Premessa
Dopo quattro mesi dal terremoto dell’Aquila, nell’area colpita circa 33.000 abitazioni sono ancora inagibili e di queste 19.600 fortemente danneggiate o contigue ad edifici danneggiati (“esito E” il 25,6%, “esito F” il 5% del totale dei 64.187 sopralluoghi effettuati).
Il numero complessivo degli sfollati è di circa 48.980 individui, di cui 19.160 in alberghi, 9.705 in case private e 20.115 nelle tendopoli. Il numero degli sfollati tende a ridursi (il giorno dopo l’evento superavano le 65.000 unità) in relazione alla disponibilità, a seguito delle verifiche, di edifici non danneggiati, all’assimilazione da parte degli abitanti dello choc provocato dal terremoto, al ridursi dell’intensità e della frequenza delle scosse ma, nonostante in breve tempo alcune migliaia di sfollati potranno rientrare nelle proprie abitazioni, molte migliaia dovranno attendere il ripristino delle condizioni di agibilità degli edifici.
Questo è un problema comune anche ai precedenti sismi che hanno interessato il Paese ed alla luce delle esperienze maturate la sistemazione dei cittadini in tale periodo viene considerata provvisoria in quanto l’obiettivo è la ricostruzione degli edifici crollati o danneggiati in particolare quando si tratti di centri storici o di un tessuto edilizio consolidato.
In passato per fornire una abitazione provvisoria alle popolazioni colpite da terremoto e permettere l’approntamento delle abitazioni definitive si è provveduto in diverse maniere. Tra le principali, utilizzate anche in maniera promiscua:
-
alloggiamento dei terremotati nelle tendopoli fino alla sistemazione di alloggi definitivi (soluzione questa mal praticabile viste la scarsa capacità delle tende di isolare dalle temperature esterne e la bassa qualità della vita che caratterizza le tendopoli);
-
alloggiamento dei terremotati in alberghi fino alla sistemazione di alloggi definitivi (soluzione con limiti significativi se praticata per periodi lunghi: distanza dal luogo di residenza originario e dal posto di lavoro, estraniazione dal contesto sociale e spaziale originario, difficoltà ad autogestire la quotidianeità);
-
alloggiamento dei terremotati in container, roulotte, camper (soluzione con limiti significativi);
-
alloggiamento dei terremotati in prefabbricati specificamente predisposti (limiti direttamente relazionati alla qualità dei manufatti ed alla sistemazione degli insediamenti).
Le soluzioni sinteticamente esposte nella loro utilizzazione, come sopra ricordato, hanno mostrato vantaggi e svantaggi e ambiti di miglioramento ottenibili con una più attenta progettazione e gestione.
A L’Aquila si è proceduto in diversa maniera.
In primo luogo, ripercorrendo parzialmente quanto già sperimentato, si sono organizzate 140 tendopoli e si è invitata la popolazione a sfollare in alberghi siti sul litorale regionale. Non si è quindi fatto ricorso a camper e roulotte per una precedente scelta della Protezione civile che, consapevole delle condizioni di degrado connesse al consolidarsi dei campi, ha preferito l’uso delle tende. Esse infatti definiscono in maniera chiara la temporaneità della soluzione (nelle tendopoli non è possibile in alcuna maniera ottenere una qualità della vita decorosa per tempi medio-lunghi), rappresentano la soluzione migliore per il primo intervento (facilmente immagazzinabili, trasportabili e approntabili, smontabili e riutilizzabili), permettono la massima rapidità nel fornire un riparo nell’immediato post terremoto.
In secondo luogo si è avviata la costruzione di abitazioni, denominato progetto C.A.S.E., in cui poter insediare gli sfollati per il tempo necessario alla sistemazione degli edifici danneggiati. Questa scelta è sicuramente fortemente innovativa rispetto alle esperienze maturate, in quanto tende ad eliminare la precarietà delle sistemazioni intermedie ed a fornire subito una condizione di qualità tendenzialmente simile alle condizioni pre-terremoto.
Le abitazioni attualmente in costruzione sono edifici prefabbricati con telai e tamponature di diverso materiale posizionati su piattaforme di cemento armato poggiate su giunti che hanno il ruolo di smorzare l’energia del terremoto. 150 palazzine antisismiche collocate in 20 luoghi diversi che dovrebbero ospitare circa 15.000 persone secondo criteri che attengono al tipo di nucleo familiare ed al danno riscontrato nelle abitazioni originali. Le abitazioni antisismiche dovrebbero essere pronte prima del sopraggiungere del freddo e, seppure la prima data era stata ipotizzata per settembre e vi sia quindi un effettivo ritardo alcuni insediamenti antisismici, sono in una fase di costruzione avanzata che consente di ipotizzare una effettiva conclusione nei prossimi mesi.
Per i cittadini le cui abitazioni sono di categoria da “b” a “d”, ovvero quelle con danni più lievi che possano essere riparate in tempi ridotti, ovvero per coloro che non rientrano nei primi 15.000 della classifica per l’assegnazione, vi è l’ipotesi di collocazione negli alberghi del teramano (con servizio navetta). Da più parti è stata ipotizzata la requisizione temporanea delle abitazioni libere ed agibili presenti nel territorio comunale (un censimento a metà agosto della Protezione civile ha indicato che nel solo capoluogo sono 1.600).
Un programma che ha una sua logica e che si sta realizzando quasi integralmente proprio in questi mesi. Un programma molto ambizioso e molto innovativo rispetto a quanto fino ad oggi fatto per rispondere al problema del post-terremoto e sul quale si stanno concentrando fondi disponibili, operatori e molta, molta energia sia da parte della Protezione civile, che ne cura l’attuazione, sia del Governo.
Critiche
Le critiche all’attuazione di questo programma di ricostruzione mosse dalla popolazione sono relative alle condizioni di vita nelle tendopoli, alla difficoltà di conoscere i tempi ed i modi della ricostruzione degli edifici danneggiati, alla mancanza di partecipazione alle decisioni ed alla espropriazione della possibilità di una azione diretta nei confronti della ricostruzione.
