Primi giorni del 2010. Il telegiornale di uno dei tre canali pubblici della TV francese presenta un reportage sull’Italia, paese razzista. Uno scrittore italiano di origine africana racconta i soprusi di poliziotti, controllori, vigili urbani: un “italiano” non può essere nero. Un sociologo chiosa “l’Italia è l’unico paese europeo con un partito esplicitamente razzista al governo”. Già. In Italia i razzisti sono al governo. Lo dice la TV francese. E siamo nella Francia di Sarkozy, quello che, da ministro dell’Interno, sosteneva la necessità di usare la scopa con i denti di acciaio contro i giovani delle banlieue in rivolta.
È sempre la stessa storia: il male, quello vero, si presenta in tutta la sua terrificante banalità. Fai quasi fatica ad accorgertene.
Ultimi giorni del 2009. Un compagno dice che “gli anarchici sono oggi la sola opposizione”. Ti pare un paradosso eppure – e non c’è da inorgoglirsene troppo – gli anarchici sono oggi la sola opposizione reale all’affermarsi di una democrazia autoritaria, che si concreta in politiche sociali che rendono sempre più feroce la guerra contro i poveri, i senza potere, i lavoratori e ogni forma di opposizione sociale. Per non dire dell’inasprirsi progressivo delle misure repressive, che passo dopo passo, erodono spazi e possibilità di critica sociale e azione politica.
Il nostro movimento fa fatica ad affrontare una simile responsabilità. Troppi anni di abitudine a pensare in piccolo, come minoranza destinata a restare tale, sempre più incapace di pensare che la spinta ad una radicale trasformazione sociale di segno libertario, possa attraversare il corpo sociale, traendone forza e spunti di lotta.
Il guaio è che – fuori – per le strade, nelle piazze, sui posti di lavoro, a scuola – la situazione politica e sociale è sempre più grave. Oggi più che mai c’è bisogno di intessere relazioni, rinsaldare i legami, attuare una solidarietà attiva.
Certo non è facile. Quando i fermenti sociali sono forti, quando i movimenti di opposizione sociale riescono a mettere in difficoltà governi e padroni, tutto è innegabilmente più facile. Ma oggi non è così.
Dopo la caduta del Muro
L’anno appena trascorso è stato il ventennale dalla caduta del Muro di Berlino. Qualcuno, allora, sostenne che l’evento, pur segnando positivamente la fine di un regime dittatoriale feroce, rischiava di trascinare nella propria rovina anche la speranza in un futuro diverso per i miliardi di esseri umani che sopravvivono ai margini del “nord” ricco e sprecone. Occorreva stare bene attenti a “non buttare via il bambino con l’acqua sporca”.
Erano riflessioni un po’ inusuali. In fondo, all’epoca, il tono emotivo prevalente nel nostro ambiente era di cauto ottimismo. L’emergere ed il costituirsi di movimenti anarchici nell’est europeo venne accolto come una ventata di libertà, dopo la lunga notte della dittatura. Eppure quelle considerazioni, allora inattuali, si sono rivelate profetiche.
La fine dei regimi catalizzati dall’Unione Sovietica – che certo nessuno rimpiange – ha segnato anche la fine nella speranza della rivoluzione sociale tout court. Non solo. Ha segnato – passo dopo passo – una cesura dell’immaginario. La rivoluzione non solo è impossibile ma nemmeno auspicabile, perché la dittatura del partito, della burocrazia ne sono i corollari inevitabili. Di più. Il socialismo “reale” è sinonimo di povertà, spaccio per i poveri, tessere di razionamento. Niente a che fare con le luci del capitalismo trionfante, dell’ipermercato globale, di tutta la varietà just in time.
Alla caduta delle dittature nell’est europeo è seguita la perdita di ogni speranza ed auspicio rivoluzionario e la crisi delle idee di eguaglianza, libertà, solidarietà, che pure sono patrimonio anche di quello stesso liberalismo, che nel 1989 pretese di celebrare il proprio trionfo. Il riemergere potente delle idee di nazione e razza, le piccole patrie, la guerra giusta e la guerra santa hanno fatto da contrappunto all’epoca della merce effimera ma seducente, carica di senso e insieme annullamento di ogni narrazione che oltrepassi lo spazio di uno spot da 30 secondi. L’assedio ai supermarket di Berlino est nei giorni del dopomuro e il bagno di sangue nell’ex Jugoslavia restano l’emblema di un’epoca lieve e tragica insieme.
