Essenzialmente anarchico
Chiacchierata di Alessio Lega con Marco Rovelli
- Non solo musica. Ma cultura, opposizione, indagine sociale, ecc.
nel progetto “LibertAria”.
Marco - Perché provocatoriamente spesso agli anarchici come te dico di non essere anarchico? Perché auspico un movimento globale, che abbia un impatto pari a quello che ha avuto il movimento anarchico… ma per questo serve qualcosa di nuovo, con un nome nuovo. Se però questo nuovo ci sarà, sarà essenzialmente anarchico.
Alessio - Un’intervista a Marco Rovelli, per parlare del suo nuovo progetto discografico LibertAria, non può configurarsi come l’intervista a un cantante che promuova un disco. È una chiacchierata che necessariamente salta e vola nei campi di ogni possibilità. Marco è un militante della ricerca musicale, politica, poetica. I suoi libri, come i suoi dischi, sono reportages ad alta densità letteraria fra le ferite aperte della nostra civiltà incompiuta. La sua voce, come la sua scrittura, porta in sé l’eco delle foreste degli inni anarchici ottocenteschi, ma anche il graffio elettrico del post-rock. Inclassificabile per forma, Rovelli è inquieto per principio.
Marco - C’è un filo rosso che si srotola in tutte le cose che fanno parte di me e che fatalmente mi escono fuori. Facevo musica negli anni ’90 in un gruppo underground, poi ho smesso e mi sono ritirato nel bosco. Ho ricominciato a far musica con Les anarchistes e da lì è ricominciato l’interesse per la scrittura, quella scrittura di testimonianza dei miei libri – non che avessi mai smesso di scrivere per me – che, in un rimando continuo, mi collega alla musica e poi ancora dalla musica alla scrittura. Insomma le mie varie attività sono in comunicazione fra loro, senza che io lo progetti.
Alessio - Sei l’intellettuale “disorganico”! Il tuo ultimo lavoro – in ordine d’uscita – è il disco LibertAria: io so con quanta passione e quanta fatica si fa, e soprattutto si tenta di promuovere, un progetto musicale. A te, che sei un affermato autore di libri, chi la fa fare di muoverti in maniera così eclettica in un paese che non ama l’eclettismo? C’è un disegno in questo tuo percorso?
Marco - No… cioè, forse un disegno intelligente quanto inconsapevole. È solo così che le cose accadono, non c’è disegno, c’è semmai urgenza espressiva. Per tradurre quest’urgenza bisogna rifuggire dal professionismo. Odio i professionisti, tocca essere amorosi dilettanti. Dove subentra il professionismo s’è perso già tutto. Chi me la fa fare, dici dunque? Nessuno, ovviamente. Devo farlo e lo faccio.
Alessio - Tu descrivi il tuo percorso come del tutto inconsapevole, ma – visto da fuori – appare continuamente percorso da un gioco di rimandi. Già nel lavoro fatto con Les anarchistes c’è un tentativo di testimoniare e insieme rileggere quel repertorio di canzoni anarchiche che hanno un valore storico inestimabile. Lì il tuo rapporto con la riesecuzione è originalissimo: se da una parte canti le canzoni popolari come si cantavano nelle piazze, quasi da tenore, per altri versi il trattamento musicale è decisamente elettrico quando non elettronico.
Il rapporto
verità-scrittura
Marco - Lo scivolare continuo da un piano all’altro fa effettivamente parte del mio concepire la musica e forse anche la scrittura. Quando parli del mio cantare “all’antica” ti affacci su uno scenario a cui rifletto molto: il valore dell’imitazione nella riappropriazione della cultura popolare. Ci sono state molte cose riuscite, in questo senso, nel lavoro con Les anarchistes, ma forse per essere più chiaro preferisco fare esempio negativo. Nell’interpretare il brano “Batton l’otto” dovetti rinunciare – per ragioni di arrangiamento – a tutti i melismi, ma non ero soddisfatto, perché vivevo quella come una sorta di amputazione, quei melismi erano parte integrante di quel modo di dire le cose. L’imitazione è senz’altro il primo passo della creatività, l’imitazione è parte integrante dell’apprendere e quindi del superare la storia.
Alessio - Anche nei tuoi libri testimonianza e proposta sono due filoni che si fondono continuamente.
Marco - Il mio intendimento è sempre stato raccontare storie vere con la forza stilistica dell’opera inventata, ma anche col puntiglio di raccontare ogni vero particolare. In Lager italiani, che tratta dei Centri di Permanenza Temporanea, avrei potuto lavorare sui particolari per dare più forza al libro – in fondo sarebbe stato per una buona causa – ma lì non c’è una virgola che non sia vera.
