Il concerto all’Olympia, come ogni esibizione e ogni disco di Paco Ibáñez, è un’antologia in lingua spagnola che raccoglie testi poetici dal medioevo fino all’epoca contemporanea, oltre a un testo di Brassens tradotto in spagnolo da Pierre Pascal (1). I temi sviluppati sono molteplici: si va dalla critica della chiesa a quella del potere, dall’esperienza della guerra civile spagnola a quella dell’esilio repubblicano, dal tono rassegnato di parole “heridas de muerte” fino al grido di battaglia che dà titolo a quest’articolo.
Il contesto storico politico in cui si trovava la Spagna nel periodo in cui si svolse il concerto, alla fine degli anni ’60, era piuttosto complicato. Il regime franchista godeva ormai di una posizione opportunisticamente salda al di fuori dei propri confini. Riconosciuta dall’Onu, appoggiata già da alcuni anni dagli Stati Uniti (che avevano individuato nella penisola iberica un punto strategico per la lotta al comunismo, considerando un male minore la dittatura franchista) e dal Vaticano (con il quale era stato firmato un concordato nel 1953) la Spagna aveva aperto le proprie frontiere ai turisti stranieri (con tutti gli scempi edilizi che ne conseguono) e cercava di dare un’immagine civile e democratica di sé. Al contrario, pur considerando un lieve “miglioramento” rispetto al primo periodo della dittatura, quello spagnolo restava di fatto un regime che negava diritti e libertà fondamentali, il cui metodo di persuasione restava la violenza (le ultime esecuzioni ebbero luogo pochi mesi prima della morte di Franco) (2). Il consenso non era più unanime. Il regime si trovava ormai da tempo a dover affrontare anche l’opposizione di una parte della chiesa (che sino a quel momento si era schierata a fianco del Caudillo) e il 1969 in particolare fu un anno ricco di eventi.
Ruano come Pinelli
Già l’anno precedente la situazione si era fatta calda in seguito all’ assassinio di Javier Echevarrieta, militante ETA ucciso dalla Guardia Civil perchè accusato dell’uccisione di un loro commilitone. L’episodio suscitò numerose proteste. Nei Paesi Baschi i sacerdoti di Vizcaya occuparono la diocesi di Bilbao opponendosi al divieto di celebrare messe di suffragio in onore di Echevarrieta e ETA rispose con l’uccisione di Militón Manzanas, capo della brigada social di Guipúzcoa, il corpo di polizia incaricato di reprimere i movimenti sociali con qualsiasi mezzo. Questo evento sancisce l’inizio della fase armata del gruppo indipendentista basco. Nel gennaio del 1969 dopo avvenne invece lo strano “suicidio” di Enrique Ruano. Il caso ricorda molto quello dell’anarchico Pinelli, morto in analoghe condizioni alla fine dello stesso anno. Ruano, come Pinelli, “cadde” inspiegabilmente dalla finestra del commissariato dove era stato condotto, reo di aver distribuito volantini di propaganda antifranchista. La stampa filo-governativa sostenne che Ruano, instabile emotivamente, si fosse suicidato in preda ad un raptus di pazzia. Inutile dire che i sospetti sulla vicenda non furono mai chiariti. La vicenda diede vita a ondate di protesta che preoccuparono non poco le alte gerarchie del regime. Nel frattempo il governo si trovò a dover far fronte allo scandalo Matesa, importante industria tessile che aveva usufruito di ingenti aiuti statali, a cui non aveva diritto, con la complicità di alcuni uomini politici. L’evento provocò un certo subbuglio all’interno delle gerarchie franchiste e portò alla formazione di un nuovo governo.
