Pietro Kropotkin nasce a Mosca nel 1842, da una ricca famiglia nobile. Arruolatosi
ventenne nell'esercito si interessa con sempre maggior passione sia di problemi
geografici sia delle nuove idee populiste, studiando Herzen e Proudhon. Dimessosi
dall'esercito, continua per alcuni anni gli studi geografici, finché nel 1871 si reca in Svizzera ed entra in contatto con gli ambienti anarchici direttamente influenzati da Bakunin. L'anno successivo torna in Russia e vi svolge attività rivoluzionaria ma viene arrestato ed incarcerato. Nel 1876 riesce avventurosamente a fuggire e si stabilisce in Inghilterra, pur continuando a spostarsi da un paese all'altro. Fino al 1914 resta una delle figure più influenti dell'anarchismo internazionale, con Malatesta ed E. Reclus. In questi anni pubblica: Parole di un ribelle (1885), La conquista del pane (1892), Campi, fabbriche e officine (1898), Memorie di un rivoluzionario (1899), Il mutuo appoggio (1902), La grande rivoluzione (1909), La scienza moderna e l'anarchismo (1912).
Nel 1914 prende posizione a favore dell'interventismo rivoluzionario entrando in polemica con Malatesta. Nel 1917 torna in Russia e si schiera con la rivoluzione, criticandone però la degenerazione autoritaria imposta dai bolscevichi. Nel suo ritiro, nei dintorni di Mosca, scrive l'Etica (1920). Nell'estate del 1920 manda un appello ai lavoratori di tutto il mondo, in cui considera un fallimento la rivoluzione autoritaria bolscevica. Muore l'8 febbraio 1921 ed i suoi funerali, seguiti da centomila persone, sono l'ultima grande manifestazione anarchica in Russia. |
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Il pensiero di Kropotkin matura in un periodo storico in cui lo sviluppo delle scienze e l’utilizzazione dei suoi risultati influiscono largamente il pensiero sociale, economico, storico ed umanistico più avanzato dell’epoca. Il “socialismo scientifico” da una parte il “darwinismo sociale” dall’altra si contendono i primati della scienza, le sue interpretazioni e le sue possibili implicazioni. Sotto questa spinta “ambientale” e per la sua specifica formazione scientifica, Kropotkin viene ad elaborare un ampio disegno teorico, non privo di ambizioni: innestare nel pensiero anarchico la dimensione scientifica al fine di integrare entrambi all’interno di un quadro sistematico e razionale. Questa posizione, che esercitò un grande fascino e contemporaneamente provocò una serie interminabile di polemiche nel campo anarchico, si qualificava in un duplice piano. Da una parte confutare alcune verità “scientifiche” del socialismo e di buona parte dell’intellighenzia “liberale”, dall’altra, per converso, tentare di dare una sistemazione compiuta teorico-scientifica dell’anarchismo.
Ai fini di una sua utilizzazione attuale, il pensiero kropotkiniano risente di questa impostazione ed è quindi necessario “selezionare” gli aspetti teorici superati e propri della sua epoca, da quelli che conservano tutt’oggi grande attualità.)
Nell’impostazione di Kropotkin il rapporto tra scienza e anarchia si configura come la possibilità, da parte dell’anarchismo, di utilizzare il metodo di indagine e di analisi classico della scienza. Scrive Kropotkin, in “La scienza moderna e l’anarchia”: “Recentemente, noi abbiamo sentito parlare molto del metodo dialettico, che i socialdemocratici raccomandavano per elaborare l’ideale socialista. Noi non ammettiamo affatto questo metodo, come del resto non lo riconosce nessuna delle scienze naturali.... Non una delle grandi scoperte del secolo scorso, nella meccanica, nell’astronomia, nella fisica, nella chimica, nella biologia, nella psicologia, nell’antropologia, si deve al metodo dialettico. Tutte invece sono frutto del metodo induttivo-deduttivo, il solo veramente scientifico”.
L’identificazione di tale metodo con l’anarchismo è, per Kropotkin, una cosa naturale; vi è in tale posizione il tentativo di innestare il pensiero anarchico sulla tradizione dell’illuminismo francese, sottraendolo contemporaneamente dal contesto storicistico-hegeliano di tradizione tedesca. Ne consegue che l’analisi e la critica della disuguaglianza e dello sfruttamento vengono condotte su molteplici piani e con una visione sociologica e polivalente. Tipica è l’analisi dell’autorità. Mentre nella tradizione storicistica-hegeliana essa è vista come conseguenza dell’alienazione umana, come proiezione e delega delle proprie forze ad altre di natura estranea, in Kropotkin essa viene ricondotta all’interno di una spiegazione scientifica di carattere antropologico ed etnologico. La legge, dice Kropotkin, espressione ufficiale dell’autorità, presenta contemporaneamente due aspetti: il suo carattere è “l’abile fusione” delle consuetudini utili alla società, consuetudini che non avrebbero bisogno di leggi per essere rispettate, con altre consuetudini che offrono vantaggi ai soli dominatori e sono quindi dannose alle masse, e debbono essere mantenute dal timore delle pene.
La teoria kropotkiniana della scienza come strumento “oggettivamente” libertario e rivoluzionario, caratteristico atteggiamento da “enciclopedista francese”, comune a Reclus e ad altri, non può essere oggi ritenuto attuale ed utilizzabile. Il suo concetto di evoluzione deterministica come progresso continuo verso forme di vita sempre più “umane e civili” e quindi implicitamente libertarie ed egualitarie, risulta certo ottimistico di fronte all’esperienza storica degli ultimi settanta anni. Nondimeno esso è servito a mantenere un atteggiamento scientifico all’interno dell’anarchismo, soprattutto a porre le basi per una sociologia libertaria, che via via ha utilizzato le nuove scoperte scientifiche per dare maggior forza e razionalità al pensiero anarchico.)
Dall’analisi delle grandi contraddizioni sociali e dello sfruttamento del lavoro umano da parte delle classi superiori, Kropotkin non vede altra soluzione socio-economica che il comunismo. A differenza di Malatesta e altri che, pur essendo comunisti, ammettevano altri possibili sistemi o sottosistemi economici, Kropotkin conclude che l’unico sistema privo di contraddizioni sociali e capace di rendere “piena giustizia a tutti” è e rimane il comunismo libertario. Esso, a differenza del collettivismo e di altri sistemi mutualisti, è il sole in grado di superare completamente, attraverso l’abolizione del salario e di ogni altra legge del valore, tutte le inevitabili disuguaglianze e sperequazioni.
