della società puritana dell’epoca. I bambini vennero portati via dalle loro famiglie per farli crescere in istituzioni gestite dallo Stato o dalle chiese. Di questa pratica particolarmente crudele, rimasta in vigore fino ai primi anni settanta del novecento, gli australiani nulla sapevano fino a pochi anni fa, quando un’inchiesta parlamentare portò alla luce lo scandalo di decine di migliaia di bambini rapiti alle famiglie: le cosiddette: “Stolen Generations”, generazioni rubate.
Per quasi duecento anni, fino alla fine degli anni sessanta, gli aborigeni sono stati completamente istituzionalizzati, ogni aspetto della loro vita controllato e sancito dalle autorità.
Solo nel 1967 un referendum popolare cancellò quella parte della Costituzione australiana che relegava gli aborigeni al controllo e all’arbitrio dei vari stati della Federazione e, escludendoli dal censimento della popolazione, li equiparava di fatto alla fauna.
La fine delle riserve e del ferreo controllo statale non portò però ad un miglioramento nelle condizioni di vita degli indigeni. In un paese in cui il pregiudizio era profondamente radicato, uomini e donne privi di istruzione, abituati a dipendere completamente dalle istituzioni, si ritrovarono ai margini di una società che li respingeva, portatori di una cultura ridicolizzata e distrutta, catturati nel circolo vizioso dell’emarginazione che produce nuova emarginazione, destinati a una vita breve, miserabile e violenta.
Quella tenda a Canberra
Ma dagli anni sessanta ad oggi la vita degli aborigeni è stata anche caratterizzata da un ampio e combattivo movimento per i diritti, che con alterne vicende dura fino ad oggi.
La rinascita è cominciata nel 1966, quando uno sciopero di lavoratori aborigeni in una grande fattoria del nord, iniziato per protestare contro le misere paghe e le discriminazioni subite sul lavoro, finì presto per trasformarsi qualcosa di diverso: attraverso l’agitazione sindacale gli aborigeni presero coscienza della loro condizione. Dalla richiesta di salari migliori si passò a reclamare la restituzione della terra rubata.
Nacque allora un movimento politico nonviolento che a tratti ha assunto una forza dirompente ed ha avuto il merito di far conoscere al paese la reale situazione di discriminazione e segregazione razziale in cui versava la popolazione indigena.
Il simbolo di questo movimento è la tenda eretta davanti al parlamento federale a Canberra, “Ambasciata” degli aborigeni, cento volte abbattuta dalla polizia ed altrettante rimontata, fino a che è diventata una costruzione di pietra che ancora oggi porta i segni dell’orgoglio indigeno.
Il successo storicamente più importante del movimento è arrivato nel 1992 quando, dopo una lunghissima disputa giudiziaria, con una storica sentenza l’Alta Corte ha sovvertito duecento anni di giurisprudenza, dichiarando l’esistenza di un “Native Title”, un diritto di proprietà originario sulla terra, da parte dei popoli nativi. Quella sentenza scatenò la gioia di una parte del paese e il panico fra quanti temettero di dover restituire case, fabbriche e miniere ai legittimi proprietari. Ma il governo federale, con una serie di interventi mirati, fece in modo di vanificare in gran parte gli effetti di quella sentenza. Anche se una parte di territorio, nelle aree più remote, è stato effettivamente restituito ai popoli nativi, se in alcune zone gli indigeni sono riusciti a fermare speculazioni edilizie e ricerche minerarie, la questione del “Native Title” resta ancora oggi una vicenda aperta e dolorosa, una vittoria simbolica che ha portato pochi benefici nella vita reale delle popolazioni native.
Nel corso degli anni il movimento dei nativi australiani ha vissuto alterne vicende, ma il suo risultato più significativo è stato probabilmente quello di riuscire a costruire un sentimento comune di “aboriginalità” fra i tanti gruppi etnici sparsi per tutto il paese, fra indigeni urbanizzati e rurali. Se una volta i nativi cercavano di nascondere le proprie origini, oggi chi ha anche solo lontane origini aborigene ne parla con fierezza.