Le difficoltà, le incertezze e la mancanza di informazione su di un programma complessivo mantengono elevata la tensione. La grande attenzione da parte dei cittadini, quindi, è rivolta principalmente a capire il percorso temporale e procedurale attraverso cui le case originali verranno rese agibili e vi è soddisfazione nel vedere confermati i ridotti tempi di permanenza nelle tendopoli (alcune, molto marginali, sono state già chiuse e si prevede a settembre di chiuderne altre più significative). Per quanto riguarda la scelta della costruzione di nuovi edifici non vi è una effettiva critica ma solo una certa diffidenza, aumentata da una immaginabile tensione da parte di persone che hanno molto sofferto e che vivono in situazioni di estrema difficoltà e, giustamente, non si fidano completamente sia per la consapevolezza delle precedenti esperienze di ricostruzione nel nostro paese, sia per la mancanza di partecipazione alle decisioni.
La maggior parte delle critiche al programma C.A.S.E. espresse dalla stampa e dai partiti di opposizione, che solo a tratti interpretano le effettive tensioni e richieste dei cittadini, si sono concentrate nei mesi passati sulla difficoltà della sua attuazione e quindi sulla perplessità di un positivo esito; visto che parte dei nuovi edifici a fine agosto è quasi terminata ed è fortemente probabile che tutte le abitazioni previste siano completate più o meno come da programma, l’incisività delle critiche si è ridotta con il passare del tempo.
Insomma oggi sembrerebbe, a fronte dell’impegno e dell’organizzazione mostrata e dei risultati raggiunti e raggiungibili, che la scelta della costruzione di nuovi edifici sia stata a grandi linee corretta e che non vi sia un ambito ragionevole di esercizio critico.
Ma alcune considerazioni rendono questa scelta fortemente problematica. È sufficiente abbandonare i criteri che caratterizzano la società contemporanea per carpire l’incredibile irragionevolezza delle soluzioni adottate. Per fare questo è però necessario avere una consapevolezza dei limiti del modello sociale ed economico praticato e non percorrere metri di giudizio simili a quelli posti alla base delle scelte attualmente praticate.
1. Il punto zero
Nel momento in cui si sono resi disponibili dei ripari temporanei (tende ed alberghi) si sarebbe dovuto costituire un punto zero, ovvero il punto da cui partire per la ricostruzione. Da quel momento in poi le soluzioni adottate non sarebbero dovute più essere definite soluzioni di emergenza in quanto rientranti nella strategia di intervento, con tempi lunghi o lunghissimi, della ricostruzione e quindi aventi necessità di essere praticate in tempi rapidi ma con tutta la lucidità connessa alla consapevolezza di realizzare azioni che comunque segneranno il destino di questo territorio, del suo ambiente e delle comunità insediate.
Scelte quindi da attuare rapidamente ma in considerazione della capacità strutturante o destrutturate che esse posseggono nei confronti della società e del territorio.
Questa scelta è ancor più delicata per un territorio che è in piena crisi con una significativa perdita di posti di lavoro e di identità, con gli insediamenti costieri (Pescara) che continuano ad aumentare il loro peso in termini di popolazione e produzione. L’Aquila ed il suo territorio è un sistema economico delicato che è riuscito a sopravvivere a grandi progetti ed infrastrutture, grandi e fallimentari urbanizzazioni ed industrializzazioni basandosi su di un’economia in cui il peso delle attività turistiche, della qualità della produzione alimentare, del paesaggio, della cultura, del suo ruolo istituzionale e culturale è fondamentale. Molto di meno della produttività degli insediamenti costieri ma molto di più per la capacità di conservare, migliorandola, la qualità della propria esistenza, della propria cultura e del proprio ambiente.
Non avere definito questo punto zero e collegare direttamente la ricostruzione all’emergenza è un errore reso possibile dalla considerazione che gli edifici antisismici siano la soluzione temporanea degli sfollati mentre essi sono parte della riconfigurazione urbana post-terremoto del territorio e non hanno nulla a che condividere con la temporaneità che dovrebbe caratterizzare l’immediata azione post-terremoto collegata alla gestione ed interpretazione dell’emergenza.
2. Le abitazioni temporanee
Come detto la scelta fatta è stata quella di evitare insediamenti temporanei e puntare verso edifici definitivi temporaneamente utilizzati; ovvero quella di costruire edifici caratterizzati da livello tecnico e caratteristiche propri di un edificio duraturo ma farli occupare per un tempo limitato dalle popolazioni in attesa del recupero degli edifici esistenti e danneggiati.
Una scelta economicamente ed energeticamente molto impegnativa, la più impegnativa tra quelle praticabili. Una scelta che non ha però voluto tenere in conto questi due aspetti in quanto subordinati ad una gestione in emergenza tesa in primo luogo a mostrare la capacità risolutiva dei problemi insita nelle soluzioni adottate.
La superficie direttamente occupata dagli edifici è di 63 ha; se a ciò aggiungiamo le aree libere intorno agli stessi, e le infrastrutture necessarie per raggiungerli, possiamo quasi triplicare le superfici: la quantità complessiva di suolo consumato è intorno ai 200 ha.
I nuovi insediamenti sono 20, sparsi sul territorio comunale in aree territorialmente e ambientalmente casuali. Sono aree libere collocate in prossimità di strade, così da consentire una facile accessibilità (considerando che gran parte degli edifici utilizza componenti prefabbricati di grandi dimensioni l’accessibilità è fondamentale), con dimensioni tali da semplificare la collocazione ed il funzionamento del cantiere, piuttosto isolate per garantire la minore interferenza possibile con gli edificati esistenti.
Quasi tutti i terreni espropriati hanno destinazione agricola; il che vuol dire che sia che fossero realmente utilizzati per l’agricoltura, sia che fossero incolti, costituivano terreni senza destinazione d’uso insediativo (il che ha limitato i costi e i tempi dell’esproprio).
Un grande consumo di suolo, un aumento della mobilità (tutti gli insediamenti sono oltre l’attuale periferia della città), una ridotta attenzione all’efficienza energetica degli edifici, alla qualità ambientale (materiali, energia incorporata), tutte cose che forse potrebbero essere subordinate nel caso di sistemazioni temporanee di emergenza (ma ci sono le condizioni culturali e tecniche per affrontarle comunque) ma sicuramente non possono essere ignorate nel momento in cui si costruiscono alloggi stabili per 15.000 abitanti.