Questo comunismo che si esplica integralmente attraverso la semplice norma “ognuno secondo le sue forze, ad ognuno secondo i suoi bisogni”, può essere realizzato solo con la completa abolizione dello Stato. La dimensione libertaria del comunismo kropotkiniano trova la sua conferma nello sviluppo indefinito delle forze produttive, così che la libertà base per ogni “ulteriore libertà” rimane quella dal bisogno. Ma questa libertà-base non è sufficiente per creare una società anarchica, perché quest’ultima, come vedremo più avanti, va costruita attraverso un piano armonico delle strutture sociali, economiche e geografiche.)
Il comunismo kropotkiniano, ammettendo il diretto passaggio dal sistema dello sfruttamento al sistema della libertà dal bisogno, implicava con la modalità libertaria della sua costruzione, una forma spontanea ed automatica di socializzazione. Affiora qui uno dei punti controversi del pensiero di Kropotkin: l’automatismo deterministico e scientifico.
Kropotkin veniva accusato, da parte anarchica, di eccessivo ottimismo, se non di superficialità e semplicismo. A queste critiche si aggiungevano le critiche marxiste e soprattutto le critiche di quella grande corrente di pensiero del secolo scorso che dominò praticamente ogni atteggiamento culturale e scientifico di avanguardia: il darwinismo divenuto, con i suoi epigoni, “darwinismo sociale”.
Il darwinismo sociale finiva col giustificare ogni forma di dominio e di oppressione. “La lotta per la vita” e l’impossibilità di una forma sociale libera ed egualitaria veniva utilizzata non solo dal pensiero borghese ma anche da quello socialdemocratico di allora: infatti che cosa altro era la teoria dell’élite, del comando e della gerarchia nel pensiero socialista? Era riconoscere l’impossibilità dell’accordo non coercitivo e quindi un modo indiretto di critica “all’utopismo anarchico”, alla sua fiducia nella libera, spontanea, creativa ed appassionata socievolezza delle masse oppresse. Si trattava perciò, secondo Kropotkin, di dimostrare scientificamente non solo la possibilità di tale socievolezza, ma di “trovarla” già in atto nel mondo della natura e nello sviluppo dell’uomo.
Con questa prospettiva di ampio respiro il pensiero kropotkiniano tentò di definire un grande affresco del mondo animale ed umano, attraverso quella visione “enciclopedica” e polivalente cui abbiamo accennato sopra. Questa visione, che risentì in parte del clima culturale dell’epoca, conserva però ancora una straordinaria vitalità, specialmente l’analisi riguardante la storia comunale del medioevo.)
Abbiamo detto che la libertà dal bisogno, nel pensiero kropotkiniano e più in generale nel pensiero anarchico, non è sufficiente per realizzare l’anarchia. In altri termini la libertà, per poter esprimere la sua inesauribile vena creativa, deve passare dal segno negativo a quello positivo per farsi proposta concreta e operativa.
Ora, tutto questo trova conferma teorico-pratica nel piano armonico della libertà e dell’eguaglianza, che Kropotkin definì con geniale anticipazione ottant’anni fa. Tale piano si esplica attraverso due aspetti complementari: l’integrazione in ogni individuo del lavoro manuale con quello intellettuale, l’integrazione geografico-sociale della città con la campagna. I due aspetti sono complementari perché mirano al superamento di due forme dello stesso fenomeno: la divisione gerarchica delle funzioni sociali. E così come il lavoro intellettuale è dominante rispetto a quello manuale, anche la posizione e la funzione della città è dominante rispetto a quella della campagna: ne risulta che non si può integrare l’uno senza integrare l’altro. I due aspetti così integrati costituiscono la struttura federalistica ed armonica del piano kropotkiniano. Questa duplice e contemporanea integrazione del lavoro, sia a livello individuale come a quello sociale, assolve il compito della frantumazione del potere attraverso la socializzazione del sapere e di ogni funzione dominante.
L’abolizione delle classi, nella visione sociologica di Kropotkin, assume un disegno unitario e globale di contemporanea ed immediata conversione dal sistema di sfruttamento e di dominio al sistema della libertà: abolizione dello Stato e di ogni altra forma gerarchica socio-economica, decentramento e federalismo dal semplice al composto, abolizione della duplice divisione del lavoro per la loro integrazione, pratica immediata di comunismo libero e di mutuo appoggio.... Vi è certo in questa visione una dose forse preponderante di ottimismo e di fiducia, essa però, a nostro avviso, ha accolto i tratti essenziali del disegno anarchico della società. Essa è vista come un grande organismo dove tutte le funzioni risultano interdipendenti attraverso la coesione del mutuo appoggio e dove vi è una diversificazione sociale che non può mai farsi, con il decentramento e l’integrazione del lavoro, meccanismo di dominio e di sfruttamento.
Rispetto al problema dell’autogestione, la concezione economica kropotkiniana concede credito ad un sistema autarchico, che oggi risulta assolutamente inattuale; è questo un aspetto superato della sua dottrina, ma significativo in rapporto alla problematica dell’autogestione. La creazione delle strutture sociali ed economiche decentrate veniva realizzata con l’ulteriore integrazione dell’industria con l’agricoltura. Scrive Lewis Mumford in “La città nella storia”: “Con quasi mezzo secolo d’anticipo sul pensiero tecnico ed economico contemporaneo, egli (Kropotkin) aveva intuito che la duttilità e l’adattabilità delle comunicazioni e dell’energia elettrica, unite alla possibilità di una agricoltura intensiva e biodinamica, avevano posto le basi di una evoluzione urbana più decentrata da svolgersi attraverso piccole comunità basate sul contatto umano diretto e provviste dei vantaggi della città oltre che di quelli della campagna”.
Con ottant’anni di anticipo Kropotkin aveva previsto che l’accentramento, grande pregiudizio della stupidità autoritaria, avrebbe continuato progressivamente a disumanizzare la vita: oggi i rappresentanti “borghesi” e quelli del socialismo autoritario dibattono i problemi ecologici...
Mirko Roberti
Il metodo scientifico
Gli anarchici non subiscono il fascino delle “parole altisonanti”, poiché sanno che queste parole servono sempre a coprire o l’ignoranza – cioè l’investigazione incompiuta – o, ciò che è peggio, la superstizione. Ecco perché, quando si parla loro questo linguaggio, essi passano oltre, senza fermarsi, e proseguono il loro studio delle concezioni sociali e delle istituzioni del passato e del presente, seguendo il metodo naturalista. E certo trovano che lo sviluppo della vita della società è infinitamente più complesso (e più interessante dal punto di vista pratico), di quanto si potrebbe supporlo attenendosi alle formule metafisiche ed aprioristiche.