Detto questo, ciò che più traspare dai versi a cui Ibáñez dà voce è il suo inguaribile spirito anarchico, quell’irrefrenabile voglia di spingersi sempre controvento, in direzione ostinata e contraria, contro ogni ingiustizia e a favore della libertà. D’altronde che cosa si può aspettare dal figlio di un repubblicano spagnolo nato a pochi mesi dallo scoppio della guerra civile, ammiratore, allievo e amico di Georges Brassens, e per di più con origini basche? In ogni suo concerto Ibáñez introducendo la canzone Biotza racconta della cena durante la quale l’allora ministro della cultura francese Jack Lang gli offrì per la prima volta la Medaille des Artes et des Lettres. Infastidito da tale proposta, giunta in seguito a quella che lui stesso definisce una cena amichevole e conviviale, e incapace di formulare una risposta convincente, Ibáñez giustificò il suo rifiuto con un secco “Non posso perché mia nonna è basca”, risposta che tolse a Lang ogni possibilità di controbattere. Ibáñez visse buona parte della giovinezza ad Apakintza, vicino a San Sebastián, presso la nonna materna. All’età di quattordici anni, insieme alla madre ed ai fratelli, attraverso clandestinamente la frontiera dei Pirenei per raggiungere il padre (che si trovava già in Francia dove era stato arrestato ed internato in un campo di lavoro riservato ai repubblicani spagnoli) a Perpiñan, nel sud della Francia. La famiglia si trasferirà più tardi a Parigi e Paco Ibáñez varcherà nuovamente il confine spagnolo soltanto trent’anni più tardi.
Per tutta la durata del concerto all’Olympia, attraverso gli autori, le epoche e gli stili più disparati, Ibáñez sembra ribadire come unico concetto il disgusto in lui suscitato dalla situazione sociopolitica della Spagna tanto amata e a questo reagisce esprimendo la sua diversità, la sua unicità, la sua voglia di indipendenza e la sua incapacità di obbedire alle leggi del branco.
Ghiande e castagne
Analizzando il concerto, il primo esempio lampante delle posizioni assunte da Ibáñez lo troviamo nel testo intitolato Ándeme yo caliente, y ríase la gente, ovvero, ricorrendo alla traduzione di Cerami, “Piedi caldi pieno il ventre, me ne infischio della gente”. Si tratta di un testo satirico di Luis de Góngora, poeta seicentesco spagnolo universalmente noto per il suo stile manierista che ispirò la famosa Generación del 27 (quella di Lorca), che all’ascolto appare di estrema attualità. Il protagonista, scegliendo di restare al di fuori dal gregge, preferisce placare la propria fame con pane e burro e la propria sete con aranciata e aguardiente, mentre gli altri continuano a occuparsi delle importanti questioni inerenti “el gobierno del mundo y sus monarquías”. Alla faccia del principe, costretto a ingurgitare pillole dorate servite in pregiate stoviglie, il protagonista preferisce arrostire succulente morcillas (simili ai sanguinacci) servite su una tavola piccola e spoglia. Allo stesso modo si prende gioco delle fandonie pronunciate dall’isterico re, al suono scoppiettante di ghiande e castagne che abbrustoliscono sul fuoco, mentre fuori il gelido inverno imbianca le montagne. I versi di Góngora e la voce di Ibáñez prendono distanza dalla rassegnazione delle masse sottomesse al volere e dagli sfoghi frustrati di ricchi e potenti, considerando più saggio ignorare una società di cui non si sentono parte. Quella società che a partire dal 1939 in Spagna era rappresentata non solo dalle gerarchie franchiste, ma anche da chi pur avendone la possibilità non osava contraddire il regime (la “España que bosteza”, ovvero che sbadiglia, di cui parla Antonio Machado in Proverbios y cantares, messa in musica e cantata da Ibáñez durante il concerto), per vigliaccheria o per convenienza.
