La rivolta in Iran, scoppiata in seguito alla probabile truffa elettorale ordita
dal presidente confermato Amadhijnejad, è con ogni evidenza un momento alto e reso visibile dai media occidentali di uno scontro sociale in atto da anni all’interno del “Paese degli Ari”. A tale scontro si sono saldate le contraddizioni interne al blocco di potere che gestisce il paese a partire dalla controrivoluzione islamica del 1979 che distrusse uno straordinario processo di mobilitazione sociale che aveva abbattuto il regime dello Shah reza Pahlevi.
L’Iran, a differenza da quello che ci viene raccontato quotidianamente dai media, è un paese con industria ed infrastrutture moderne, che da decenni vede la presenza di organizzazioni sociali e sindacali capaci di sfidare i regimi autoritari ed oppressivi che si sono succeduti, prima nel nome della tradizione e dello schieramento con l’Occidente, poi con il ritorno all’Islam e il presunto antimperialismo dei gestori della repubblica islamica.
La struttura economica iraniana è conformata ad un capitalismo di stato gestito per lo più dalle confraternite misericordiose saldamente insediate al potere, cui rispondono direttamente i due corpi d’élite che hanno guidato la repressione nel paese: i pasdaran della rivoluzione e i basij, provenienti dalle fila dei ragazzini (a volte si trattava di bambini di otto-nove anni) utilizzati durante la guerra Iran-Iraq per le incursioni al fronte attraverso i campi minati.
La struttura sociale del paese è meno arretrata di quanto si pensi; esiste una diffusa working class concentrata nei settori petrolifero e meccanico, ed esiste una borghesia imprenditoriale di piccola e media impresa che opera non solo nel commercio ma nella produzione di beni di consumo. Le campagne soffrono invece di un’arretratezza dovuta alla mancata riforma agraria del 1979 e dalla repressione dei moti contadino del 1980-81. La concentrazione delle terre ha permesso, comunque, la formazione di una borghesia agraria fedelissima della teocrazia che oggi preme sul presidente confermato per ottenere una parziale privatizzazione del settore manifatturiero pubblico. Allo stesso modo il bazar, la borghesia commerciale diffusa soprattutto a Teheran ha aperto negli scorsi anni un contenzioso con il potere centrale per ottenere l’allargamento del proprio spazio economico. Amadhijnejad si è in realtà espresso a favore di queste istanze preparando la strada alla partecipazione della borghesia agraria e commerciale all’attività produttiva del paese, fermo restando il controllo di questa nelle mani dello stato e delle confraternite, allo scopo di permettere al bazar di fare profitti senza perdere importanti fattori di liquidità e di consenso. Ci risulta, inoltre, che sia in corso un processo di costruzione di una borghesia di stato che utilizza il proprio ruolo all’interno della macchina economica per migliorare le posizioni personali sia dal punto di vista del guadagno che da quello dell’influenza sugli assetti di potere.
Apparente paradosso
La presidenza Amadhjinejad è stata un momento importante in questo processo, dal momento che l’attuale presidente ha rotto gli equilibri interni al potere teocratico, rafforzando l’autorità della borghesia di stato e minando alla base l’autorità del gruppo dirigente clericale proveniente dalla “Rivoluzione”.
Lo scontro in atto con Rafsanjani, ex-pupillo dell’ayatollah Khomeini ed ex Presidente della Repubblica tra il 1988 e il 1997, è sintomatico di quello che sta avvenendo all’interno delle stanze del potere: da un lato l’uomo della continuità, deciso a giocare il tutto per tutto nel tentativo di conservare pienamente il potere per la casta sacerdotale, dall’altra il carismatico “uomo nuovo”, laico e non clericale, mistico e non ortodosso, deciso ad utilizzare l’appoggio della Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei – vecchio rivale di Rafsanjani – per trasformare l’Iran in uno stato assolutista dove il potere sia concentrato nelle sue mani e in una cerchia limitata di fedeli. In questo modo limiterebbe il potere dei religiosi nel nome, sia ben chiaro, della religione.