Recentemente, noi abbiamo sentito parlare molto del metodo dialettico, che i social-democratici raccomandavano per elaborare l’ideale socialista. Noi non ammettiamo affatto questo metodo, come del resto non lo riconosce nessuna delle scienze naturali. Per il naturalista moderno, questo “metodo dialettico” appare come qualcosa di molto vecchio, di superato e di dimenticato da un pezzo, fortunatamente, dalla scienza. Non una delle grandi scoperte del secolo scorso – nella meccanica, nell’astronomia, nella fisica, nella chimica, nella biologia, nella psicologia, nell’antropologia – si deve al metodo dialettico. Tutte invece sono frutto del metodo induttivo-deduttivo, il solo veramente scientifico. E poiché l’uomo è una parte della natura, poiché la sua vita personale e sociale è pure un fenomeno della natura – alla stregua della crescita di un fiore, o dell’evoluzione della vita nelle società delle formiche e delle api – non vi è nessuna ragione perché, passando dal fiore all’uomo, da un villaggio di castori ad una città umana, noi dobbiamo abbandonare il metodo che ci aveva servito così bene fino allora, per cercarne un altro nell’arsenale della metafisica.
Il metodo induttivo-deduttivo, che noi adoperiamo nelle scienze naturali, si è rivelato così efficace, che negli ultimi cent’anni la scienza ha fatto progressi maggiori di quelli raggiunti nei due millenni precedenti. E quando si cominciò (nella seconda metà del secolo scorso) ad estenderlo allo studio delle società umane, non si poté constatare un solo caso in cui questo metodo si fosse mostrato deficiente, ed avesse perciò autorizzato il ritorno alla scolastica medievale, risuscitata da Hegel. Ma c’è di più. Allorché certi scienziati, naturalisti, pagando un tributo alla loro educazione borghese, vollero insegnarci, col pretesto di applicare la teoria scientifica di Darwin: “Schiacciate chiunque è più debole di voi: tale è la legge della natura!” – potemmo facilmente dimostrare con lo stesso metodo scientifico, che quegli scienziati avevano sbagliato strada: che una simile legge non esiste, che la natura c’insegna tutto l’opposto e che le loro conclusioni non erano punto scientifiche. La stessa sorte capitò a coloro che volevano far passare l’inuguaglianza delle fortune per “una legge della natura”, e lo sfruttamento capitalistico per la forma più vantaggiosa di organizzazione sociale. È appunto coll’applicazione ai fatti economici del metodo delle scienze naturali, che noi ci accorgiamo come le pretese “leggi” delle scienze sociali borghesi – compresa l’economia politica attuale – non siano affatto delle leggi, ma delle semplici supposizioni, o meglio delle affermazioni, che non si è mai tentato di verificare.
(da “La scienza moderna e l'anarchia”, 1912)
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Una cella della fortezza di Pietro e Paolo, a Pietroburgo,
dove Kropotkin fu rinchiuso dal 1874 al 1876,
da cui evase con una fuga spettacolare |
L’economia come fisiologia sociale
Del resto, a noi, anarchici, l’economia politica si presenta sotto un aspetto differente da quello che le attribuiscono gli economisti, siano poi borghesi o social-democratici. Essi non sanno rendersi conto di ciò che sia una “legge naturale” – malgrado la loro grande predilezione per questa espressione – perché il metodo scientifico induttivo è assolutamente ignoto e agli uni e agli altri. Essi non s’accorgono che ogni legge di natura ha un suo carattere condizionale, poiché si esprime sempre così: “Se nella natura si presentano queste condizioni, il risultato sarà questo o quest’altro. – Se una linea retta interseca un’altra linea retta, in modo da formare degli angoli eguali dalle due parti del punto d’intersezione, le conseguenze saranno le seguenti. – Se soltanto i movimenti che esistono nello spazio interplanetare agiscono sopra due corpi, e se non si incontrano altri corpi agenti su questi due a una distanza che non sia infinita, allora i centri di gravità dei due corpi si avvicinano con una data velocità (legge della gravitazione universale)”.
E così di seguito, ma sempre con il suo bravo se, sempre con una condizione.
Necessariamente adunque tutte le pretese leggi e teorie dell’economia politica non sono in realtà che delle affermazioni aventi questo carattere: “Ammettendo che si trovi sempre in un dato paese una quantità considerevole di persone che non possono vivere un mese e neppure quindici giorni senza accettare le condizioni di lavoro che vorrà loro imporre lo Stato (sotto forma di imposte), o che saran loro offerte da quelli che lo Stato riconosce per proprietari del suolo, delle officine, delle vie ferrate, ecc. – ecco le conseguenze che ne risulteranno.
Fino ad oggi, l’economia politica non è stata altro che una enumerazione di ciò che succede in simili condizioni – senza però enumerare ed analizzare le condizioni stesse, senza esaminare come queste condizioni agiscano in ogni caso particolare, né ciò che le mantiene. Anche quando queste condizioni sono ricordate in un punto, si dimenticano un passo più in là. Ma gli economisti non si limitano a simili dimenticanze e rappresentano i fatti che si producono in seguito a queste condizioni come leggi fatali ed immutabili.
Quanto all’economia politica socialista, essa critica, è vero, alcune di queste conclusioni, oppure ne spiega in modo diverso certe altre; ma sempre commette la stessa dimenticanza, e, ad ogni modo, non si è ancora tracciato un proprio cammino, e rimane nel vecchio, seguendo le stesse rotaie. Il più che abbia fatto (con Marx) è l’aver preso le definizioni dell’economia politica metafisica e borghese, per dire: “Vedete bene che anche accettando le vostre definizioni, si arriva a provare che il capitalista sfrutta l’operaio!”. Ciò che suonerà forse bene in una polemica, ma non ha nulla a che vedere con la scienza.