D’altro canto in quella boa degli anni Ottanta nel nostro paese si consumò la sconfitta dei movimenti politici e sociali che per oltre un decennio avevano dato del filo da torcere ai padroni, messo in ginocchio l’egemonia clericale sulla vita quotidiana, permeato l’immaginario sociale in modo radicale.
Lo scorso dicembre era anche il 40° anniversario della strage di piazza Fontana, dell’assassinio di Giuseppe Pinelli, dell’accusa infamante agli anarchici. Negli ultimi anni il revisionismo su quella vicenda ha fatto passi da gigante, arrivando all’equiparazione tra carnefici e vittime. Segno, anche questo, che il disegno fallito allora oggi può, sia pure in chiave di rivisitazione storica, tornare in auge. E, siccome quelli come Napolitano non scrivono libri di storia, ma fanno politica, capita che chi dissente venga tranquillamente etichettato come “terrorista”. Nel silenzio di quel che resta di quella sinistra che nel lontano 1969 non volle credere che gli anarchici avessero messo quella bomba, né che Pinelli si fosse gettato dalla finestra della questura di Milano.
Probabilmente è vero che le sole battaglie che si perdono davvero sono quelle che non si prova nemmeno a combattere. Difficilmente il nemico ti lascia campare a lungo nella tua trincea. Prima o poi attacca, facendoti, passo dopo passo, indietreggiare.
Allora il lavoro, quando c’è, diventa precario, nero, pericoloso. E le leggi, che registrano i rapporti di forza, sanciscono la liceità di tutto. O quasi. Purché serva ai guadagni dei padroni.
Le libertà di dire e di fare, già poche, vengono compresse giorno dopo giorno. Scioperi e blocchi stradali, scritte e occupazioni, contestazioni e proteste vengono perseguite con durezza.
Giorno dopo giorno la linea di resistenza si sposta all’indietro, in più punti il fronte è spezzato, la fuga disordinata. E si salvi chi può. Il nemico è forte ed ha ragione. Il grande fratello ha vinto e i più lo amano.
La sua parodia, che va in scena da un decennio sugli schermi televisivi, ci racconta tutto di noi, della nostra società. Pornografia dei sentimenti, delle relazioni, della vita quotidiana. L’eccesso come chiave del successo, il peggio che diventa spettacolo, sì che nessuno lo riconosca nella propria giornata, nella polvere sotto il tappeto di casa. Poi capita – e anche questo pare normale – che cronaca e statistiche ci consegnino la notizia di questo e di quello che macellano moglie e figli prima di avere la buona grazia di togliersi di mezzo. Il piccolo faraone di provincia che seppellisce se stesso e tutta la sua roba. Il pater familias all’epoca delle slot machine.
Già, a volte ritornano. Nelle viscere dell’oggi continuano a vivere narrazioni perdute, che, all’occorrenza, si rimodulano secondo sequenze mai identiche e si raggrumano in nuovi orizzonti culturali. Sappiamo bene che l’unica forza delle “tradizioni”, di ogni retaggio riconosciuto ed accettato, è nella volontà di chi le fa proprie. Se non ci sono, a volte basta inventarle. Come il Po, l’ampolla e le altre baggianate leghiste.
Tra il supermarket dell’effimero e le suggestioni rinnovate di terra e sangue si consuma il nostro tempo. A seconda delle latitudini – geografiche e sociali – cambiano le distanze. In Africa le città/mercato dei nostri sabati di periferia sono lontane come la reggia di Versailles dai contadini e artigiani francesi prima della furia dell’89. Un altro ’89, ieri nel nostro orizzonte culturale, oggi remoto più delle catacombe di Roma.
Diritto diseguale
E torna il fascismo. Torna nelle periferie dove ragazzi con celtica, bastone, tricolore si godono l’identità che li fa migliori dei coetanei marocchini e rumeni. Sono quelli che il lavoro non c’è per colpa loro.