Alessio - Il rapporto fra verità e scrittura è un problema che si sono posti in tanti.
Marco - È da un pezzo che il fantasma della scrittura narrativa insegue il corpo della realtà, già dai tempi di Zola o di Jack London che s’incanaglisce nei bassifondi per raccontare i proletari di Londra. Oggi, più che mai, questo tentativo ha una rilevanza assoluta nel nostro tempo fluido, un tempo che perde i confini, in cui la parzialità dei punti di visti è necessaria per non brancolare nel buio. C’è forse stato un tempo, tempo fa, in cui si poteva presumere che vi fosse una realtà che raccoglieva tutti i punti di vista. Oggi la realtà sta nel tentare di testimoniare ogni esperienza, far valore del proprio stesso corpo, di ogni esistenza. Di qui la rinascita del genere del reportage letterario. Al di là del fenomeno editoriale, il successo del libro di Roberto Saviano ha aperto tante strade in questa direzione e dato visibilità a tanti lavori come il mio.
Alessio - Per continuare a tenere in piedi il parallelo fra il tuo lavoro letterario e quello musicale, La musica nelle strade, il secondo CD con Les Anarchistes, aveva già quest’ambizione, questa tua impronta di ricerca sui paesaggi umani, tema di certo più inusuale per un disco che per un libro.
Marco - C’era l’idea di costruire un album concept di tematica biopolitica sulla reclusione dei corpi… e fu appunto per espandere quell’idea che cominciai a raccogliere testimonianze di immigrati rinchiusi nei CPT, un’idea che poi andò avanti da sé, fino a diventare il libro Lager italiani.
Alessio - Se il libro deuncia, il libro testimonianza, son tornati in auge nell’editoria italiana, non si può non notare che – a dispetto della marginalità in cui vive la musica e in particolare quella non di consumo – assistiamo e insieme siamo protagonisti di una certa ripresa delle tematiche sociali nelle canzoni. Nei tuoi CD – come in quelli di molti amici quali Davide Giromini, gli Yo Yo Mundi, i Gang – c’è l’intenzione di testimoniare assieme il presente e la nostra storia, col tema resistenziale che torna in molte manifestazioni musicali cui prendiamo parte. Cos’è? Forse una reazione al senso dell’oblio che ci domina?
Marco - I ragazzi cui insegno a scuola cominciano effettivamente a vivere la resistenza come la preistoria, a sentire la stessa distanza da essa che sentiamo noi dal risorgimento, ma credo che – da un certo punto di vista – sia bene e giusto anche così. Il discorso sulla memoria può apparentarsi a quello sull’imitazione: bisogna appropriarsene per poi lasciarsela alle spalle e misurarsi con la propria vita. Io vivo pieno di ciò che è stata la nostra storia fino adesso, senza quella storia non sarei io. Però oggi non posso definirmi, in base a quella storia, né comunista e neppure anarchico, perché le parole si sono consunte – usurate direbbe Derrida – ora è necessario inventarsi qualcosa che sia nuovo e che non sia nulla di ciò che abbiamo vissuto fino ad adesso. A volte vedo troppa musealizzazione nel nostro ambiente, penso invece sia giunto il momento di buttare a mare le bandiere, con un atto di coraggio, e riprenderci il futuro.
Amore
è Anarchia
Alessio - Però tu stesso prendi questo futuro un po’ alla larga se inizi il tuo CD LibertAria con una canto che tratta della Comune di Parigi.
Furia barricadera degli amori
Il tempo en rouge et noir confonde voci
e l’alba con la sera en bandolieres.
I canti comunardi
scavano miniere erigono palazzi
sui boulevard della collina.
E coi ragazzi in cima ad alzare un drappo nero
sul passato espirato con Lecomte
Si fermino all’ora gli orologi
oggi inizia un tempo nuovo in questa festa
e viva ciò che resta!
Abracadabrantesque, scrive il poeta
sul selciato in fiamme di Parigi
in questa evidente primavera!
Baciami Juliette se si fa sera
resta Menilmontant resiste ai tuoni
e ai lampi dei cannoni.
E le baionette come un muro su a Montmartre
Michelle cantami ancora
il canto comunard.
Il tuo nome è segnato a dito sul vetro
forse è come Dio, e al mio soffio si schiude
è un volto che ride, o un rigo di luce
io rido al tuo riso che mi dice sì.
Lo spettro si aggira per le piazze
all’hotel de ville in fiamme
appare agli orologi a Saint Lazare.