L’avere concentrato l’attenzione sulle capacità antisismiche e sulla velocità di attuazione non è motivazione sufficiente per subordinare le altri variabili che definiscono un edificio.
3. I costi
Per realizzare le 150 piattaforme antisismiche su cui si poggiano gli edifici i lavori sono stati affidati a due imprese con un incarico complessivo di 28.000.000 € (ciascuna piattaforma è lunga 50 metri e larga 21 ovvero sviluppa una superficie di 1.050 mq quindi il costo a mq è stato 178 €).
I successivi dati non fanno riferimento a fonti specifiche e quindi possono essere inesatti. Si crede che comunque rendano l’idea delle quantità di cui si sta trattando e contribuiscano a comprendere le motivazioni delle scelte fatte.
Ipotizzando che gli edifici saranno mediamente di quattro piani sarà costruita una superficie abitabile orientativamente quantificabile in 630.000 mq.
Al costo medio per nuovo edificato in questo caso si deve aggiungere la difficoltà di operare in tempi ridottissimi (doppi o tripli turni di operai, lavoro sabato, domenica e festivi) e la qualità antisismica; si può ipotizzare che il costo allo stato sia intorno ai 2.500 €/mq.
Moltiplicando tale costo per i metri quadrati totali della realizzazione si arriva alla definizione di un probabile costo di 1.575.000.000 € al quale vanno aggiunti i costi per l’urbanizzazione e la sistemazione delle aree intorno agli edifici per un totale complessivo che potrebbe aggirarsi intorno ai 2.000.000.000 di €.
Con tutti i limiti detti relativamente alle quantificazioni, e quindi con i verisimili adattamenti del ragionamento agli effettivi costi, si tratta comunque di un impegno significativo in particolare se dettato esclusivamente dal volere fornire una abitazione “temporanea”.
4. I profitti
Le imprese che costruiscono queste abitazioni sono grandi imprese per gran parte non locali. Per quanto riguarda le piattaforme, a giugno sono state richieste le offerte ed hanno vinto due ditte del nord nonostante avessero un costo più elevato di una ditta abruzzese (hanno vinto garantendo tempi di esecuzione minori).
Anche le modalità costruttive, prefabbricati afferenti a tre principali tipologie costruttive in legno, acciaio e cemento armato, limitano i potenziali costruttori a imprese di grandi dimensioni, nel caso in possesso di specifici brevetti che dispongono di tecniche, maestranze e organizzazioni atti a garantire lo svolgimento delle attività nei tempi ridotti richiesti.
La concentrazione delle attività in pochi soggetti concentra anche i profitti in pochi soggetti.
I costi cui abbiamo accennato sono quelli che ha sostenuto lo stato per la realizzazione: i costruttori hanno venduto delle attività e quindi, come norma, i loro costi sono stati inferiori al prezzo di vendita. Applicando anche solo un margine del 30%, in base alle stime orientative precedentemente fatte, questo si aggira intorno ai 470.000.000 € solo per gli edifici, a cui si possono aggiungere altri centinaia di milioni derivanti dagli altri interventi. Sempre ipotizzando che i margini non siano superiori al 30%.
Inoltre parte delle soluzioni costruttive adottate è costituita da sistemi tecnici che debbono essere montati da tecnici specializzati per cui molte delle maestranze che operano nei cantieri non sono regionali (una delle due ditte milanesi che si è aggiudicato l’appalto della costruzione delle piattaforme ha portato 400 operai propri) riducendo anche gli utili che potevano rimanere alla popolazione del territorio aquilano.
Quindi la collettività, con ridotti vantaggi per se stessa in termini di ricadute occupazionali locali, ha dato ad alcuni imprenditori una bella cifra. Ma la cosa più interessante è che la cifra si è maturata in soli 5 mesi e che è saldata in tempi ridottissimi al contrario con quanto avviene (ed in questi ultimi anni è notevolmente peggiorata) con le pubbliche amministrazioni. Una vera manna.
5. La domanda
Secondo il programma le nuove case soddisfano le esigenze di circa 15.000 persone ovvero coloro i quali rispondono ai criteri di assegnazione tra quelli le cui abitazioni sono inagibili.
Ma le case non sono sufficienti per tutto il numero degli sfollati e forse nemmeno per tutti coloro con abitazioni crollate o con danni significativi strutturali.
Di sicuro tra gli sfollati vi possono ancora essere persone che hanno abitazione agibili e che, nonostante la sospensione dell’assistenza al 6 agosto, ancora non rientrano nelle abitazioni; ma il numero di questi dovrebbe essere in forte riduzione. Ci sono poi tutti quelli che hanno case con lievi danni che potrebbero rientrare in tempi ridotti sempre che fossero avviati i lavori nelle abitazioni e sempre che si completassero entro novembre, ma comunque rimarrebbero delle significative eccedenze rispetto alle nuove case.
Sembrerebbe quindi che il programma nuove case antisismiche non risolva completamente il problema degli sfollati; quello che si configura è l’eliminazione delle tendopoli, l’occupazione delle nuove case ed il contemporaneo mantenimento dello stesso numero di sfollati negli alberghi (attualmente circa 20.000) razionalizzandone la localizzazione e l’assistenza.
Il numero degli sfollati in albergo potrebbe rimanere simile in quanto dei 20.115 alloggiati nelle tende 15.000 andrebbero nelle case i 5.000 eccedenti potrebbero essere compensati dalla riduzione complessiva del numero degli sfollati per il rientro nelle abitazioni originali agibili o rese tali in tempi brevi.
Questo vuol dire che il programma nuove case non risponde alla domanda effettiva di abitazioni e che affronta solo il problema della localizzazione dei soggetti le cui case abbisognano di interventi che si concludono in tempi lunghi.
6. Le nuove abitazioni
lasciano le vecchie
La costruzione delle nuove case prevede che esse siano occupate da dicembre e ipotizza che le originarie abitazioni siano rese agibili con tempi lunghi. In particolare per quanto riguarda il centro storico i tempi della ricostruzione comunicati dalla Protezione civile si attestano sui due lustri.
