Oggi, quelli che si salvano dal mare, dai trafficanti d’uomini, dalle guardie di frontiera ma non da uno Stato che li definisce “illegali” vengono rinchiusi nei Cie, i Centri di Identificazione ed Espulsione. I piemontesi che andavano in Argentina finivano negli “Alberghi” degli immigrati. Felicia Cardano riporta i racconti sentiti in famiglia: “Mio padre arrivò a Buenos Aires nel 1889 a bordo del ‘Frisca’. Durante il viaggio morirono il suo migliore amico e altre trenta persone. Lo misero all’Hotel della Rotonda, un enorme baraccone di legno, dove si stava stipati come sardine insieme ai pidocchi e alla puzza.”.
Sono storie di ieri, storie dei tanti italiani che partirono alla volta del Sudamerica per cercare “suerte”, fortuna, ma videro la morte in faccia, poi le baracche/prigioni, il disprezzo, lo sfruttamento bestiale. Tanti scappavano dalla guerra, la prima, quella che si mangiò la vita di tanti giovani contadini ed operai mandati a morire per spostare un confine.
Tanti di quelli che oggi arrivano in Italia scappano dalle guerre e dalla miseria come i nostri bisnonni. Chi arriva ha negli occhi il deserto, le galere libiche, il mare, i pescherecci che passano senza fermarsi, i militari che vanno a caccia di uomini. Hanno negli occhi il ricordo dei tanti lasciati per strada, morti senza tomba né umana pietà. Pochi di loro trovano “suerte”, fortuna: per i più c’è lavoro nero, salari infimi, paura, discriminazione, leggi razziste. Chi viene pescato finisce nei CIE e di lì via, indietro, ancora verso l’inferno.
Vecchio muro scrostato
Torino, corso Brunelleschi. Fuori c’è un vecchio muro scrostato e sporco. Corre lungo tutto il perimetro del CIE, e anche oltre, in quel che resta del parco. Dentro c’è la gabbia di acciaio alta ben oltre il muro.
Ricordo quando l’hanno costruito. Allora si chiamava CPT ed era una novità inventata l’anno precedente da un governo di centro sinistra. Le firme in calce al testo di proposta erano quelle di Livia Turco e Giorgio Napolitano. Passammo mesi lì fuori a protestare per impedire che lo facessero. Una volta saltammo anche sul tetto della centralina Enel per provare a bloccare i lavori. Non bastò. La città, fuori, pareva sorda e muta.
Sono passati dieci anni. I container di lamiera hanno ceduto il posto a più gentili strutture in muratura. Adesso spaccare tutto, saltare sul tetto, difendersi con tubi recuperati nei gabinetti è molto più difficile. Anche filarsela è più difficile. Eppure c’è sempre qualcuno che tenta e, a volte, riesce.
Gli ultimi ci hanno provato il 27 settembre. Erano quattro, uno ce l’ha fatta, per gli altri calci, pugni e bastonate e poi via al carcere delle Vallette. Si sa come funziona: chi prova a scappare le prende e poi viene arrestato con l’accusa di resistenza per giustificare il pestaggio subito. Nella notte un gruppetto di antirazzisti è fermato dalla polizia. Oltre il muro si sentono le grida dei reclusi. Poi la notte e le sirene delle pantere inghiottono tutto, anche le urla di uomini in gabbia.
La vita, la voglia di libertà, la resistenza e la lotta di migliaia di uomini e donne sono passate da qui.
Ricordo un giorno di maggio del 2005. C’erano ancora le scatole di latta e l’ingresso era in corso Brunelleschi: un paio di giorni prima davanti al CPT c’erano stati scontri ed un ragazzo venne arrestato. Qualcuno aveva anche provato a fare un buco nel muro per aprire un varco ai prigionieri che rifiutavano il cibo e salivano sul tetto. Ci fu poi un processo e quella giornata costò una condanna tra i sei e i dodici mesi di reclusione ad una decina di compagni che manifestavano fuori.