In generale noi pensiamo che la scienza dell’economia politica vada costituita in modo diverso; deve essere trattata come una scienza naturale e deve segnarsi una mèta nuova; deve occupare, in rapporto colle società umane, un posto uguale a quello che occupa la fisiologia in rapporto con le piante e gli animali; deve diventare insomma una fisiologia della società. Il suo scopo deve essere lo studio della somma dei bisogni sempre crescenti delle società e dei mezzi diversi impiegati (oggi e in altri tempi) per soddisfarli; deve analizzare questi mezzi per vedere fino a che punto erano una volta e sono oggi appropriati allo scopo; e in seguito – perché lo scopo finale di ogni scienza è la predizione, l’applicazione alla vita pratica (ed è un pezzo che l’ha detto Bacone) – essa dovrà studiare i mezzi di soddisfare meglio la somma dei bisogni moderni ed ottenere con la minore spesa d’energia (con economia) i migliori risultati per l’umanità in generale.
Si capisce, così, perché noi arriviamo a conclusioni tanto differenti sotto certi rapporti da quelle a cui giungono la maggior parte degli economisti borghesi o social-democratici; perché noi non riconosciamo il titolo di “leggi” a certe correlazioni, da loro indicate; perché la nostra “esposizione” del socialismo differisce dalla loro, e perché noi deduciamo dallo studio delle tendenze e delle direzioni di sviluppo che osserviamo attualmente nella vita economica, conclusioni del tutto differenti dalle loro, per quanto concerne il desiderabile ed il possibile; o in altri termini, perché noi arriviamo al comunismo libertario, mentre essi giungono al capitalismo statale ed al salariato collettivista.
Siamo forse noi nel torto ed essi nel vero? Può darsi; ma per verificare chi di noi ha torto o ha ragione non basta fare dei commentari bizantini su ciò che questo o quello scrittore ha detto o voluto dire, né parlare della trilogia di Hegel, né soprattutto continuare a far uso del metodo dialettico.
Tutto ciò non si può fare che mettendosi a studiare i rapporti economici, come si studiano i fenomeni delle scienze naturali.
(da “La scienza moderna e l’anarchia”, 1912)
Comunismo popolare
Così si constata una figliazione diretta dagli “Arrabbiati” del 1973 e da Babeuf (1795) sino all’Internazionale.
Ma vi è pure figliazione nelle idee. Il socialismo moderno non ha nulla, assolutamente nulla aggiunto finora alle idee che circolavano nel popolo francese dal 1789 al 1794, e che il popolo francese tentò di mettere in pratica durante l’anno II della Repubblica. Il socialismo moderno ha solamente trasformato in sistemi queste idee e trovato degli argomenti in loro favore, sia ritorcendo contro gli economisti certe loro proprie definizioni, sia generalizzando i fatti dello sviluppo del capitalismo industriale nel corso del diciannovesimo secolo.
Ma mi permetterò d’affermare che, per quanto fosse vago, per quanto mancasse d’argomenti cosidetti scientifici e per quanto poco usasse il frasario pseudo-scientifico degli economisti borghesi, il comunismo popolare dei due primi anni della Repubblica aveva vedute più chiare e analisi più profonde del socialismo moderno. Era anzitutto il comunismo nel consumo – la municipalizzazione e la nazionalizzazione del consumo – cui miravano i fieri repubblicani del 1792 quando volevano stabilire i loro magazzeni di grani e di commestibili in ogni comune, quando facevano un’inchiesta per fissare il “vero valore” degli oggetti di “prima e di seconda necessità”, e quando ispiravano a Robespierre le parole profonde che il superfluo solo delle derrate poteva essere oggetto di commercio: ma il necessario apparteneva a tutti.
Nato dalle necessità stesse della vita burrascosa di quegli anni, il comunismo del 1793, con la sua affermazione del diritto di tutti ai viveri, ed alla terra per produrli, la sua negazione di diritti fondiari all’infuori di ciò che una famiglia poteva coltivare essa stessa (il podere di “120 jugeri, misura di 22 piedi”) e il suo tentativo di municipalizzare il commercio, – questo comunismo andava più in fondo delle cose che tutti programmi minimi ed anche i considerandi massimi del nostro tempo.
Ad ogni modo, ciò che si impara oggi studiando la Grande Rivoluzione, è che fu la fonte di tutte le concezioni comuniste, anarchiche e socialiste della nostra epoca. Non conosciamo ancor bene la nostra madre di tutti noi; ma la ravvisiamo oggi in mezzo ai sanculotti, e comprendiamo quanto ci resta da imparare da lei.
(da “La grande rivoluzione”, 1909)
Il mutuo appoggio
Così, quando più tardi la mia attenzione si rivolse ai rapporti tra il darwinismo e la sociologia, non mi trovai d’accordo con nessuna delle opere che furono scritte su questo importante argomento. Tutti si sforzavano di provare che l’uomo, grazie alla sua alta intelligenza ed alle sue esperienze, poteva moderare l’asprezza della lotta per la vita tra gli uomini; ma essi riconoscevano anche la lotta per i mezzi dell’esistenza di ogni animale contro i suoi congeneri, e di ogni uomo contro gli altri uomini, come “una legge della natura”.
Io non potevo accettare questa opinione, perché ero persuaso che ammettere una spietata guerra per la vita, in seno ad ogni specie, e vedere in questa guerra una condizione di progresso, era formulare un’affermazione non solo senza prove, ma non avente nemmeno l’appoggio dell’osservazione diretta.
Al contrario, una conferenza “Sulla legge dell’aiuto reciproco” tenuta ad un congresso di naturalisti russi, nel gennaio 1880, dal prof. Kessler, zoologo molto noto (allora decano dell’Università di Pietrogrado), mi colpì in quanto gettava una nuova luce su tutto questo problema. L’idea del Kessler era che, a fianco alla legge della Lotta reciproca, vi è nella natura la legge dell’Aiuto reciproco, che è molto più importante per il successo della lotta per la vita, e soprattutto per l’evoluzione progressiva della specie. Questa ipotesi, che in realtà non era che lo sviluppo delle idee espresse dallo stesso Darwin nella Origine dell’Uomo, mi sembrò così giusta e di sì grande importanza, che da quando ne ebbi conoscenza (nel 1883), cominciai a raccogliere dei documenti per svilupparla. Kessler non aveva fatto che indicarla brevemente nella sua conferenza, e la morte (egli morì nel 1881) gli aveva impedito di tornarvi sopra.