La ghigliottina brucia sotto gli occhi di Voltaire
mentre canta Louise Michel
mai più carne all’uomo e schiavi ai re.
Juliette tu sei la rosa come il pane
libertà di maggio
antica sposa floreale allez Michelle
versami da bere Côtes-du-Rhône di botte scura
perché su queste mura
si vive o si muore ma senza più paura.
Il tuo nome è segnato a dito sul vetro
forse è come Dio, e al mio soffio si schiude
è un volto che ride, o un rigo di luce
io rido al tuo riso che mi dice sì.
E tra i tamburi il soffio di mille respiri
canti liberi e stendardi come un cielo
suono dei liberi e amore di corpi vivi
tra i tamburi il soffio di mille respiri.
Marco - Ho messo, nel mio disco, quella canzone sulla Comune avanti a tutte le altre, perché musicalmente stava bene lì, ma forse non è nemmeno un caso, le ragioni musicali si sposano a quelle poetiche, e mi piace che si parta da lì per poi muoversi sulla contemporaneità. Ho voluto aprire il disco con una canzone sulla Comune che fosse anche una canzone d’amore, perché spesso le rivoluzioni hanno prodotto canzoni che sono inni – anche bellissimi – ma in cui si perde il senso della vita vissuta, della storia d’amore. Amore è anarchia. E poi forse quello della Comune è stato il primo e l’ultimo momento della storia in cui i rivoluzionari non siano apparsi divisi… magari perché c’è stato troppo poco tempo.
Alessio - Il rapporto con gli inni di piazza ripropone il problema con cui si misura ogni cantante che affronti le tematiche sociali. La canzone è un genere ottocentesco, emerge fatalmente il suo tratto borghese e consolatorio, proprio laddove chi canta vorrebbe suscitare tutto meno che la pacificazione col passato.
Marco - Ciascuno ha le sue formule, ma io penso di risolvere questo problema accostando continuamente il tempo passato al tempo presente. Cantare con il linguaggio musicale che mi è proprio, quello del Rock, che, per come lo intendo io, è la forma per eccellenza non pacificata, una forma aperta all’improvvisazione, dove nulla è scritto e formalizzato in via definitiva.
Alessio - Facendo magari uscire la canzone anarchica dallo stretto giro dei meeting libertari e affrontando la relativa incoerenza di andare a cantare dovunque sia possibile: festa Anarchica, festa di Liberazione, piuttosto che rassegna teatrale o festival dell’Unità.
Marco - Io ci scrivo pure sull’Unità… parlare solo con chi è già d’accordo è inutile! Vi è ancor oggi un atteggiamento di polarizzazione, di purezza assoluta, una sorta di stalinismo mentale, prima ancora che ideologico, che è sempre stato assurdo, ma oggi è anche grottesco. Io ho sempre teorizzato e praticato la compromissione, il mettere assieme cose apparentemente contraddittorie. Stare in mezzo a diversi flussi che, pur non potendo stare assieme, ci devono stare se si vuole avere speranza di cambiamento, come a Genova nel 2001 si trovavano affianco la suora e il Black block. Con questo spirito vado a cantare al festival dell’Unità, ma anche a presentare un libro sulle morti bianche o sui clandestini alla Camera dei deputati per la “settimana del libro politico”. Vado lì portando un mio amico immigrato regolare – perché un clandestino non ce lo posso portare – che è stato accoltellato e che porterà anche la voce dei clandestini, che magari sono stati accoltellati, ma non possono fare denuncia… sono sicuro che qualche anarchico “in purezza” storcerà il naso, ma per me è importante andarci visto che ho qualcosa di giusto da fare.
Alessio - Continui a rivendicare questo ruolo di battitore libero, indefinibile politicamente, ciò non di meno i riferimenti che più sovente s’incontrano nel tuo lavoro son quelli anarchici, fino al tuo disco che si chiama appunto LibertAria. Sarà che siamo a Carrara, la tua terra?
Marco - Scherzi a parte nascere da queste parti mi ha messo presto in contatto con tutta una serie di persone e tradizioni che mi hanno influenzato, questa è una terra anarchica perché di assoluto confine: mia nonna quando andava a Lucca diceva “vado in Toscana” ed è forse da questa attitudine all’estraneità che deriva il mio interesse per l’esplorazione dei margini.
Al di là del fatto territoriale però il pensiero e la pratica anarchica sono il fertilizzante di ciò che deve nascere. L’anarchia rivendica le forme di lotta individuali, la loro duttilità, rivelandosi così adatta al mondo attuale, così frammentato, così fluido. Quella anarchica è la tradizione che può dare di più a ciò che dovrà venire.
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
|