Gli volevamo bene, anche se era comunista, proprio comunista, di quelli che rimpiangevano il loro partitone. Gli volevamo bene perché è sempre stato un pungolo nel fianco del suo partito, perché sempre troppo a fianco dei lavoratori, sempre troppo innamorato della coerenza per essere un intellettuale organico a un sistema.
Gli volevamo bene perché una volta su un qualche palco, guardando Marco Rovelli da una parte, me dall’altra, disse... “è la prima volta che sono il cantante più moderato sulla scena... qui sono tutti anarchici!”.
Ma lo diceva soddisfatto, contento che noi, suoi “allievi” morali, fossimo diversi da lui.
Gli volevamo bene perché era burbero e scontroso e ti rispondeva al telefono con la frase “non ho tempo”,
e poi ti teneva un’ora a raccontarti tutto. L’ho sentito quindici giorni fa per un concerto da fare assieme in Calabria, lui era acciaccato, non faceva altro che lamentarsi, però ha finito dicendo “Vabbé è da un po’ che non vado in Calabria... c’ho proprio voglia! Ci sentiamo”.
Aveva suonato a Brescia il 28 maggio, per i 35 anni da Piazza della Loggia, il 30 a Montevarchi, il 12 giugno era uscito il suo ultimo articolo sul Manifesto.
Quando mi capiterà spero che la morte mi trovi altrettanto vivo.
Il fatto che fosse un grande poeta, oggettivamente libertario. Il fatto che fosse un affabulatore geniale,
un grande scrittore di canzoni, un folle al timone della nave dei folli, uno scrittore di versi in milanese, nato a Lucca, che non se la sentiva di lasciare la lingua del Porta in mano ai leghisti, è il motivo per cui lo amiamo.
Ma questo non finisce oggi che Ivan non c’è, perché le canzoni sono vive, finché le si canta, e noi, i suoi allievi anarchici, non abbiamo alcuna intenzione di smettere.