Torna nelle leggi che inaugurano una nuova epoca di diritto diseguale, razzismo sancito dall’ordinamento. Torna negli avvisi orali, nella sorveglianza speciale, nella persecuzione costante di chi si oppone.
Torna per le strade dove i militari – tra un semestre e l’altro di “peacekeeping” in Afganistan – pattugliano e controllano quartieri popolari, discariche, inceneritori, fabbriche.
Torna poco a poco, perché ha già vinto, permeando di sé la cultura, rinnovando le memorie malate di un colonialismo feroce che ha sempre negato se stesso, trascolorato nel mito degli italiani brava gente.
Alberto Sordi siede sui banchi del parlamento, ha la faccia del nostro vicino di casa, il ghigno di Borghezio, la bonomia d’accatto di Fini. La caricatura irridente ma bonaria dell’Italia di ieri è oggi la maschera tragica di un oggi infinito, eterno presente senza futuro.
E non c’è tristo moralismo che tenga di fronte alla gloria del principe e delle sue puttane. La storia della libertà femminile è altrove non tra i preti di Repubblica. Vent’anni di veline, starlette, miss qua, miss là, il sogno di tutte le ragazze… Che stupirsi poi se il padre padrone di tutto questo piazza sulle poltrone da ministro tipe con faccia e culo da veline?
La sinistra, più clericale del papa, ha in parlamento una che si torce orgogliosa sotto il cilicio, una Binetti più pornografica di qualsiasi escort di passaggio a palazzo Grazioli.
In tempi come questi lo spazio dell’altrove appare inattingibile. Sul piano simbolico non meno che nella materialità feroce del nostro vivere.
Eppure, proprio in tempi come questi, si può cogliere, senza troppe sfumature, che l’alternativa alla barbarie è solo nella pratica dell’anarchia. Non ideale demandato al domani, ma oggi che costruisce un possibile futuro alternativo nel conflitto con il presente. Non l’ucronia consolatoria da fantapolitica in cui la relegano i detrattori o i disillusi, ma il costruire lottando, il lottare che si alimenta e sedimenta nel fare di ogni giorno, nei percorsi di libertà concreta, nella pratica della solidarietà.
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Rompere l’immaginario
dominante
Articolare un discorso – la cui trama sottesa resta quella dell’anarchismo sociale – capace di affrontare la sfida di un tempo che vive d’effimero ma soggiace alla fascinazione di narrazioni dall’acido sapore di restaurazione, non è facile. E non vale illudersi che la durezza crescente delle condizioni di vita, lavoro, accesso ai saperi e alla comunicazione, possano – in sé – aprire nuove prospettive, anche se noi continuiamo, tenaci, a farci leva.
Questo non significa che non abbiamo frecce al nostro arco. Rompere l’immaginario dominante e incrinare sfruttamento e oppressione sono percorsi contestuali, intrecciati, inscindibili. La relazione intima tra due piani, che solo per comodità analitica si possono scindere, ben si coglie nel fatto che la rottura dell’ordine materiale spesso apre crepe nell’ordine simbolico, che a loro volta rinforzano e radicalizzano le lotte.
Con un percorso divaricato rispetto a quello della sinistra non istituzionale gli anarchici – delle varie tendenze – hanno attraversato gli ultimi vent’anni, costruendo esperienze di conflitto e autogestione che, sebbene in ambiti ristretti, hanno alimentato e rinforzato movimenti più ampi, anche se effimeri, segnando per qualche tempo un’inversione di tendenza.
Gli spazi di comunicazione autogestita on line, le reti di solidarietà con i migranti, le lotte territoriali contro le nocività, contro le installazioni militari… e poi i luoghi dove si sperimenta una socialità senza denaro, le lotte di precari, studenti, lavoratori sono state innervate da una sensibilità libertaria diffusa, che ha oltrepassato gli ambiti del movimento anarchico in senso stretto, permeando di sé ambiti più estesi.
Gli stessi movimenti no global ne hanno portato il segno.
Pensiero e
volontà, insieme
Purtroppo l’area dell’anarchismo sociale, nelle sue varie articolazioni organizzative, spesso non è stata all’altezza della sfida dei tempi e delle possibilità che, via via, si aprivano.
