Eravamo stati facili profeti quando prevedemmo che le promesse e le buone intenzioni espresse da Barak Obama nei suoi discorsi d’insediamento avrebbero dovuto misurarsi con gli zoccoli duri di un’America sostanzialmente conservatrice, che dichiarava, con il voto al Presidente di colore, di voler cambiare rotta, ma non riusciva a liberarsi dell’apparato e degli uomini che avevano provocato, e spesso innescato, la crisi epocale del capitalismo mondiale nella quale siamo ancora immersi.
Il reaganismo, dal quale ha origine l’attuale grande depressione, scorre ancora nelle vene dei maggiori consiglieri economici del Presidente. Ancora qualche settimana fa, Obama ha confermato Ben Bernanke alla guida della Federal Reserve, l’istituzione che presiede all’erogazione del denaro anche e soprattutto nei periodi di emergenza.
Non dobbiamo tornare indietro, non dobbiamo tornare al sistema bancario sovraindebitato, ai profitti delle imprese gonfiate, ai manager superpagati e corrotti, ha detto Obama, ma ha sorvolato sul fatto che proprio Ben Bernanke, con il suo sodale Greespan, nel lungo periodo dell’amministrazione Bush hanno contribuito, con la deregolamentazione dei mercati, a innescare la grande depressione.
Di Bernanke, repubblicano doc, si dice che è un pragmatico, che non indulge a suggestioni ideologiche ed è quindi sempre disposto a cambiar pelle. Ma questa non è una virtù in un periodo nel quale non si deve soltanto arginare l’emergenza, ma prendere misure che consentano al sistema di non replicare ciclicamente la crisi.
Non ci pare che, complessivamente, l’amministrazione Obama si muova in questa direzione.
Chi pagherà il conto?
Nessuna contropartita è stata richiesta alle banche a compenso dell’enorme flusso di liquidità destinata a ricostituire le loro riserve, dissipate in speculazioni azzardate, per non dire dissennate. Nessuna misura efficace e controcorrente è stata presa per impedire alle borse – sorde e cieche le autorità di garanzia – di speculare sulla massa di titoli spazzatura che hanno determinato il crollo di Wall Street.
A spese del debito pubblico (dell’indebitamento, cioè, della collettività) sono state salvate industrie, soprattutto automobilistiche, che hanno clamorosamente sbagliato le loro strategie produttive, premiando con gettoni miliardari i managers che del loro fallimento erano i protagonisti principali. Riattivare un sistema produttivo collassato è impresa che richiede anni e investimenti a fondo perduto. Chi pagherà il conto? Ma, soprattutto, quali sono le strategie che consentiranno il consolidamento di un’eventuale ripresa?
La partita da giocare – a mio modo di vedere – è sul piano delle scelte monetarie. Bisogna decidere in fretta se è possibile, ed utile, continuare a mantenere pressoché a zero il costo del denaro o deliberare di farlo costare di più.
Nel primo caso, poiché per sua natura il denaro va verso altro denaro, non si potranno evitare effetti inflattivi e bolle speculative che riavviterebbero il sistema nella spirale depressiva.
Nel secondo, l’aumento dei tassi, si rischierebbe di rendere più problematica la ripresa per la scarsa propensione ad investimenti privati a medio e lungo termine, in un contesto così instabile e con l’aspettativa credibile che, a turare le falle del sistema produttivo debba e possa essere lo Stato.
D’altra parte, Bernanke ha investito oltre duemila miliardi in poco più di un anno per salvare banche private dal fallimento e massicci investimenti sono stati effettuati nel privatissimo settore delle industrie automobilistiche che, malgrado tali aiuti, navigano ancora in acque tutt’altro che tranquille.
La terza incognita, inoltre, è l’andamento dei consumi. Tutti sanno, anche intuitivamente, che la ripresa produttiva dipende in larga misura dall’andamento dei consumi interni. Dal loro stato di salute dipende anche la capacità del sistema di esportare in un panorama di concorrenza spietata e di risorse limitate.