Ipotizzando che le nuove case antisismiche servono per 15.000 abitanti si tratta, prendendo a riferimento il numero medio famiglia a L’Aquila di 2,66 persone/famiglia, di 5.600 abitazioni. Questo vuol dire che se tutte queste fossero destinate agli abitanti della città (sappiamo che ci saranno anche abitanti di altri comuni ma il dato seppure approssimativo può essere chiarificatore) rimarrebbero vuote 5.600 abitazioni su cui attuare il recupero strutturale, che si aggiungono alle 1.600 abitazioni non occupate recentemente censite dalla Protezione civile.
Quindi un patrimonio edilizio di 7.200 abitazioni in eccedenza; dal momento che le abitazioni esistenti a L’Aquila sono circa 30.000 si costituirebbe un fondo di abitazioni libere pari a circa il 25%. Nel momento in cui le persone rientrassero all’interno delle proprie abitazioni, un quarto della città sarebbe comunque vuota.
Le ipotesi di recuperare le nuove case per gli studenti è molto sovradimensionata; la popolazione di L’Aquila è attualmente di 72.000 persone e 15.000 sono quelle che potrebbero alloggiare nelle nuove case (il 20%): ipotizzare che la popolazione dell’università che necessita di abitazioni possa avere questa entità è già poco credibile. Il totale delle disponibilità sarebbe quasi pari al totale della popolazione universitaria (e all’Università ci vanno anche gli aquilani). Inoltre la domanda di abitazioni universitarie va definita in relazione alla reale necessità e non alla generica disponibilità di andare ad abitare gratuitamente in appartamenti disponibili. Se a queste considerazioni si aggiunge il fatto che gi spazi pro-capite studenti sono normalmente minori di quelli pro-capite abitante generico si intuisce quanto l’ipotesi di utilizzare l’intero patrimonio di nuovo edificato per residenze studentesche risulti almeno sovradimensionata.
Infine si deve ipotizzare che attualmente gli studenti sono alloggiati in abitazioni ad essi affittate dai cittadini, il che vuol dire che nel momento in cui essi fossero sistemati in altre case questi alloggi rimarrebbero comunque vuoti.
Appare evidente quantomeno che per quanto riguarda il riuso delle nuove case le attuali ipotesi sono piuttosto approssimative e molto probabile che L’Aquila si troverà, supponendo che vengano sistemate le abitazioni danneggiate, con un enorme patrimonio edilizio inutilizzato.
7. Esodi
I nuovi edifici sono collocati in aree abbastanza lontane dalle residenze originali degli abitanti. Uno degli insediamenti più grandi ed anche in questo momento il più prossimo al completamento, è localizzato in prossimità di Bazzano, praticamente equidistante tra Onna, Paganica e L’Aquila.
È prevedibile che in questo insediamento non confluiranno solo terremotati di Bazzano ma molti aquilani e dei paesi vicini.
In qualche maniera si è operato per risolvere il problema delle abitazioni mettendo in moto un esodo che non potrà non modificare l’assetto sociale e le relazioni tra individuo e territorio. Un esodo per tempi lunghi che si unisce a quello dei cittadini localizzati in albergo e quelli che hanno trovato propria autonoma sistemazione, ma che più degli altri due costituirà nuove strutturazioni sociali e territoriali.
8. Una nuova città prodotta
dall’emergenza
Le dimensioni dell’intervento sono tali che la città ed il suo territorio risulteranno riconfigurati. Si interviene, come detto, quantitativamente sul 25 % della città esistente ma su una superficie molto vasta di nuova urbanizzazione.
Le nuove case, tutte collocate fuori del tessuto urbano consolidato, collegano tra loro aree insediate diverse, divenendo congiunzione tra ambiti insediativi precedentemente lontani; attraverso di esse si conforma una città estesa che ingloba insediamenti storici precedentemente limitati.
Contemporaneamente molte attività, uscite dal centro storico o dalle zone maggiormente colpite, si sono collocate lungo le principali strade di maggiore traffico o in edifici pubblici disponibili, costituendo così nuovi poli commerciali, amministrativi, produttivi.
Già l’inattività del centro e di parte delle periferie consolidate per un periodo più o meno lungo avrebbe cambiato l’assetto urbano ma questo, unito agli interventi nuovi ed all’assoluta mancanza di progetto complessivo, trasforma l’intero territorio e definisce la vita dei cittadini (aumento mobilità, pendolarismi, congestione, dequalificazione degli insediamenti) senza alcuna condivisione da parte degli stessi.
La città che si conforma è definita dalla sommatoria delle abitazioni, non provvisorie ma provvisoriamente utilizzate, e quindi definita da una delle componenti, quella residenziale, trattata in emergenza tra quelle che determinano la qualità della vita urbana. In sintesi una città che ricalca le stesse logiche, seppure con finalità apparentemente diverse e con i soldi pubblici, con cui la speculazione immobiliare ha destrutturato, congestionato e degradato la vita delle città contemporanee. Una new town formato “palazzinari” potrebbe essere questa la città non del dopo terremoto ma del dopo post-terremoto.
9. L’abbandono degli
edifici danneggiati
Gran parte delle azioni post-terremonto in questi mesi si sono concentrate nella gestione degli sfollati e nella costruzione di questi nuovi edifici.
Per quanto riguarda il recupero dell’esistente la situazione è quasi ferma. Non è ancora completato il puntellamento degli edifici pericolanti, la quasi totalità delle case inagibili non collocate nel centro storico sono nelle condizioni del sette aprile, in alcuni casi non si è nemmeno provveduto alla recinzione dell’area (sono stati solo chiusi i cancelli di ingresso), in alcuni casi sono stati puntellati. Interventi operati dai pompieri per l’immediata messa in sicurezza ma nulla più.
L’ipotesi è che ciascun condominio possa scegliere propri consulenti e propria impresa di costruzione per il recupero dell’immobile e che successivamente sia rimborsato agli stessi il costo sostenuto. A cinque mesi dal terremoto pochissimi sono coloro i quali hanno avviato azioni di consolidamento e mancano ancora le indicazioni procedurali e normative per gli interventi sulle categorie più complesse.