Chi si propone di prefigurare la società di domani già nelle relazioni politiche che ne segnano il percorso, fa una scommessa difficile, perché deve con sapienza bilanciare l’equilibrio tra tendenze diverse e la coesione necessaria alla realizzazione di iniziative comuni. È una scommessa non facile, eppure ineludibile. L’alternativa, sul piano organizzativo, è solo l’informalità. Un’informalità che regge sul piano logistico quando il consolidarsi di leadership carismatiche sostituisce un’architettura di relazioni solidali tra gruppi e individui diversi che si relazionano politicamente. Il prezzo di questa scelta è l’annullamento dello spazio della mediazione politica, ossia della sperimentazione libertaria di relazioni tra gruppi e individui autonomi.
Anche sul terreno della progettualità e dell’azione politica l’anarchismo sociale fa fatica, fa fatica a coniugare nella pratica la necessaria radicalità di prospettive con il radicamento sociale. A volte si ha la sensazione che tanti, troppi, ormai elaborino il lutto, rifugiandosi nel culto consolatorio della memoria.
Ma c’è chi invece corre. E corre veloce inseguendo l’illusione che la rivolta basti a se stessa, che la guerra civile sia alle porte e non sia il caso di fare troppo i difficili sulle alleanze. Disillusi nell’analisi, ingenui nella speranza di emancipazione senza coscienza degli ultimi del pianeta. Ma dannatamente concreti nell’azione quotidiana e nel coordinamento delle iniziative.
Una concretezza che altrove manca da troppo tempo. Il rischio, lo dico in modo chiaro, è che l’anarchismo divenga un’elegia per le rivolte delle banlieue, incapace di farsi progetto politico complessivo, se non nell’abbaglio che la lotta, in sé, possa spostare l’asse delle rivolte inserendovi, spontaneamente, una tensione libertaria.
Il guaio è che, in questi anni, le periferie, quelle fisiche come quelle esistenziali e sociali, hanno sottilmente modellato su di sé parti del movimento ben più di quanto il movimento non sia riuscito a piantarvi semi di libertà.
Ne è segno l’osmosi tra la modalità comunicativa degli ultras da stadio e quella di tanti spezzoni dei nostri cortei, dove la comunicazione con l’esterno cede il passo alla sfida all’opprimente e intollerabile arroganza poliziesca.
D’altra parte chi non affonda le mani nella melma che ci assedia, chi spera di convincere con un po’ di letteratura, non coglie che per convincere bisogna stare in mezzo al guado, non sulla riva ad attendere. Si con-vince se si vince assieme. Gli anarchici non sono né un’avanguardia, né un elite di intellettuali. Pensiero e volontà. Insieme.
Tempi difficili. Oggi come sempre occorre coniugare lo sforzo di comprensione e analisi con una presenza costante nello scontro sociale consapevoli che, in questa boa degli anni 10, il prezzo è più alto che nel recente passato.
Essere oggi l’unica forma di opposizione sociale è una sfida che va colta, assumendone a pieno la responsabilità. Saper essere minoranza che aspira a smettere di esserlo è uno dei nodi da sciogliere. Lo spazio della politica, luogo della mediazione, va sottratto – sul piano simbolico e nella concretezza dell’agire quotidiano – alla falsa pretesa che solo l’imposizione coattiva di leggi può garantire la libertà di ciascuno. Ma non solo. L’anarchismo sociale è oggi la sola opposizione perché, pur nella necessaria resistenza alla barbarie che avanza, mantiene salda la tensione ad una trasformazione radicale dei rapporti politici e sociali. Ma non puoi aspettare, non puoi – pena la riduzione a mero movimento testimoniale o a ghetto senza uscite – credere di costruire il domani se non sai costruire un oggi che di quel domani, possibile ma non immediato, abbia il sapore aspro e seducente.
Stare in mezzo al conflitto, spingere sull’acceleratore delle lotte e, insieme, costruire, sulla sabbia, per il tempo che dura, per quello che serve, per quello che ti lasciano, pezzi di un presente che sappia parlare la lingua di un tempo altro.