Bene, la realtà è che il popolo americano è certamente il più indebitato del mondo. Ha vissuto per decenni al di sopra delle sue possibilità e adesso non ha risorse per onorare i suoi debiti. Quindi non si vede come possa incrementare i consumi in assenza di una politica fiscale favorevole e di un sistema di servizi sociali più efficienti. Ma, anche in questi settori, la strada di riforme incisive trova ostacoli che non sappiamo ancora quanto sormontabili. Si pensi solo alla riforma sanitaria. che viaggia sul filo di lana di un Congresso spaccato trasversalmente, e alla riforma del sistema assicurativo, fondamentale per la sicurezza dei cittadini e attualmente inavvicinabile per chi percepisce un reddito medio-basso.
In questo panorama si inscrive un debito pubblico salito in pochi mesi dai sette ai novemila miliardi e una disoccupazione assai prossima ai cinque milioni di unità.
E in politica estera...
È ovvio che nella situazione attuale è inessenziale concedere o meno il beneficio della buona fede a Barak Obama: sapeva che, passati gli osanna dell’investitura, si sarebbe trovato a contrastare non solo con una società – quella americana – sostanzialmente conservatrice, ma soprattutto con poteri espliciti o occulti che si sarebbero certamente messi di traverso nella strada di un rinnovamento non di facciata.
La sensazione è che non abbia valutato nella loro reale portata le forze che si sarebbero opposte ai suoi disegni; e che non sia stato abbastanza spregiudicato nello scegliere con maggiore oculatezza e determinazione gli uomini che avrebbero potuto certamente aiutarlo nel suo impegno.
Lo abbiamo già scritto in un precedente articolo: troppi repubblicani, di ascendenza reaganiana nel suo staff, e l’esperienza insegna che, per portare avanti politiche innovative occorre trovare uomini nuovi capaci di realizzarle.
Ma è nella politica americana nel Medio Oriente e nell’Asia centrale che Obama sbaglia di suo. La sua ottica non si discosta significativamente da quella del predecessore George W. Bush, nel senso che sia l’uno che l’altro hanno coltivato e continuano a coltivare l‘illusione di potere uscire indenni dal pantano iracheno e di potere vincere con le armi i Taliban e l’opposizione popolare contro i presidi militari americani e della Nato che pretendono di controllare, con qualche decina di migliaia di uomini, un territorio vastissimo e spesso inaccessibile.
Le recenti elezioni presidenziali in Afghanistan, se depurate della retorica consolatoria dell’Occidente sul processo democratico che si sarebbe avviato in quell’infelice Paese, dimostrano, con il linguaggio inequivocabile dei numeri, che solo il 43% degli elettori ha espresso il proprio voto nelle urne, contro il 74% delle precedenti presidenziali.
Certo, in qualche misura avranno giocato le minacce dei talebani, ma è certo che il regime corrotto di Karzai abbia tenuto lontani gli elettori dai seggi elettorali. Chiuso nel presidiatissimo ed esclusivo quartiere di Kabul, il vecchio presidente, sostenuto malvolentieri dall’amministrazione americana, si mantiene in sella con le armi della corruzione e del ricatto: non è un caso che, ancor prima di esser certo di aver vinto la farsa delle elezioni, abbia richiamato al suo fianco un uomo come Rashid Dostum, generale esiliato in Turchia per sottrarsi alla giustizia, reo di aver partecipato, nel 2001, all’eccidio di centinaia di prigionieri talebani, con la complicità della CIA. Il candidato alla vicepresidenza, il tragico Mohammed Quasim Fahim, è un noto trafficante di droga, corteggiato a suo tempo dall’amministrazione Bush come signore della guerra contro le truppe russe. Mi pare, così, che l’appoggiarsi a regimi corrotti e dittatoriali per affermare logiche di dominio rimanga una costante delle amministrazioni americane, a prescindere da chi pro tempore le presiede. Tuttavia, una cosa è la complicità con esponenti di scarso carisma e di discussa moralità, altra cosa è controllare sul terreno una realtà che ogni giorno di più sfugge di mano.
La guerra in Afghanistan l’America non la vincerà mai. Lo hanno capito persino i vertici militari che conducono le operazioni. Lo stesso capo di stato maggiore del contingente, ammiraglio Mike Mullen ha recentemente dichiarato che il conflitto si fa sempre più pesante e che le azioni dei taliban sono sempre più efficaci. Ma della situazione geopolitica di quella parte di mondo bisogna occuparsi molto più approfonditamente di quanto non si possa fare a chiusura di un articolo. Lo faremo, speriamo, in un prossimo futuro.