Per la riparazione delle abitazioni esistenti si è operato con procedure diverse da quelle utilizzate per il progetto nuove case. Per esse non vi è stata una gestione in emergenza ma è stata ipotizzata un’azione ordinaria, con lo stato e la protezione civile sfilati, in cui gli abitanti si fanno fare i preventivi, cercano le imprese e si fanno sistemare casa, richiedendo i rimborsi, con i Comuni di nuovo attori (senza però attualmente alcuna struttura tecnica disponibile ad affrontare tale complesso impegno).
Così facendo si è voluta separata la parte più complessa, relegandola all’azione ordinaria (svolgibile in tempi lunghi) e si è intervenuti con un’azione non palliativa ma di grande visibilità.
Ma la cosa più preoccupante è che in questo momento non sono chiari i criteri per definire se una abitazione debba essere demolita o mantenuta. Molti cittadini possono avere interesse a chiedere la demolizione del proprio edificio, anche quando questo non sia necessario (edifici fortemente danneggiati in cui però il recupero è tecnicamente possibile), per garantirsi un edificio più confortevole ed antisismico. Questo stato di incertezza sicuramente si risolverà quando sarà chiaro l’importo totale dei fondi per la ricostruzione ma anche in questo caso non è bene sottostare alla casuale disponibilità di fondi per determinare la qualità della ricostruzione.
Inoltre vi è un problema ancora più grave. Alcune aree della città di L’Aquila hanno avuto danni molto significativi proprio per essere costruite in modo errato: un esempio per tutti Pettino, costruito ahimé sulla faglia. In questi casi si procede aggiustando le abitazioni che non sono crollate, o intervenendo per ridurre la densità abitativa e ricostruendo le abitazioni altrove, o abbattendo un numero di edifici superiore a quello strettamente necessario per permettere la ricostruzione in maniera antisismica (questo può essere fatto sia per l’entità dei danni riscontrati in molti edifici sia per la qualità degli stessi, quasi tutti palazzine in cemento armato post anni settanta del secolo scorso)?.
10. Una città divisa in due
L’esito degli interventi attuati porterà ad avere da un lato 15.000 nuove abitazioni antisismiche, un centro storico che in lungo tempo sarà adeguato ai caratteri tecnici di antisismicità, e dall’altro un tessuto diffuso di edifici in cemento armato agibili o resi tali con interventi di riparazione. Ma questi ultimi seppure hanno retto un “collaudo”, avendo superato una “prova” al sesto grado della scala Richter senza crollare, non sono antisismici.
Ed allora si pone la questione del perché alcuni abiteranno in edifici antisismici ed altri rimarranno in strutture di cemento armato, agibili o resi tali, senza interventi di sistemazione antisismica. È infatti attualmente difficile ipotizzare che un edificio di “tipo b” in cemento armato (crepe ma struttura non danneggiata) possa essere trasformato in edificio antisismico mentre è più probabile che interventi su edifici di “tipo e” in muratura situati nel centro storico possano essere effettivamente resi antisismici.
La garanzia che gli edifici agibili siano abitabili, nel senso che siano antisismici no vi è; vi è solo la garanzia che gli edifici non crollati e non danneggiati possano resistere a terremoti della stessa intensità ma questa è una condizione comune a tutti i post sisma.
11. La corsa alle
nuove abitazioni
Le nuove abitazioni sono molto ambite e del resto non potrebbe essere altrimenti. Un proprietario di un appartamento sito in un edificio in cemento armato danneggiato collocato alla periferia della città in un quartiere piuttosto anonimo perché non dovrebbe richiedere delle abitazioni sicure ancorché collocate in località diversa da quella in cui era situato?
In un recente censimento fatto dalla protezione civile il 68% degli sfollati sceglie di andare ad abitare nei nuovi alloggi.
Anche questa condizione è comprensibile anche in ragione del fatto, come precedentemente evidenziato, che vi è una fortissima richiesta di messa in sicurezza delle abitazioni. Questa corsa non è gestita adeguatamente in quanto non evidenzia le strategie che si adotteranno per la messa in sicurezza degli edifici esistenti e quindi si concentrano le aspettative solo sugli edifici nuovi.
12. La centralizzazione
delle decisioni
Le decisioni sono state tutte centralizzate. Non vi sono state verifiche con la popolazione, non si sono sentiti né i pareri, né le richieste. La prima, ed a nostra conoscenza unica verifica attraverso questionario è stata nell’ambito del censimento degli sfollati di agosto in cui si chiedeva anche il livello di gradimento delle nuove abitazioni antisismiche.
La popolazione non è partecipe, quando è stata ascoltata le sue opinioni sono state filtrate dall’ottica di conflittualità o sostegno alle soluzioni proposte; la demagogia ha inficiato la presentazione di proposte tecnicamente corrette non supportate dagli interessi di comunicazione e imprenditoriali.
Questa maniera di comportare facilita le scelte in quanto ne riduce i tempi e le rende integralmente corrispondenti ad un’idea unica che non subisce adeguamenti in relazione alle ulteriori richieste degli abitanti, ma è un modello che non qualifica la società ed impone ad essa decisioni. E ciò, anche se compiuto a fin di bene o se porta a buone soluzioni, implica una perdita di qualità della vita comune che lascia tracce indelebili.
13. Una città senza qualità
La conservazione dei centri storici non è un’acquisizione di questo secolo. Sono stati gli anni sessanta e settanta del secolo scorso a porla all’attenzione della collettività, quando alcuni hanno denunciato lo scempio che si stava perpetrando ai danni del patrimonio sociale e culturale connesso ai centri storici. Da allora, per fortuna, la conservazione dei centri storici è divenuto comune denominatore delle politiche italiane. Il nostro Paese è sicuramente tra i primi (se non il primo) in quanto a conservazione e questo in presenza di una continua e vivace azione di aggressione al patrimonio. Anche nel caso di L’Aquila la prima idea del governo di abbandonare per ricostruire una nuova città ha suscitato più critiche che consensi.