Quel giorno la situazione era ancora tesa ma non ci furono scontri. Quello che ho visto resta inciso nella memoria. Un ragazzo sul tetto del CPT grida, saluta, apre un lenzuolo bianco. Poi, in un tempo che mi è parso infinito, si è tagliato e con il suo sangue ha scritto “libertà” sul lenzuolo.
Quelli come lui sono tanti, dappertutto. La loro è una resistenza disperata, che pure non si ferma, perché la vita pulsa forte in chi affronta il deserto, il mare, i mercanti d’uomini, il lavoro da schiavi senza carte per acchiappare una briciola di futuro.
Negli ultimi mesi nei CIE di tutt’Italia la protesta è dilagata. La nuova legge che prolunga da due a sei mesi il periodo di trattenimento nei Centri ha fatto da detonatore. Dai primi di agosto, quando è stato chiaro che la norma veniva applicata retroattivamente e quelli che erano già dentro ci sarebbero rimasti, il ritmo è stato pressoché quotidiano.
Una lunga, caldissima estate. E ancora non è finita, perché l’autunno che si affaccia pare altrettanto incandescente.
Eppure, fuori, nel mondo di sopra, dove vivono i più, non è giunta che una pallida eco. Poche note in cronaca nera, gli anarchici che soffiano sul fuoco, la negazione sistematica delle violenze sempre più sfacciate di polizia e militari.
Settimana dopo settimana incendi, tentativi di fuga, scioperi della fame, gente che si fa tagli profondi a braccia e gambe, suppellettili e materassi distrutti. Poi, puntuale, la repressione: pestaggi, arresti, sputi, insulti. Quelli che con più forza hanno lottato per la propria dignità e libertà sono finiti sotto processo o hanno guadagnato un’espulsione rapida.
Più forte dei manganelli
Tutto comincia l’otto agosto. Il giorno in cui entra in vigore il “pacchetto sicurezza”, la legge 94/09. Quello stesso giorno in due sezioni del CIE di via Corelli a Milano è iniziato uno sciopero della fame e della sete.
Il giorno dopo al CIE di Gradisca d’Isonzo una buona metà dei 200 prigionieri salgono sui tetti contro il prolungamento della loro detenzione. Alla fine i danni alla struttura ed alle suppellettili saranno ingenti. Una parte del Centro per qualche tempo resta inagibile. Dieci immigrati tentano la fuga ma non ce la fanno. Il giorno successivo le varie sezioni vengono chiuse per isolare chi protesta. Trenta protagonisti della rivolta sono trasferiti al CIE di Milano.
Il 13 e 14 agosto è la volta di Torino. In due sezioni del CIE i reclusi rifiutano il cibo: il secondo giorno la protesta sfocia in uno scontro con la polizia.
Lo stesso giorno a Milano scoppia la rivolta. Volano mazzate tra agenti e prigionieri, una sezione del centro va a fuoco. 9 uomini e 5 donne sono arrestati e rinviati a giudizio per direttissima con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale, incendio e danneggiamenti. Il tutto condito dall’aggravante della clandestinità. Una norma speciale per gente speciale, i senza carte.
Il 15 agosto, a Torino, salgono sui tetti in una ventina.
La notte successiva battiture di protesta anche al Cie di Bari dove è stato trasferito un gruppo di reclusi del Cie di Milano.
Due giorni dopo, è il 17 agosto, da Bari tentano la fuga in due ma vengono presi e denunciati per danneggiamenti.
Lo stesso giorno, a Modena, dopo una giornata di sciopero della fame in due delle sei sezioni, gli immigrati incendiano i materassi contro il prolungamento a sei mesi della detenzione. Tre marocchini, che la polizia indica come leader della protesta, sono denunciati e velocemente caricati su un aereo per Casablanca. Le due sezioni andate a fuoco sono ormai inagibili: le donne vengono trasferite in altri centri.
20 agosto, Gradisca. Sette algerini riescono a forzare le grate della finestra e a fuggire, altri due sono bloccati sui tetti dagli uomini in divisa.
Sono trascorse meno di due settimane dall’entrata in vigore della legge e i CIE sono una pentola in ebollizione. La situazione rischia di sfuggire di mano. Serve una punizione esemplare. L’occasione è il processo contro gli immigrati arrestati a Milano per la rivolta del 14 agosto, che inizia il 21 agosto.