Su un punto solo non potei accettare interamente le vedute del Kessler. Egli vedeva nei “sentimenti familiari” e nelle cure della prole la sorgente delle tendenze solidaristiche degli animali. Ma determinare fino a qual punto questi due sentimenti hanno contribuito all’evoluzione degli istinti socievoli, e fino a che punto degli altri istinti hanno agito nella stessa direzione, mi sembra una questione distinta e molto complessa che non possiamo ancora discutere. Soltanto dopo che avremo ben stabilito i fatti dell’aiuto reciproco tra le varie classi degli animali e la loro importanza per l’evoluzione, saremo in grado di studiare ciò che appartiene, nell’evoluzione dei sentimenti socievoli, ai sentimenti familiari e ciò che appartiene alla sociabilità vera e propria; che ha certamente la sua origine nei più bassi gradini dell’evoluzione del mondo animale, fors’anche nelle “colonie animali”. Quindi mi propongo, innanzi tutto, di stabilire l’importanza del fattore dell’aiuto reciproco nell’evoluzione, riservando a delle ulteriori ricerche l’origine dell’istinto della solidarietà nella natura.
(...)
Dopo avere esaminato l’importanza dell’aiuto reciproco nelle diverse classi di animali, dovetti esaminare l’ufficio dello stesso fattore nell’evoluzione dell’uomo. Ciò era tanto più necessario in quanto un certo numero di evoluzionisti, che non potevano rifiutarsi di ammettere l’importanza dell’aiuto reciproco negli animali, rifiutavano, come ha fatto Herbert Spencer, di ammetterlo nell’uomo. Nell’uomo primitivo, sostengono costoro, la guerra di ciascuno contro tutti era la legge della vita. Esaminerò, nei capitoli dedicati ai selvaggi e ai barbari, fino a qual punto questa affermazione, che è stata troppo compiacentemente ripetuta, senza critica sufficiente, dopo Hobbes, è confermata da quanto sappiamo dei periodi primitivi dello sviluppo umano.
Dopo aver esaminato il numero e l’importanza delle istituzioni dell’aiuto reciproco, formate dal genio creatore delle masse selvagge e semiselvagge durante il periodo delle tribù, e ancor più durante il successivo periodo dei comuni rurali, e dopo aver constatato l’immenso influsso che queste istituzioni primitive hanno esercitato nell’ulteriore sviluppo dell’umanità fino all’epoca attuale, fui spinto ad estendere le mie ricerche anche alle epoche storiche. Studiai particolarmente quel periodo, così interessante, delle libere repubbliche urbane del medioevo, delle quali non s’è ancora riconosciuto abbastanza l’universalità né apprezzata l’influenza sulla nostra civiltà moderna. Infine, ho cercato di indicare brevemente l’immensa importanza che gli istinti di solidarietà, trasmessi all’umanità dalla ereditarietà di una lunghissima evoluzione, agiscono ancor oggi nella nostra società moderna; in questa società che si pretende poggi sul principio “ciascuno per sé e lo Stato per tutti”, ma che non l’ha mai realizzato e non lo realizzerà giammai.
Sì può obbiettare a questo libro che tanto gli animali quanto gli uomini vi sono presentati sotto una luce troppo favorevole; che si è insistito sulle loro qualità socievoli, mentre i loro istinti anti-sociali ed individualisti sono a malapena considerati. Ma questo era inevitabile. Noi abbiamo udito ultimamente parlar tanto dell’“aspra e spietata lotta per la vita” che si pretendeva sostenuta da ogni animale contro tutti gli altri animali, da ogni “selvaggio” contro tutti gli altri “selvaggi” e da ogni uomo civile contro tutti i suoi concittadini – e queste asserzioni sono così bene divenute articoli di fede – che era necessario, a bella posta, di opporre loro una vasta serie di fatti mostranti la vita animale ed umana sotto un aspetto completamente diverso. Era necessario indicare la capitale importanza che hanno le abitudini sociali nella natura e nell’evoluzione progressiva, tanto delle specie animali quanto degli esseri umani; di provare che esse assicurano agli animali una migliore protezione contro i loro nemici, e molto spesso delle facilitazioni per la ricerca del loro alimento (provvigioni per l’inverno, migrazioni, ecc.), una maggiore longevità e, di conseguenza, una più grande probabilità di sviluppo delle facoltà intellettuali; infine era necessario dimostrare che esse hanno dato agli uomini, oltre questi vantaggi, la possibilità di cercare le istituzioni che hanno permesso all’umanità di trionfare nella sua lotta accanita contro la natura e di progredire, nonostante tutte le vicende della storia. È questo che ho fatto. Questo è, certo, un libro sulla legge dell’aiuto reciproco, considerato come uno dei principali fattori dell’evoluzione; ma non è un libro su tutti i fattori dell’evoluzione; è un libro su tutti i fattori dell’evoluzione e sul loro rispettivo valore. Bisognava che questo primo libro fosse scritto, perché fosse possibile scrivere l’altro.
(da “Il mutuo appoggio”, 1902)
Il libero comune
Quando noi diciamo che la rivoluzione sociale deve farsi coll’affrancamento dei Comuni e che solo i Comuni, assolutamente indipendenti, liberi della tutela dello Stato, potranno darci l’ambiente necessario alla rivoluzione e il mezzo di compierla, ci si rimprovera di voler richiamare alla vita una forma della società già sorpassata, che ha fatto il suo tempo. “Ma il Comune – ci si dice – è un fatto d’altri tempi! Cercando di distruggere lo Stato per sostituirlo coi Comuni liberi, voi rivolgete gli sguardi al passato: voi volete condurci in pieno medioevo, riaccendere fra di essi le guerre antiche, e distruggere le unità nazionali così faticosamente conquistate durante il corso della storia!”.
Ebbene, esaminiamo questa critica.
Constatiamo anzitutto che qualunque paragone col passato non ha che un valore relativo. Perché la nostra Comune non fosse realmente che un ritorno verso il Comune medievale, bisognerebbe che noi riconoscessimo che il Comune potrebbe ancora rivestire le forme di sette secoli or sono. Ora, non è evidente che, stabilendosi ai nostri giorni, nel nostro secolo di ferrovie e di telegrafi, di scienza cosmopolita e di ricerca della verità pura, il Comune avrebbe una organizzazione ben differente da quella avuta nel dodicesimo secolo, perché noi saremmo in presenza di un fatto assolutamente nuovo, posto in condizioni nuove e che necessariamente porterebbe conseguenze, in modo assoluto, diverse.
Inoltre, i nostri avversari, i difensori dello Stato, sotto le sue varie forme, dovrebbero ben ricordare che noi possiamo muovere a loro un’altra somigliante obiezione.