Ma oggi non basta conservare i centri storici per garantire la qualità della vita dei cittadini. L’attenzione, lasciando come punto fermo ed inalienabile la conservazione dei centri, si deve concentrare sulla qualità dell’abitare, e non solo del costruito, degli insediamenti post-bellici. La qualità dell’abitare si ottiene con il raggiungimento di una efficienza tecnica, energetica ed ambientale delle abitazioni ma anche qualificando la qualità delle relazioni intercorrenti tra edificio e ambiente in termini di riduzione dei consumi di materiali, di occupazione di suolo e di inserimento ambientale e paesaggistico, e favorendo il tessuto di relazioni sociali, le stesse che con la loro sedimentazione qualificano la vita dei centri storici, condizione indispensabile per potere vivere in un insediamento e non in un dormitorio.
Così riconfigurare la città senza avere in mente queste considerazioni vuol dire affossare il problema della qualità delle vita dei cittadini, vuol dire non progettare ma tamponare gli esiti negativi delle scelte, vuol dire non avere alcuna prospettiva. E questo è di una gravità insostenibile.
Perplessità
Oltre a queste critiche vi sono alcune perplessità/preoccupazioni relative a quanto potrà succedere a seguito delle scelte attuate.
Perplessità rispetto alla “città abbandonata” come oggi si presenta il centro storico dell’Aquila (all’interno della quale non vi sono attività di ricostruzione degne di nota).
Perplessità rispetto ai fondi della ricostruzione del centro storico, dei monumenti, sia in relazione agli attuali finanziamenti disponibili che appaiono insufficienti, sia per gli impegni economici assunti nella ricostruzione delle nuove case.
Perplessità rispetto alla speculazione immobiliare che può essere avviata dall’avere fornito una serie di abitazione definitive in uso temporaneo ai cittadini, contemporaneamente a non avere fornito adeguate indicazione sulle modalità di ricostruzione in particolare di quegli edifici che hanno un valore immobiliare più alto (quelli del centro storico). Ad esempio in questo momento sono diversi i soggetti che offrono ai terremotati l’acquisto della casa danneggiata ad un prezzo molto basso ma sufficiente per rendere appetibile per qualcuno la svendita di un immobile a fronte di una liquidità che è molto importante. Inoltre questi nuovi edifici, uniti a quelli già non utilizzati, influenzeranno le condizioni di gestione degli immobili, condizioni già alterate da un mercato immobiliare retto dalle speculazioni, producendo esiti ignoti (senza considerare gli effetti che lo spostamento degli studenti avrebbe sulla micro economia –seppure in nero e di sfruttamento – esistente).
Perplessità vi sono circa la possibilità che una volta inaugurati gli edifici e assegnati ad alcuni sfollati, l’azione del Governo si interromperà trasferendo la gestione, come avrebbe dovuto già fare da tempo, agli organi territoriali competenti senza però dare a questi i finanziamenti, il potere ed il supporto (sostegno amministrativo ma anche mediatico) per gestire la ricostruzione. In questa maniera il governo potrebbe dire “ho fatto quello che potevo e sono stato bravo ora la responsabilità è di altri”.
Perplessità rispetto alla gestione del 20% di volumi aggiuntivi che secondo norma nazionale possono essere richiesti e che rientreranno, in maniera ancora non nota, nella ricostruzione.
Perplessità rispetto ad una popolazione che ha grande timore a rientrare nelle proprie abitazioni perché non conosce l’effettiva capacità di resistenza delle stesse aggravate dal fatto che da quasi un anno a L’Aquila vi sono scosse percepite.
Perplessità rispetto allo scarso supporto alla popolazione nell’indirizzare la ricostruzione delle proprie abitazioni.
Perplessità per l’assenza di strategie relative ad un territorio, in parte terremotato in parte fuori dal cratere ma comunque nella massima categoria di rischio sismico, in cui tutte le abitazioni sono fuori norma antisismica ed il cui patrimonio edilizio residenziale e monumentale avrebbe bisogno di una profonda revisione strutturale.
Perplessità rispetto alla qualità dell’azione complessiva che in cinque mesi avrebbe dovuto dare indicazioni per la soluzione di molti problemi e per la gestione del futuro della città e dei cittadini ma che si è concentrata solo su alcuni aspetti dell’azione post-terremoto e rispetto alla maniera di affrontare il problema limitando l’intervento a poche cose e mostrando che attraverso di esse si è risolto mentre il problema è molto più complesso e gli interventi in corso di attuazione ne sono un parziale palliativo.
Una piccola postilla: nei prossimi anni il PIL dell’Aquila, se le attività saranno svolte da operatori locali, se le ditte con sede fuori comune utilizzeranno addetti locali, se la popolazione rientrerà rapidamente in città, aumenterà. A chiara dimostrazione che il PIL non può essere preso come indicatore del benessere di un paese, nemmeno di un benessere economico.
Le soluzioni alternative
1. Concentrare l’azione sugli
edifici danneggiati
Se si fosse concentrata l’azione sugli edifici danneggiati, si sarebbero potuto in questi mesi e, avendo come obiettivo dicembre i mesi sarebbero stati nove, riparare una parte significativo degli edifici delle categorie meno danneggiate, che oggi giacciono nelle stesse condizioni in cui si trovavano la sera del 6 aprile.
Essendo 10.847 le abitazioni afferenti alle categorie b,c,d (16,9 % del totale dei sopralluoghi effettuati) partendo dal nucleo familiare medio di 2,66 persone in queste abitazioni avrebbero potuto rientrare circa 28.853 sfollati. Supponendo che i dati siano in eccesso si potrebbe comunque ipotizzare il rientro di almeno 20.000 persone, ovvero cinquemila in più di quelli che andranno ad abitare nelle nuove case.
Supponendo che la superficie abitativa media sia di 70 mq e che la riparazione possa costare 200 € a mq (che è cifra significativa visto che spesso i danni sono ridotti) si arriverebbe a 140.000.000 € ovvero circa il 7% di quanto si è speso per le nuove case collocando però 5.000 persone in più.
Inoltre ipotizzando che anche solo il 20% delle abitazioni ricadenti nella categoria “e” presentino danni riparabili nei nove mesi disponibili e con 400 € a mq ci sarebbero circa 4.000 abitazioni utilizzabili (280.000mq) per 10.000 persone circa con 112.000.000 di €.