Gli stessi concetti si possono poi ritrovare nelle parole di Como tú di León Felipe. Il poeta, “vagabondo senza casa e senza scuola”, testimonia il suo spirito anarchico e avventuriero, la sua condizione di viaggiatore per scelta ed esiliato per forza. Felipe si paragona a una piccola pietra, al ciottolo dei sentieri che sprofonda nella terra fradicia durante il temporale e che scintilla sotto le ruote dei carri di passaggio; un umile sassolino, inutile per la costruzione di chiese, mercati, tribunali e palazzi di re e tiranni, ma adatto per il lancio della fionda. Ibáñez sceglie queste parole per testimoniare la sua indipendenza da qualsiasi movimento, l‘avversione al potere e lo spirito combattivo.
|
Paco Ibáñez |
L’amico Georges Brassens
Se parliamo di anarchia come disobbedienza nei confronti di ogni potere costituito, delle sue leggi e delle sue mode, non possiamo fare a meno di conoscere La mala reputación, ovvero la versione spagnola di La mauvaise réputation di Georges Brassens. A detta dello stesso Ibáñez, fu proprio il cantautore di Sète che gli fece conoscere la “veritable chanson” convincendolo del fatto che si potesse vivere cantando canzoni. I due si conobbero a metà degli anni ’50, stringendo una profonda amicizia e giungendo a collaborare (Ibáñez dedicò un intero disco alle traduzioni spagnole di Brassens e questi ne incluse tre, registrate con il cantante spagnolo, nel disco Georges Brassens chante les chansons de sa jeunesse). Oltre alle affinità musicali che li univano, entrambi fecero dell’anarchia il proprio stile di vita, come testimonia il presente testo. La narrazione è ambientata in un paese senza pretese, uno di quei borghi abitati da imbecilli felici, patrioti fanatici e bellicosi collezionisti di onorificenze ottenute in cambio della fedeltà a quel potere che non si azzardano a contraddire, che con disprezzo, guardano gli altri dall’alto delle proprie mura (come vengono descritti ne La ballade des gens qui sont nés quelque part).
Il personaggio, alter ego di Brassens e Ibáñez, racconta che nonostante i suoi sforzi per non infastidire nessuno, continua a godere di cattiva reputazione; questo perché la gente non ama chi abbandona il gregge per seguire la propria via, la propria fede, rifiutandosi di morire per le idee degli altri. Questa gente è la stessa che popola altre canzoni di Brassens: sono quelli che lo considerano un’erbaccia, di quelle che non si mangiano né si coltivano (La mauvaise herbe), gli stessi che chiamano ragazze allegre le puttane (La complainte des filles de joie) che la notte stabiliscono il prezzo delle loro voglie (come racconta De Andrè); sono i borghesi felici, volatili da cortile troppo vigliacchi per abbandonare le proprie rassicuranti abitudini, che osservano invidiosi gli uccelli di passaggio liberi nel cielo dai quali altro non possono avere che gli escrementi (Les oiseaux de passage). A gente come questa non piace chi resta nel proprio letto mentre fuori tutti marciano al passo dei tamburi assistendo al rito dell’alzabandiera e nemmeno chi ostacola il ricco derubato che insegue il ladro di galline. L’anarchico è disprezzato e perseguitato da tutti, eccezion fatta per i ciechi che non possono guardarlo storto, i monchi che non possono additarlo, gli zoppi che non possono inseguirlo e i muti incapaci di inveire contro di lui al momento dell’esecuzione. In questo caso quindi non è più il protagonista che per scelta si chiama fuori dalla società, ma è il gregge stesso che mette al bando la pecora nera, rea di aver dimostrato che non tutte le strade portano a Roma.