Gli aborigeni sono diventati un soggetto politico col quale ogni governo deve confrontarsi. La loro condizione umana rappresenta uno scandalo evidente in un paese economicamente florido.
Clima di violenza e intimidazione
Dopo oltre quarant’anni di lotte, la situazione odierna, per la maggior parte degli aborigeni è ancora tragica, eguale o peggiore di quella di molte popolazioni povere del terzo mondo.
La maggior parte delle comunità aborigene versa in condizioni di totale emarginazione, con case fatiscenti, sovraffollate, prive di servizi igienici, fognature e acqua potabile.
Malnutrizione, malattie endemiche sconosciute nel resto del paese, disoccupazione cronica, sono caratteristiche comuni a queste comunità, i cui membri vivono per lo più di sussidi statali gestiti da una rete di funzionari pubblici che sembrano essere i principali beneficiari del sistema. La scolarizzazione è molto bassa e i giovani sono privi di qualunque prospettiva. In molte comunità rurali e nei centri urbani l’abuso di alcol e droghe è una piaga sociale di vaste proporzioni e al consumo di alcolici sono associati la violenza domestica, che colpisce soprattutto le donne, e gli abusi sessuali sui bambini. Comportamenti che nella società tradizionale aborigena erano totalmente sconosciuti.
La speranza di vita per gli aborigeni è di circa diciassette anni inferiore rispetto al resto della popolazione: la metà degli uomini e un terzo delle donne muore prima del quarantacinquesimo anno di età. la mortalità infantile è tre volte superiore a quella dell’Australia bianca.
Soggetti ad un costante controllo e alla continua violenza da parte della polizia, gli aborigeni, pur essendo solo il 2,3% della popolazione australiana, rappresentano il 14% di quella carceraria. Il numero di indigeni morti durante l’arresto o la detenzione è così elevato da aver spinto il Parlamento federale, nel 1987, all’apertura di un inchiesta, giunta alle sue conclusioni solo nel 1991. L’inchiesta ha appurato come i decessi fossero in gran parte da attribuirsi a pratiche illegali e brutali deliberatamente utilizzate dalla polizia. Tuttavia nessun procedimento giudiziario è mai stato avviato contro i responsabili e i decessi in carcere sono continuati.
Il clima di violenza e intimidazione, unito alla mancanza di prospettive, spinge molti giovani alla scelta estrema: il suicidio, tradizionalmente sconosciuto nelle comunità aborigene, è diventato una piaga sociale immensa.
Si potrebbe andare ancora avanti: i dati della tragedia aborigena sono impressionanti. È questa la maggior vergogna di questo paese, lo scandalo, il dramma nascosto che ne attraversa tutta la storia.
Sulla questione aborigena serve un ripensamento collettivo, un impegno dell’intera comunità. Un rinascimento australiano, un moto complessivo della società per cambiare il corso della storia di comunità devastate da duecento anni di occupazione brutale che ha portato alla distruzione di valori, lingue e culture. Il progetto della riconciliazione andava in questa direzione, ma è stato bruscamente eliminato dall’agenda politica.
Nel novembre 2007, archiviati undici anni di governo conservatore, l’Australia ha voltato pagina. Il 13 febbraio 2008 il nuovo primo ministro laburista, Kevin Rudd, ha compiuto un passo storico e nella seduta di insediamento del Parlamento federale ha offerto agli aborigeni scuse ufficiali, a nome delle istituzioni, per il dramma delle “Stolen Generations”. Scuse parziali, ma era la prima volta nella storia del paese e sono state accolte dalle comunità aborigene e da molti bianchi con grande commozione.
Il Primo ministro ha promesso allora un intervento deciso per chiudere il solco, annullare, nel giro di una generazione, la distanza che separa la società australiana benestante dalla popolazione indigena quanto ad aspettativa di vita, mortalità infantile, salute, casa, accesso alla scuola e al lavoro. Si è proposto, insomma, un compito immenso. Ma a distanza di poco più di un un anno nulla di concreto è stato fatto e se il precedente governo non aveva trovato nulla di meglio che spedire l’esercito a controllare le comunità più turbolente e problematiche, quello attuale per ora ha continuato a finanziare quei progetti, lasciando le buone intenzioni a tempi migliori.