Questo apparente paradosso spiega bene perché i settori più clericali del potere iraniano abbiano appoggiato l’insurrezione quasi fino al punto di non-ritorno. Le stesse parole del principale candidato sconfitto, Mir Hossein Mousavi (appartenente alla casta clericale) sono state fino alla definitiva sconfitta, rivolte alla necessità del martirio”, regola scolpita nella versione sciita della religione islamica. A Qom, principale città santa sciita, luogo di elaborazione della khomeinista “supremazia dei religiosi”, principio guida della Repubblica islamica, la classe sacertodale si è pronunciata contro Amadhjinejad, pubblicando una lettera aperta in cui dichiaravano i risultati del voto “nulli, non avvenuti”. Da Qom, ed è figlio di un Ayatollah, viene Larjiani, presidente del Parlamento e figura di oppositore acerrimo di Amadhjinejad; sempre a Qom Rafsanjani ha tentato di mettere in piedi una maggioranza di ayatollah che destituisse la guida suprema Khamenei e dichiarasse nulle le elezioni. Come è evidente non ci è riuscito, ma voci ben informate parlano di una minoranza di 40 religiosi su 86 componenti il Consiglio degli esperti favorevoli a tale iniziativa. Ricordiamo che la Repubblica islamica è guidata da un Presidente sottoposto ai pareri della Guida Suprema, ma che la Guida può essere destituita dal Consiglio degli esperti che peraltro la nomina. In pratica un complicato meccanismo che permette una certa quota di espressione popolare, sottoposta all’approvazione della casta clericale. In altre parole gli Ayatollah si sono dati la garanzia che nessuno potesse mettere in discussione l’islamicità del regime.
Amadhjinejad, in questo contesto, ha compiuto quello che possiamo definire un colpo di stato modernista con il duplice obiettivo di impedire qualsiasi espressione di dissenso interno, e di mettere nell’angolo la casta clericale della generazione della rivoluzione.
Il vero segno del cambiamento imposto al paese dall’attuale Presidente è l’intronizzazione dell’élite nata con la guerra Iran-Iraq. Amadhjinejad era uno degli istruttori delle milizie Basji, nate appunto nel corso di quella guerra; il Presidente basa il suo potere sul controllo di questa milizia e su quella dei Pasdaran, i Guardiani della rivoluzione che dipendono da lui e da Khamenei. Queste milizie rimandano ad un potere militarizzato che non può più contare sul sostegno del clero come copertura “ideale” della propria azione.
Un potere militarizzato che si rivolge al nazionalismo ed al millenarismo come proprie giustificazioni. La propaganda sull’atomica, in questo quadro è lo specchio delle difficoltà di un regime che ha basato il suo consenso sugli alti corsi del prezzo del petrolio, ma che non riesce ad uscire dai colli di bottiglia tipici di un capitalismo di stato. La sfida all’occidente e un presunto antimperialismo che ha sedotto gli orfani di Stalin, Mao e del nazionalismo terzomondista in salsa terzinternazionalista, è la disperata risorsa di un golpista bisognoso di appoggio in un paese scosso dalle tensioni sociali. Quello di Amadhjinejad è un potere militarizzato, più simile a quello dei militari islamici pakistani che a quello esercitato da Khomeini dopo la controrivoluzione del 1979-80. Nello schema del secondo il clero deteneva il monopolio della verità e si arrogava il diritto di giudicare l’azione degli eletti, in quello del primo sono il Presidente, le sue milizie e i responsabili militari a detenere un potere assoluto non dissimile da quello di un dittatore dell’Europa novecentesca.