Noi pure potremmo dire, e con maggior ragione, ch’essi hanno lo sguardo rivolto al passato, poiché lo Stato è pure una forma tanto antica quanto il Comune. C’è solo questa differenza: mentre lo Stato rappresenta nella storia la negazione di ogni libertà, l’assolutismo e l’arbitrio, il patibolo e la tortura, la rovina dei suoi sudditi; è invece appunto nell’affratellamento dei Comuni e nella sollevazione dei popoli e dei Comuni contro gli Stati, che noi troviamo le più belle pagine della storia.
(...)
Fra il Comune del medioevo e la Comune che potrebbe stabilirsi oggi, e forse si stabilirà ben presto, vi saranno differenze essenziali: tutto un abisso aperto da sei o sette secoli di sviluppo dell’umanità e da faticose rudi esperienze. Esaminiamo le principali.
(...)
Il Comune medioevale poteva limitarsi fra le sue mura, e, fino ad un certo punto, isolarsi dai suoi vicini. Allorquando entrava in relazione con altri comuni, queste relazioni si limitavano, sovente, ad un trattato per la difesa dei diritti urbani contro ai signori, o ad un patto di solidarietà per la mutua protezione dei loro dipendenti nei loro viaggi lontani. E quando vere leghe si formavano, come nella Lombardia, nel Belgio, nella Spagna, queste leghe troppo poco omogenee, troppo fragili per la diversità dei privilegi, si scindevano ben presto in gruppi isolati o soccombevano sotto gli attacchi degli Stati limitrofi.
Quale differenza coi gruppi che si formerebbero oggi! Una piccola Comune non potrebbe vivere otto giorni senza essere costretta dalla forza delle cose a mettersi in relazioni correnti coi centri industriali, commerciali, artistici, e questi centri a loro volta, sentirebbero il bisogno d’aprire le loro porte agli abitanti vicini, delle comuni limitrofe, delle città lontane.
(...)
Il commercio e lo scambio, atterrando i limiti delle frontiere, hanno anche distrutto le mura delle antiche città. Essi hanno stabilito quella coesione che mancava nel medioevo. Tutti i punti abitati dell’Europa occidentale sono così intimamente legati fra di loro, che l’isolamento è, per essi, divenuto impossibile: non vi è villaggio anche appollaiato sulla cornice d’una montagna, che non abbia il suo centro industriale e commerciale verso cui gravita e con cui non può rompere.
(...)
Ma non è tutto. Per il borghese del medioevo il Comune era uno Stato isolato, nettamente diviso dagli altri colle sue frontiere. Per noi “Comune” non è più una agglomerazione territoriale; è piuttosto un nome generico; sinonimo di gruppo d’eguali, che non conoscono mura né frontiere. La Comune sociale cesserà ben presto d’essere un tutto precisamente definito. Ogni gruppo della Comune sarà necessariamente attratto verso gli altri gruppi affini delle altre Comuni; si unirà, si federerà con essi, con legami per lo meno solidi come quelli che lo riannodano ai suoi contadini, costruirà una Comune d’interessi, i cui membri sono sparsi dentro mille città e villaggi. Un individuo troverà la soddisfazione dei suoi bisogni unendosi con altri individui dagli stessi gusti e abitanti cento altre Comuni.
(da “Parole di un ribelle”, 1885)
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Mosca, 1921: funerali di Kropotkin. Uno striscione
di protesta contro i sempre più numerosi arresti
di anarchici da parte del potere bolscevico.
Lo striscione dice: “Noi domandiamo il rilascio
di tutti gli anarchici incarcerati che stanno
lottando per le stesse idee per cui
ha lottato Kropotkin – per l’Anarchia” |
Il governo rivoluzionario
Un “governo rivoluzionario!”. Ecco due parole che suonano stranamente all’orecchio di coloro che si rendono conto di ciò che deve significare la Rivoluzione Sociale e di ciò che significa un governo. Due parole che si contraddicono, si distruggono l’un l’altra. Si sono veduti, infatti, dei governi dispotici, – per la sua essenza qualunque governo abbraccia la reazione contro la rivoluzione e tende necessariamente al dispotismo; – ma non si è mai visto un governo rivoluzionario, ed a ragione.
La Rivoluzione, – sinonimo di “disordine”, di rovesciamento in pochi giorni di istituzioni secolari, di demolizione violenta delle forme stabilite di proprietà, di distruzione delle caste, di trasformazione rapida delle idee ammesse sulla moralità o meglio sull’ipocrisia che la sostituisce, di libertà individuale e di azione spontanea, – è precisamente l’opposto, la negazione del governo, sinonimo di “ordine costituito”, di conservatismo, di mantenimento delle istituzioni vigenti, di soppressione d’ogni iniziativa ed azione individuale. E nondimeno, noi sentiamo continuamente parlare di questo merlo bianco, come se un “governo rivoluzionario” fosse la più semplice cosa del mondo, tanto comune e conosciuta da tutti come la regalità, l’impero o la teocrazia.
(...)
I pericoli ai quali si espone la rivoluzione, se si lascia dominare da un governo eletto, sono così evidenti che tutta una scuola di rivoluzionari rinuncia completamente a questa idea. Essi comprendono che è impossibile ad un popolo insorto, di darsi, mediante elezioni, un governo che non rappresenti il passato e che non sia un ceppo attaccato ai piedi di un popolo, soprattutto quando si tratta di compiere quella immensa rigenerazione economica, politica e morale, che noi chiamiamo Rivoluzione Sociale. Essi rinunciano dunque all’idea di un governo “legale”, almeno nel periodo che è una rivolta contro la legalità e preconizzano la “dittatura rivoluzionaria”.
- Il partito, – dicono essi, – che avrà rovesciato il governo, si sostituirà colla forza al suo posto. S’impadronirà del potere e procederà con metodo rivoluzionario. Prenderà le misure necessarie per assicurare il trionfo dell’insurrezione; abbatterà le vecchie istituzioni; organizzerà la difesa del territorio. Per coloro che non vorranno riconoscere la sua autorità, – la ghigliottina; per coloro, popolo o borghesi, che rifiuteranno d’obbedire agli ordini che darà per regolare la marcia della Rivoluzione, – ancora la ghigliottina. – Ecco, come ragionano i Robespierre in erba, coloro che della grande epopea del secolo scorso non ricordano che i giorni della sua fine, e coloro che ne hanno appreso solo i discorsi dei procuratori della repubblica.