In sintesi seppure a grandi linee con meno di 300.000.000 € si sarebbero potute riparare in nove mesi abitazioni per 30.000 persone, risparmiando circa 1,5 mld di € riducendo gli sfollati di circa 15.000 unità rispetto agli attuali previsti.
2. Sostituire edifici esistenti
Si potevano abbattere un numero significativo di edifici in cemento armato, quelli molto danneggiati, di recente costruzione e senza particolari valori storico-culturali, per fare posto in quei quartieri ad edifici antisismici qualificati e definitivi.
In particolare si sarebbe potuto operare con dei veri piani di intervento in cui trasformare interi quartieri esistenti in quartieri di più alta qualità con la sostituzione puntuale dell’edificato con edifici antisismici e con una azione di sistemazione complessiva (infrastrutturale e dei servizi a partire dal ridisegno della viabilità, dei parcheggi e del verde).
I tempi sarebbero potuti essere solo di poco più lunghi dei nove mesi, da aprile a dicembre, previsti per la consegna di tutte le nuove case.
Questa azione, nel migliorare la qualità della vita degli abitanti, avrebbe altresì aumentato il valore immobiliare delle abitazioni e quindi di fatto comportato anche un vantaggio economico ai soggetti maggiormente colpiti.
3. Appropriarsi
temporaneamente
degli edifici inutilizzati
Dare in uso temporaneo le case non occupate prima del terremoto. Dal recente censimento, come detto, sono 1.600; la loro utilizzazione implica l’immediata sistemazione anche per periodi lunghi di circa 4.500 persone ovvero il 10% degli attuali sfollati, il 25% di coloro che si trovano nelle tendopoli.
Ma molti altri potrebbero essere gli edifici sottoutilizzati che hanno riportato lievi danni; le città contemporanee sono piene di edifici non utilizzati o utilizzati parzialmente: si pensi ai capannoni industriali, ai depositi, alle aziende presenti nelle due grandissime aree industriali di L’Aquila che recentemente hanno chiuso le attività indipendentemente dal terremoto (nelle quali potrebbero essere trasferite attività commerciali e amministrative lasciando spazio per l’accoglienza nelle strutture attualmente usate) ma anche caserme che con l’abrogazione del servizio di leva obbligatorio si sono svuotate.
Intervenire nelle aree militari dismesse, ve ne è una molto vasta praticamente chiusa da anni, posizionata in una delle periferie maggiormente colpite di L’Aquila. Di queste aree si possono recuperare gli edifici esistenti rendendoli antisismici e adeguandoli alla nuova funzione abitativa (ed in nove mesi era possibile) ed costruire sugli spazi vuoti una volta asserviti all’uso militare con nuovi edifici antisismici.
Ovviamente per tutto questo sarebbe necessaria una verifica il cui esito in questo momento è difficile quantificare, ma questa verifica anche se fatta non è stata divulgata.
4. Recuperare aree
non edificate
nella città consolidata
Costruire gli edifici antisismici nelle aree non edificate ma prossime ed integrate con il costruito esistente e la periferia consolidata. L’Aquila dispone, come tutte le città contemporanee, di una periferia composta da edifici tra loro scollegati esiti di una attività costruttiva autonoma che raramente compone un tessuto organico. Frequentemente rimangono aree libere in attesa di edificazione, aree sulle quali si sarebbero potuti costruire edifici antisismici ad integrazione del tessuto esistente, qualificando le periferie, migliorando le infrastrutture di trasporto pubblico e contemporaneamente limitando gli oneri di urbanizzazione e riducendo la mobilità rispetto a soluzioni esterne alla città consolidata.
5. Costruire le case in
prossimità dei paesi
Le case temporanee si sarebbero potute localizzare in prossimità dei luoghi di residenza degli sfollati e quindi in prossimità dei quartieri e dei paesi dove ci sono state i maggiori danni. Questo avrebbe evitato esodi, calibrato l’intervento alle specifiche necessità, ridotto la mobilità.
6. Case in legno, per esempio
La soluzione delle case in legno è stata perseguita solo per alcuni insediamenti tra cui Onna e San Demetrio ove si sono realizzati villaggi di abitazioni temporanee.
L’abitazione in legno può essere specificamente temporanea garantendo comunque una buona vivibilità senza destrutturate il territorio; al termine dell’utilizzazione può essere smontata e, nel caso, stoccata e riutilizzata in altre condizioni o venduta per altri sui. Alla fine dell’uso può essere trasformata in combustibile (con un ottimale bilancio di emissioni di CO2).
Perché non si è fatto
1. Concentrazione
dell’attività di cantiere
Le attività sono state concentrate nei venti cantieri dove si costruiscono nuovi edifici (il puntellamento, la manutenzione delle tendopoli e la gestione degli sfollati sono attività in questo momento marginali) il tale maniera si rende visibile l’azione, si gestisce con maggiore facilità l’intervento di recupero che in scenari diversi avrebbe potuto interessare centinaia di cantieri.
Gli altri cantieri quelli relativi al recupero degli edifici esistenti saranno affidati alla gestione dei singoli cittadini che con lentezza, perché non supportati da adeguate informazioni e servizi, stanno iniziando a capire quali siano le procedure per ripristinare l’agibilità delle proprie case.
Maggiore facilità di gestione (nei prodotti e nei tempi di attuazione), maggiore visibilità degli interventi, apparente risolutività dell’azione.
2. Concentrazione dei profitti
La concentrazione delle attività in pochi cantieri (pochi rispetto al numero dei cantieri che si avvieranno per riparare l’enorme quantità di edifici danneggiati) facilita la gestione tecnica e concentra i profitti in pochi operatori. L’avvio dei piccoli cantiere disperde le attività tra molte piccole imprese.
I grandi numeri dell’intervento (grandi quantità di edifici da costruire, grandi importi) muove l’interesse del settore molto di più di quanto provocherebbe la distribuzione di numerosi piccoli finanziamenti a piccole e numerose imprese principalmente locali. Così facendo si gode del favore degli operatori nazionali.