In realtà la piattaforma politica di un vero processo di riconciliazione era stata chiarita già nel maggio del duemila da Patrick Dodson, uno dei più importanti e rispettati attivisti indigeni.
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L’attivista aborigena Alice Briggs |
Partecipazione coraggiosa
Gli aborigeni chiedono una vera rappresentanza politica e istituzionale; il risarcimento per il furto della terra e lo sfruttamento della manodopera; accordi a livello regionale, autogoverno locale, diritti di proprietà intellettuale e culturale, riconoscimento di alcuni aspetti del diritto tradizionale aborigeno, sviluppo economico nelle aree depresse.
Sopra ogni altra cosa, il movimento chiede che si giunga alla firma di un trattato e all’individuazione di forme di sovranità, sostenendo che fino a quando questo processo non sarà concluso gli aborigeni continueranno a vivere nella loro terra come estranei, testimonianza vivente di una “civilizzazione” costruita sulla repressione e sull’ingiustizia razzista che ha contraddistinto tanta parte della storia australiana.
È una piattaforma molto chiara, a fronte della quale il governo offre solo interventi pratici che rischiano di non risolvere alcun problema.
Fin dagli anni settanta, infatti, sulla questione aborigena sono stati versati fiumi di denaro e varati progetti ambiziosi, finiti in disastri e fallimenti. Secondo l’analista Jon Altman, dell’Australian National University, quei piani di sviluppo, calati dall’alto, soffrivano di una mentalità colonialista, partivano dal presupposto che esiste un solo possibile modello di sviluppo, un solo desiderabile modo di vivere cui tutti, indigeni o meno, debbono aspirare. Ma gli aborigeni, nel guado fra due culture, non volevano perdersi in una completa assimilazione e la società bianca, malata di pregiudizi, non era comunque preparata ad accoglierli, li respingeva ai margini.
Il divario odierno non è quindi da ricercare soltanto nelle statistiche che disegnano le inaccettabili condizioni di degrado in cui versano le comunità aborigene, ma anche nella mancata volontà di capire nel profondo le culture indigene, comprenderne la spiritualità, la diversità nei valori e nelle aspirazioni rispetto al modello dominante. Un’incapacità che nella storia ha costruito una barriera di reciproca diffidenza e mutuo disprezzo.
Il rinascimento australiano, di cui hanno scritto i quotidiani nel 2008, dovrà essere allora molto più di una manciata di finanziamenti gestiti dai soliti funzionari governativi pieni di pregiudizi. Dovrà essere l’incontro, il dialogo, il riconoscere e rispettare le reciproche differenze nella comune umanità, la costruzione di una nuova cultura australiana.
Serve la partecipazione coraggiosa di tutta la comunità. Occorre la disponibilità a mettere in gioco tutto, anche valori e simboli che qualcuno ritiene sacri e inviolabili. Il cammino sarebbe diverso se dalla società civile nascessero nuovi movimenti. Se coloro che hanno pianto d’emozione il tredici febbraio 2008 non restassero passivi ad attendere le decisioni dei governo ma decidessero di darsi da fare, prendere nelle loro mani il processo che punta a chiudere il solco che li divide dagli aborigeni, pronti a costruire assieme a loro il futuro.
L’attivista aborigena Alice Briggs, nel 1972, gridò in faccia ai bianchi la sua rabbia: “siete arrivati e avete preso tutta la terra e noi siamo oggi come accampati sulla terra dei bianchi. L’unica soluzione è riprenderci la terra e correggere le ingiustizie. Dobbiamo farlo noi perché i bianchi non lo faranno mai”. Mi piacerebbe che quelle parole non si avverassero: vorrei che i bianchi cominciassero veramente a correggere le ingiustizie del passato e quelle del presente.
Intanto nella mente continua a scavare quel tarlo, ma ho ormai rinunciato all’alibi del punto interrogativo. Sono anch’io un invasore.