La disobbedienza nei confronti del buon senso comune è ancora protagonista in un altro testo del concerto. Si tratta di una composizione di José Agustín Goytisolo, poeta catalano, amico e collaboratore di Paco Ibáñez, intitolata Me lo decía mi abuelito, me lo decía mi papá. In questo caso il buon senso comune, unica forma di pensiero possibile per il gregge, è rappresentato ed espresso dalle parole del nonno e del padre del protagonista. Coscienti del mondo corrotto e spietato che li circonda e incapaci di intravedere altri mondi possibili, i due tentano di istruire il bambino illustrandogli il loro metodo di sopravvivenza e la maniera in cui conquistare il successo. Secondo i due lo sforzo e la parsimonia sono indispensabili per elevarsi al di sopra dei poveracci e dei meschini che non hanno saputo sbarcare il lunario. Perché la vita è una lotta spietata e nessuno è disposto ad aiutare gli altri e solo l’egoismo e il duro lavoro assicurano il successo a chi è stato capace di schiacciare gli altri. Per fortuna il bambino rimane indifferente ai consigli dei parenti e, disprezzando il loro assurdo modello di vita, confessa al lettore-ascoltatore: “Me lo decía mi abuelito/me lo decía mi papá/me lo dijeron muchas veces/y lo he olvidado muchas más”. (Trad.: Me lo diceva il mio nonnino /me lo diceva mio papà /me lo dissero molte volte e l’ho dimenticato molte di più).
Fuori dal gregge
A questo punto, quello che risulta chiaro di Ibáñez è lo spirito controcorrente, il rifiuto di ogni forma di autorità, delle assurde leggi che regolavano la società di allora e che regolano quella attuale, la voglia di non essere classificato, di non conformarsi a nessun parametro standard e di rimanere semplicemente se stesso nel rispetto della libertà degli altri. Ibáñez vuole dimostrare con i testi di questo concerto che il mondo di allora, e quello di oggi, è solo uno dei tanti possibili, migliore sotto certi aspetti di quelli del passato, ma equidistante da quel mondo al contrario, il “mundo al revés” sognato ancora con i versi di Goytilosolo: l’unico mondo possibile per chi viaggia in direzione ostinata e contraria. Ibáñez è quindi convinto che con la volontà di tutti “l’ordine consueto delle cose può cambiare” (come direbbe Germano Bonaveri) (3) e che è giunto il momento di cantare la memoria ed occupare la storia (come direbbe Alessio Lega).
Per fare ciò naturalmente non basta chiamarsi fuori dal gregge. Certo da lì si ha un’ottima visuale, ma prima di poter riassaporare la riconquista della propria libertà, bisogna battersi per essa. È giunta l’ora, prendendo spunto dalle parole di España en marcha di Celaya, di scendere nelle strade e “mostrar que, pues vivimos, anunciamos algo nuevo”. Solo dimenticando il passato (ma ricordando gli errori commessi per evitare di ripeterli), quel passato dal quale proveniamo ma che non possiamo accettare, diventeremo “fresca y turbia, un agua que atropella sus comienzos”, un’onda capace di abbattere chi, raccontandoci la favola della democrazia, continua a perpetuare il proprio dominio nell’indifferenza degli interessi collettivi e dei diritti umani: chi, per viltà o convenienza, considera troppo rischioso e faticoso abbandonare vecchi sistemi e ribellarsi ad antiche consuetudini, attendendo il giorno in cui sarà lui a guidare l’immenso gregge dei coglioni che ancora devono capire che non ci sono poteri buoni.
A tal proposito credo che non esista miglior auspicio di quello contenuto nelle parole di En tiempos de ignominia di José Agustín Goytisolo (i cui versi introducono numerosi concerti di Ibáñez).
En tiempos de ignominia como ahora
a escala planetaria y cuando la crueldad
se extiende por doquiera fría y robotizada
[...]
Que nadie piense nunca:
no puedo más y aquí me quedo.
Mejor mirarles a la cara y decir alto:
tirad hijos de perra
somos millones y el planeta no es vuestro.
In tempi di ignominia come ora su scala planetaria e quando la crudeltà si estende ovunque fredda e robotizzata
[...]
Che nessuno pensi mai:
non ne posso più e mi fermo qui. Meglio guardarli in viso e dire ad alta voce: sparate figli di cagna siamo milioni e il mondo non è vostro.