Nazionalismo e messianesimo
La particolarità iraniana, però, è quella del millenarismo religioso nel nome del quale si compie questa trasformazione: nella religione sciita, che è religione del martirio, la figura centrale è il dodicesimo imam, l’imam nascosto che tornerà alla fine dei tempi per guidare la riscossa dei puri contro la falsa religione, ossia la corrente maggioritaria sunnita dell’islamismo. La religione islamica è una religione fortemente politica e la figura dell’imam nascosto, il Mahdi, è la figura di un leader politico capace di guidare le masse alla vittoria finale del bene. In questo quadro la mediazione del clero scompare dal campo religioso e appare solitaria la figura del leader carismatico in diretto contatto con dio e capace di portare il suo popolo allo scontro finale. In particolare in Iran si è particolarmente distinta nella riflessione sull’Apocalisse mahdista la scuola Hakkani, diretta dall’ayatollah Yazdi, sostenitore convinto della prossima apertura dell’era dell’ultimo Imam. Tale era si dovrebbe riaprire con il ritorno del Mahdi in un contesto di rafforzamento del male e della necessità dei puri di utilizzare i mezzi del male per combatterlo. Amadhjinejad appartiene a questa scuola e, il giorno dell’insediamento ha invocato sulla sua presidenza la protezione del dodicesimo imam, fatto del tutto irrituale.
Un potere assoluto, basato sul nazionalismo e sul messianesimo è dunque quello che si è affermato in Iran; chi continua a parlare di teocrazia sta perdendo i contatti con la realtà. Inoltre a questo quadro bisogna aggiungere l’aspetto diciamo così “peronista” della politica di Amadhjinejad, capace di utilizzare i proventi petroliferi non solo per rafforzare le capacità militari, ma anche per sovvenzionare un diffuso sottoproletariato nelle immense periferie delle principali città e nelle campagne. Aumento dei sussidi di disoccupazione e delle pensioni minime, sovvenzioni all’acquisto dei generi di prima necessità e diffusione della sanità pubblica sono le misure che hanno fatto gridare una sinistra ormai preda assoluta del nazionalismo antiamericano ad un presunto “socialismo” del Presidente iraniano. Nella realtà non c’è nulla di nuovo nella politica di Amadhjinejad che utilizza i proventi del petrolio per acquistare consenso tra i diseredati e per utilizzarli come massa di manovra contro un ceto medio di laureati costretti al sotto impiego e contro una working class cui scioperi e sindacati rimangono strettamente vietati. In fondo negli anni Quaranta il dittatore argentino Peron fece la stessa cosa, utilizzando i descamicados contro una working class combattiva in cui era forte l’influsso del sindacalismo libertario.
Nelle manifestazioni di Teheran, però, non si è visto solo l’ambito di uno scontro di potere, ma anche quello di una vera e propria insurrezione sociale della quale sono stati protagonisti un ceto medio di alto livello culturale e occidentalizzato nei costumi, e una working class la cui combattività non è mai venuta meno. Il giorno successivo alla proclamazione dei risultati e i due giorni successivi sono state giornate di sciopero generale proclamato dalle centrali sindacali clandestine. Il tutto in un paese dove l’ultimo sciopero di massa, quello dei trasporti pubblici a Teheran nel 2005, è costato il licenziamento a centinaia di autisti e la forca ai presunti leader.
Gli impiegati dei trasporti pubblici, gli operai del petrolio e quelli manifatturieri, per quanto sottoposti a controllo e repressione tra i più severi nel mondo, continuano ad essere una spina del fianco del regime. Lo sono per quello in costruzione di Amadhjinejad, così come lo sono stati per quello degli ayatollah, così come lo furono per lo Shah.