Ma è un boomerang. La prima udienza, alla quale partecipano numerosi solidali, si trasforma presto in un atto di accusa verso gli aguzzini che gestiscono il lager. Quando un ispettore capo della polizia si presenta a testimoniare scoppia il finimondo: una delle nigeriane alla sbarra lo accusa di pesanti molestie. L’aula viene sgomberata e le successive udienze si svolgono a porte chiuse. Non manca mai il sostegno degli antirazzisti. La polizia cerca di impedire i presidi e, il 23 settembre, volano anche le manganellate.
24 agosto, Bari. Un recluso fugge dall’ospedale dove era stato ricoverato. 26 agosto. Fallisce un ennesimo tentativo di fuga da Gradisca. Il 29 agosto scappano in 19 dal Cie di Brindisi, da poco riaperto. Lì erano approdati numerosi immigrati trasferiti da Milano, dopo la rivolta del 14 agosto. Il solo effetto dei trasferimenti e il propagarsi della ribellione. 2 settembre. Un giorno di sciopero della fame al CIE di Ponte Galeria a Roma. 4 settembre. Un altro tentativo di fuga è bloccato dai militari nel Cie di Bari. 8 settembre, Lamezia Terme. Sei detenuti scavalcano la recinzione e fuggono: la polizia spara lacrimogeni davanti al Cie. 14 settembre, Milano. Cercano di scappare in venti ma la libertà resta al di là delle gabbie. 15 settembre, Lamezia Terme. Provano a scavare un buco nel muro ma vengono scoperti.
La protesta si macchia di sangue. A Milano un ragazzo si taglia sul collo con una lametta, a Roma due marocchini si lacerano le gambe e le braccia, un peruviano beve candeggina e ingoia due batterie.
22 settembre, CIE di via Mattei a Bologna. Scoppia la rivolta innescata dal rifiuto di curare un ragazzo disabile che si taglia, riempiendo di sangue la stanza. Quando finalmente gli viene prestato soccorso, la protesta attraversa tutto il CIE: altri si tagliano, tutti urlano, materassi e masserizie vanno a fuoco. Il 20 settembre è ancora la volta di Gradisca. Tentano la fuga in 35 ma non riescono a riprendersi la libertà. La reazione della polizia è tanto brutale che gli altri prigionieri per protesta salgono sul tetto, rimanendovi sino al mattino successivo. All’alba gli uomini in divisa promettono che non ci sarebbero state rappresaglie e gli immigrati scendono giù. Tutto tranquillo sino alle 13 quando scatta una “perquisizione” con insulti, sparizione di soldi e telefonini. Poco dopo la sezione “blu” è in rivolta: la reazione della polizia è feroce. I feriti sono una ventina, le testimonianze, le foto scattate dai cellulari ed un breve video mostrano un ragazzo con un occhio tumefatto, gambe e braccia ferite, altri reclusi a insanguinati a terra. Fuori dalle gabbie la polizia in assetto antisommossa. Dodici persone finiscono all’ospedale. Il 26 settembre, nonostante la repressione ci provano ancora in cinque, ma vengono tutti riacciuffati. La voglia di libertà è più forte dei manganelli di poliziotti e militari.
Il silenzio
è complicità
Oltre il muro. Qui, fuori dalle gabbie dei senza carte, il silenzio, l’indifferenza, a volte il plauso. È il segno dei tempi terribili che viviamo, tempi segnati dalla paura e dalla ferocia. Eppure, debole, debole, il lessico della solidarietà e della lotta comincia a tracciare, sui muri e nelle coscienze, un solco lieve ma visibile.
C’è chi rifiuta di controllare i documenti al ragazzo che arriva in ospedale, chi sui tram si mette in mezzo per fermare le retate, chi occupa le sedi di Croce Rossa e Misericordia perché chi gestisce un lager non deve essere lasciato in pace.
Piovono pietre e nessuno può stare al riparo in attesa di tempi migliori: il silenzio è complicità.