Per noi, anarchici, la dittatura di un individuo o di un partito, – in fondo, la stessa cosa, – è definitivamente condannata. Noi sappiamo che una Rivoluzione Sociale non si dirige collo spirito di un solo uomo o di un gruppo. Noi sappiamo che governo e Rivoluzione sono incompatibili; l’uno deve uccidere l’altra, qualunque sia il nome dato al governo. Noi sappiamo che la forza e la verità del nostro partito sta nella sua formula fondamentale: – “Nulla si fa di buono e di durevole senza la libera iniziativa del popolo, ed ogni potere tende ad ucciderla”; per questo i migliori dei nostri, se le loro idee non dovessero essere più vagliate dal popolo che le deve mettere in esecuzione e diventassero padroni di questo arnese formidabile – il governo – a guisa da muovere tutto a modo loro, otto giorni dopo bisognerebbe pugnalarli. Noi sappiamo dove conduca qualunque dittatura, anche la meglio intenzionata, – alla morte della Rivoluzione. E sappiamo, infine, che questa idea di dittatura, il prodotto malsano del feticismo governativo, ha sempre perpetrato la schiavitù, come il feticismo religioso.
(...)
Lasciar stabilire un governo qualunque, un potere forte e ubbidito, significa ostacolare sin dal principio la marcia della Rivoluzione. Il bene che potrebbe fare questo governo è nullo, il male immenso. Infatti, di che si tratta, che cosa intendiamo noi per Rivoluzione? – Non già un semplice cambiamento di governi, ma la presa di possesso da parte del popolo di tutta la ricchezza sociale, l’abolizione di tutti i poteri che non hanno mai cessato di intralciare lo sviluppo dell’umanità! È con decreti emanati da un governo che questa immensa Rivoluzione economica può essere compiuta? Noi abbiamo visto, nel secolo scorso, il dittatore rivoluzionario polacco Kosciusko decretare l’abolizione della servitù personale; – la servitù durò ancora ottant’anni dopo questo decreto. Noi abbiamo visto la Convenzione, l’onnipotente Convenzione, la terribile Convenzione, come dicono i suoi ammiratori, – decretare la divisione per testa di tutte le terre comunali riprese ai signori. Come tanti altri, questo decreto restò lettera morta, perché, per metterlo in esecuzione, bisognava che i proletari delle campagne facessero una nuova Rivoluzione, e le Rivoluzioni non si fanno a colpi di decreti. Perché la presa di possesso della ricchezza sociale da parte del popolo divenga un fatto compiuto, occorre che il popolo si senta forte e sicuro, scuota la servitù alla quale è troppo abituato, agisca di sua testa e proceda arditamente senza aspettare ordini da nessuno. Ora, la dittatura, anche quando fosse la meglio intenzionata del mondo, impedirà precisamente tutto questo, pur essendo incapace di far progredire in altro modo la Rivoluzione.
Ma se il governo, – fosse anche un governo rivoluzionario ideale, – non crea una forza nuova e non presenta alcun vantaggio per il lavoro di demolizione che dobbiamo compiere, – noi possiamo ancor meno contare su lui per la susseguente opera di riorganizzazione. Il cambiamento economico che risulterà dalla Rivoluzione Sociale sarà così immenso e profondo, dovrà mutare talmente tutte le relazioni odierne basate sulla proprietà e lo scambio, – che è impossibile, a uno o a pochi individui, di elaborare le forme sociali che devono nascere nella società futura. Questa elaborazione di nuove forme sociali non può farsi che col lavoro collettivo delle masse. Per soddisfare alla immensa varietà delle condizioni e dei bisogni che nasceranno il giorno in cui la proprietà individuale sarà abolita, occorre la flessibilità dello spirito collettivo del paese. Qualunque autorità esterna non sarà che un inciampo, un impedimento a questo lavoro organico da compiersi, e, quindi, una fonte di discordie e di odi.
Ma è tempo di abbandonare questa illusione, tante volte smentita e tante volte pagata a sì caro prezzo, di un governo rivoluzionario. È tempo di dire una volta per tutte e d’ammettere questo assioma politico, che un governo non può essere rivoluzionario.
(da “Parole di un ribelle”, 1885)
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Dmitroff, 1921. Alla stazione ferroviaria una folla di campagni
dà l’ultimo saluto alla salma di Kropotkin, traslata a Mosca
per i funerali. Trasformati in grandiosa
manifestazione
anarchica, parteciparono centomila persone
con bandiere e striscioni anarchici |
L’integrazione del lavoro
Una volta, gli uomini di scienza, e particolarmente quelli che maggiormente contribuirono ai progressi della fisica, non disprezzavano il lavoro manuale.
Galileo fabbricava colle sue mani i suoi telescopi. Newton, nella sua infanzia, imparò a maneggiare gli arnesi da operaio. Egli esercitava il suo giovane spirito a immaginare macchine ingegnosissime, e quando iniziò le sue ricerche nel campo dell’ottica, seppe fare da sé le lenti dei suoi strumenti e costruire il celebre telescopio, che, nella sua epoca, fu una cosa ammirevole. Leibniz si dilettava di inventare macchine: molini a vento e carrozze senza cavalli preoccupavano il suo spirito, non meno che le speculazioni matematiche e filosofiche. Linneo divenne botanico aiutando suo padre, che era giardiniere, nel lavoro quotidiano. Insomma per quei grandi genii, il lavoro manuale non era ostacolo alle ricerche astratte, anzi le favoriva.
(...)
Ai giorni nostri, tutto ciò è mutato. Col pretesto di applicare il principio della divisione del lavoro, noi abbiamo scavato un fossato fra il lavoratore intellettuale e il lavoratore manuale.
(...)
Da una parte, abbiamo uomini dotati di facoltà inventive, ma che non hanno né l’istruzione scientifica necessaria, né i mezzi di fare esperimenti per lunghi anni. E, d’altra parte, abbiamo uomini istruiti ben preparati per l’esperimentazione, ma sprovvisti di qualsiasi genio inventivo perché la loro istruzione fu troppo astratta, troppo scolastica, troppo secondo i libri, e per l’ambiente in cui essi vivono (la stessa osservazione dovrebbe esser fatta relativamente ai sociologhi, sopra tutto agli economisti. Quanti, anche tra i socialisti, studiano i libri e i sistemi, invece di studiare i fatti della vita sociale). E non voglio ancora dir nulla del sistema dei brevetti di invenzione, che divide e sparpaglia gli sforzi invece di combinarli.