La working class e il ceto medio sono i settori di classe che maggiormente pagano il costo delle politiche militariste e nazionaliste del Presidente così come di quelle di sussidio alla massa di manovra dei sottoproletari delle periferie cittadine. A questo si aggiunga la sempre più diffusa insofferenza in queste classi per il controllo asfissiante sulla vita privata dei singoli da parte dei Guardiani del Buoncostume. L’Iran è tuttora un paese dove una risata per strada tra due amiche può costare se non l’arresto, un pomeriggio in commissariato e la schedatura. Schedatura che impedisce l’accesso alle libere professioni e agli impieghi statali. In questi anni il regime ha accettato una certa libertà di comportamento, diradando le incursioni nelle case private e i fermi di auto sospette con componenti dei due sessi a bordo; lo ha fatto sperando così di allontanare la gioventù occidentalizzante e con alta formazione dalla politica. L’improvvisa messa in moto di questa generazione e la sua scesa in campo avrà come immediata conseguenza una recrudescenza del controllo della vita personale anche nei quartieri del ceto medio, cos’ come la rivolta del 2002 nelle università aveva riportato i Pasdaran a effettuare i loro controlli direttamente dentro le facoltà. Le crescenti difficoltà economiche del regime non potranno che acuire la repressione su quei settori sociali che sono, per le aspirazioni di vita, in evidente contrasto con la svolta millenaristico-militare del regime.
Per quanto riguarda i rapporti con l’estero, è evidente che l’occidente si è astenuto da qualsiasi interferenza nei fatti di Teheran; al di là di tardive condanne e di inviti a limitare la repressione, nessuna pressione vera e propria è stata messa in campo da americani ed europei. Lo stesso sequestro di otto impiegati iraniani dell’ambasciata britannica è parso più un modo di sollevare un’ondata di orgoglio nazionalistico da parte del regime più che una rappresaglia contro inesistenti finanziamenti all’opposizione. Opposizione, oltretutto, i cui leader discendono direttamente dall’élite politica che concepì ed appoggiò il sequestro del personale dell’ambasciata americana nel 1980. A un occhio esperto le prese di posizione della presidenza americana e dei leader politici europei sono state caute e finalizzate a rendere fruttuose le aperture del Presidente americano Obama verso la leadership iraniana. È evidente che per gli USA sarebbe meglio trattare con un conservatore islamico come Rafsanjani, interessato più al mantenimento al potere della sua casta che non al rafforzamento dell’immagine nazionalista del regime; è però altrettanto evidente che il progetto di distensione in Medio Oriente, stella polare dell’attuale politica americana prevede la necessità di relazionarsi con chi comanda a Teheran, chiunque esso sia. I contrasti evidenti a riguardo dell’Iran tra gli USA e il loro alleato israeliano sono spia di questa necessità e del pragmatismo del neo presidente americano. L’Iran è necessario agli USA per pacificare l’Iraq e l’Afganistan, e la retorica roboante di Amadhjnejad è un prezzo sopportabile per ottenere questo fine.
L’importante presenza italiana
Per quanto riguarda l’Italia, la preferenza per un’Iran stabile è più che evidente nelle mosse di Frattini che fino all’ultimo ha sperato di ottenere una presenza iraniana al G8 sull’Afganistan di Trieste. D’altra parte la presenza economica italiana in Iran, grazie anche all’assenza forzata di USA e Regno Unito dalla scena, è una presenza importante come forniture di merci e, soprattutto tecnologie. Non dimentichiamoci che l’ENI è il partner prescelto dall’Iran per l’azione di modernizzazione degli impianti di raffinamento del petrolio, modernizzazione resa impellente dalla crisi della benzina, quando l’Iran, uno dei principali produttori petroliferi del mondo, dovette razionare la benzina causa insufficiente produttività dei suoi impianti. In questo quadro deve essere analizzato il rapporto tra l’Iran e un occidente sempre più vicino alla riconciliazione con Teheran e disposto anche all’affermazione di questi come potenza regionale in cambio di una sua fattiva collaborazione alla stabilizzazione dell’area. Lo stesso ruolo pacificatore messo in opera in Libano da parte di Hezbollah, partito sciita direttamente legato alla fazione di Amadhjinejad, nonostante la sconfitta elettorale dice molto di più sugli scenari in atto nell’area rispetto alle sparate millenaristiche dell’“antimperialista” Presidente iraniano.