3. Il valore dei suoli
Gli edifici sono stati costruiti fuori dai territori urbanizzati e lontano dalle possibili espansioni proprio perché su quei sussistevano interessi speculativi che potevano essere danneggiati da espropri forzati. I terreni su cui si è costruito non avevano un particolare valore ma invece fungono proprio da valorizzatore immobiliare degli stessi, potenzialmente innescando ulteriori valorizzazioni dei terreni limitrofi e successive urbanizzazioni.
4. Rischio tempi
I tempi per la costruzione del nuovo sono molto più programmabili di quelli connessi al recupero di edifici esistenti. In questi infatti è possibile che nel corso dei lavori sorgano condizioni non previste (danni non visibili nei primi rilievi, complessità dell’azione di ripristino, etc.).
Inoltre la progettazione del recupero si basa su di un rilievo molto dettagliato dello stato dell’esistente e il progetto è specifico per ogni edificio (ciascun edificio ha i suoi problemi e le sue specifiche soluzioni, sebbene all’interno di una tipologia di intervento non molto estesa) e questo di fatto allunga i tempi di attuazione.
5. Visibilità e comunicazione
La comunicazione deve avere un oggetto visibile. Il ripristino di condizioni di agibilità delle costruzioni esistenti è poco visibile; ovvero l’edificio, una volta completato l’intervento è esattamente uguale a quello già esistente. Inoltre si è subito cercato di operare sul nuovo per marcare la differenza tra le nuove modalità di intervento e quelle consolidate come se ad un nuovo più efficiente potesse corrispondere un governo più capace.
6. La struttura operativa
e gli obiettivi
Il Governo ha fortemente voluto la gestione del post-terremoto come banco di prova della propria capacità organizzativa e risolutiva. Per fare questo ha dovuto fare tabula rasa dell’esistente, troppo connesso con la popolazione e le sue richieste, ha centralizzato le decisioni, ha mantenuto i poteri straordinari oltre l’emergenza o, come detto, ha allungato il tempo dell’emergenza alla ricostruzione. In questa maniera ha concentrato le decisioni in soggetti che avevano già dimostrato la capacità di prenderle e gestirle, esautorando le comunità locali e gli amministratori. Filo diretto con il Presidente del Consiglio, tutela delle persone sottoposte, tutela delle scelte sia internamente, sia attraverso un sostegno mediatico. Solo attraverso una organizzazione di questo genere sarebbe stato possibile operare le scelte fatte. Ma il dubbio, forse non troppo peregrino, è che l’organizzazione non sia stata determinata dalle contingenze ma che queste siano state un ottimo pretesto per mostrare le capacità di un’organizzazione. L’Aquila, viene il dubbio sia stata utilizzata per dimostrare la validità di un modello culturale, sociale, decisionale e operativo che viene proposto come ottimale non solo per la gestione dell’emergenza ma per la gestione della vita degli individui e delle comunità.
Nel fare questo nell’immediato si sono anche risolti dei problemi contingenti ma si sono poste delle opzioni per il futuro degli aquilani la cui positività è tutta da dimostrare e pesanti opzioni per il futuro del paese la cui negatività è certa.
Conclusioni
Il modello culturale ed economico diffusamente praticato ha una caratteristica esclusiva per cui ogni atto è pensato per aumentare le attività ed ogni indirizzo dei pochi attraverso cui gli stati e le amministrazioni si propongono di indirizzare le azioni individuali non limita ma aggiunge.
In questa maniera si sostengono nuove attività senza ledere quelle già avviate, aumentando in tale maniera la quantità della presenza dell’uomo ed il suo peso nell’ambiente.
La strategia adottata nel post-terremoto prevede la ricostruzione dei paesi colpiti e contemporaneamente la costruzione di nuove abitazioni antisismiche e di prefabbricati temporanei in legno. In questa maniera si sono aggiunte sull’onda dell’emergenza, ad un’attività che logicamente si dovrebbe operare, quali la ricostruzione di un patrimonio sociale e culturale, altre attività che dato l’impegno richiesto non possono essere definite integrative.
La ricostruzione del dopo-terremoto dell’Aquila è divenuto il meccanismo per giustificare, avviare o completare una serie di opere dimostrando come questo modello risponde alle diverse esigenze sempre alla stessa maniera: producendo oggetti nuovi, incrementando il mercato delle merci, operando con le grandi quantità.
Alcune delle soluzioni adottate miglioreranno la qualità della vita, altre la peggioreranno ma nessuna è stata fatta considerando il benessere dei cittadini se non come occasione per mettere in moto meccanismi di trasformazione.
Alcune delle soluzioni adottate riusciranno a rispondere alle esigenze immediate e indispensabili, altre lo faranno solo parzialmente, altre per nulla ma nessuna di esse è stata pensata con un’immagine strutturalmente migliorativa degli insediamenti.
Tutte le scelte sono aggiuntive alla situazione esistente e pre-terremoto; nessun intervento modifica il dato di fatto o tende ad utilizzare la tragica contingenza per eliminare quei fattori che incidono negativamente sulla vita della comunità; nessun intervento lede gli interessi consolidati che spesso sono stati causa del disastro e comunque sono conflittuali con il benessere dei cittadini.
Gran parte delle scelte ha aggiunto altre condizioni di profitto: costruzione di nuovi alloggi, nuovi terreni urbanizzati, aumento del valore immobiliare di estese aree agricole, promozione di imprese; contemporaneamente ha ridotto l’interesse verso la riqualificazione della città storica e della periferia consolidata, verso la qualità ottenibile da un’azione di ricostruzione locale – indirizzata da criteri di qualità sismica, energetica, culturale e ambientale.
L’esito di quanto in atto non si può ancora integralmente valutare ma sicuramente le soluzioni adottate sono fondate sul consumo (di energia, di materiali, di suolo) e sulla sottoutilizzazione delle risorse, costituite in questo caso gli edifici esistenti, vuoti o riparabili ed i terreni interclusi nella periferia consolidata, lasciati in attesa di altre speculazioni.
Una società che è capace solo di aggiungere e mai di adeguarsi, una società aggiuntiva o additiva, raramente riesce a trovare le soluzioni appropriate ai propri problemi.