Lo slancio di genio levantesi a volo, che caratterizzò gli operai all’aurora del periodo industriale moderno, è completamente mancato nei nostri scienziati ufficiali. E così continuerà ad essere finché essi resteranno estranei al mondo, alla vita, piantati in mezzo ai loro libri polverosi; finché essi non diventeranno veri operai, all’opera tra altri operai, nei bagliori dell’altoforno, o presso il focolare della macchina nell’officina, o davanti al tornio del meccanico; finché essi non si faranno marinai, per vivere sul mare fra i marinai, o pescatori sulla barca da pesca, o boscaiuoli nella foresta, o contadini fra i solchi.
I nostri critici d’arte, quali Ruskin e la sua scuola, non hanno cessato di ripeterci, da qualche tempo, che non possiamo sperare una rinascita dell’arte, finché i mestieri manuali saranno ciò che sono. Essi ci hanno dimostrato che l’arte greca e l’arte romana furono generate dai mestieri manuali. Altrettanto si può dire dei rapporti fra il lavoro manuale e la scienza; la separazione di quello da questa condurrebbe l’uno e l’altra alla decadenza.
Quanto alle grandi ispirazioni, di cui purtroppo si è tanto trascurato di parlare nella maggior parte delle discussioni sull’arte che ebbero luogo negli ultimi tempi, – ispirazioni che mancano ugualmente nel dominio della scienza, – non possiamo aspettarcele se non da un’umanità che, spezzando le sue catene e i suoi impacci attuali, si lascerà guidare dai principii superiori della solidarietà e abolirà la dualità che esiste ancora nelle nostre teorie d’etica e nella nostra filosofia.
È evidente che tutti possono ugualmente gustare la gioia delle ricerche scientifiche. La varietà delle inclinazioni è tale che alcuni troveranno maggior piacere nella scienza, altri nell’arte, e altri ancora in qualcuno dei numerosi rami della produzione delle ricchezze. Ma qualunque sia la sua occupazione preferita, ognuno sarà tanto più utile in quanto possederà una seria cultura scientifica. E, di chiunque si tratti, – scienziato o artista, fisico o sociologo, storico o poeta, – ognuno acquisterebbe maggior valore se passasse una parte della sua vita nell’officina, o nella fattoria, o, meglio ancora, nell’officina e nella fattoria. Essere a contatto con l’umanità che lavora al suo compito quotidiano, e giungere alla soddisfazione di sapere ch’egli pure si sdebita dei propri doveri di produttore non privilegiato della ricchezza sociale, sarebbe per lo scienziato, come pure per l’artista, uno slancio di vita nuova, un aumento del genio creatore.
Come comprenderebbero meglio l’umanità, lo storico e il sociologo, se la conoscessero, non già attraverso i libri, non da un piccolo numero di suoi rappresentanti, ma nella sua integralità, e dopo averla veduta nella sua vita, nel suo lavoro, nei suoi affari di tutti i giorni! Come la medicina sarebbe più fiduciosa relativamente all’igiene, e quanto minore assegnamento farebbe sulle sue ricette, se i giovani medici fossero gl’infermieri degli ammalati, e se le infermiere e gl’infermieri ricevessero l’istruzione dei medici del nostro tempo! Come il poeta sentirebbe meglio le bellezze della natura, come sarebbe più profonda la sua conoscenza del cuore umano, se, contadino egli stesso, contemplasse il levar del sole stando in mezzo ai coltivatori della terra, e se lottasse contro la tempesta al fianco dei marinai, suoi fratelli, e se conoscesse la poesia del lavoro e del riposo, i dolori e la gioia della lotta e della vittoria! – “Greift nur hinen ins volle Menschleben”, diceva Goethe. “Ein jeder lebt’s – nicht vielen ist’s bekannt”. Ma come son pochi i poeti che seguono il suo consiglio!
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Pietro Kropotkin sul letto di morte |
La così detta “divisione del lavoro” è nata sotto un regime che condannava la massa degli operai a lavorare duramente per tutto il giorno e per tutta la vita allo stesso genere di fastidioso lavoro. Ma se consideriamo quanto siano poco numerosi i veri produttori di ricchezza, nella nostra società attuale, e come il prodotto dei loro sforzi sia sprecato, siamo costretti a riconoscere che Franklin aveva ragione di dire che cinque ore di lavoro ogni giorno sarebbero sufficienti ad assicurare a ciascun membro di una nazione civile il benessere che oggidì è accessibile soltanto a pochi, purché ognuno si assumesse la sua parte di lavoro nella produzione.
Ma abbiamo fatto qualche progresso, dal tempo in cui viveva Franklin, e alcuni di tali progressi verificatisi nel ramo di produzione che finora era rimasto più in ritardo, – l’agricoltura – furono da noi segnalati in un nostro libro. Anche in questo ramo, la produttività del lavoro può essere accresciuta in proporzioni considerevoli, e il lavoro stesso può esser reso facile e gradevole.
Ebbene: se ognuno facesse la propria parte di produzione, e se tale produzione fosse socializzata, come ci sarebbe indicato da un’economia sociale mirante alla soddisfazione dei sempre crescenti bisogni di tutti, – allora resterebbe ad ognuno più della metà della giornata di lavoro, per dedicarsi all’arte, alla scienza o a qualsiasi altra distrazione preferita.
E il lavoro di ognuno nel campo artistico o scientifico sarebbe tanto più profittevole in quantoché ognuno avrebbe impiegata l’altra metà della giornata per un lavoro produttivo. L’arte e la scienza ci guadagnerebbero se fossero coltivate soltanto per pura inclinazione e non con uno scopo mercantile. D’altra parte, una società organizzata sul principio che tutti i suoi membri dovessero partecipare alla produzione sarebbe ricca abbastanza per poter decidere che ognuno, a una certa età – a quaranta o cinquant’anni, per esempio – fosse esonerato dall’obbligo morale di partecipare direttamente all’esecuzione del lavoro manuale necessario, così che potesse dedicarsi interamente a ricerche scientifiche, a lavori d’arte o di qualsiasi altro genere.
Così si garantirebbe pienamente la libera ricerca nelle nuove regioni dell’arte e della scienza, la libera creazione, il libero sviluppo di ognuno. E una tale società non conoscerebbe la miseria in seno all’abbondanza. Ignorerebbe la dualità di coscienza di cui è compenetrata la nostra vita e che paralizza ogni nobile sforzo, e si slancerebbe liberamente verso le più alte regioni del progresso compatibile con la natura umana.
(da “Campi, fabbriche, officine”, 1898)
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