Rivista Anarchica Online


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L’antiviolenza anarchica
di Andrea Papi

Da sempre al centro dell’attenzione e del dibattito tra gli anarchici, la violenza può essere utilizzata ma mai mitizzata: perché la natura dell’anarchismo è antiviolenta, cioè…

 

Di questi tempi la violenza è tornata di moda tra gli argomenti prediletti dei commentatori politici, soprattutto in seguito all’immagine del viso sanguinante del premier colpito dalle guglie insidiose di un duomo in miniatura, eretto a spettacolo mediatico di un uomo/istituzione sofferente. E non è un bello spettacolo, che non dovrebbe piacere a nessuno, se non altro perché nell’immaginario collettivo da uomo più potente è passato a martire supremo.
Gli appelli a non usarla per esprimere il proprio dissenso si sprecano, accompagnati dal sottofondo di una salmodiante mielosa continua litania di inviti a non farsi dominare dall’odio e a farsi conquistare dall’amore. Ma perché si dà spazio a categorie sentimentali che ben poco hanno a che vedere con le questioni d’interesse generale? Sono davvero convinti che il problema sia riducibile ad amare e non odiare oltre a sforzarsi di essere ben educati nel condurre il dibattito sulle controversie politiche? Questo argomentare sa più che altro di slogan funzionale alla conservazione di ciò che c’è, mentre il problema vero è il superamento dello stato di cose presente, sempre più insopportabile.
Il problema della violenza non smette di essere attuale perché l’intera collettività umana vive sempre più immersa in un’aura di violenza che è penetrata nei suoi gangli più vitali. Ce la sentiamo addosso e viene continuamente riproposta nelle manifestazioni e nei modi di essere che contraddistinguono il procedere e l’organizzarsi della società nel suo insieme. È violento costringere a una vita di stenti. È violento prendere decisioni dall’alto spinti da sentimenti xenofobi. È violento accumulare ricchezze ingenti a detrimento di miliardi di esseri umani ridotti all’indigenza, alla fame, alla miseria. È violento che non sappiano trovare come risolvere il dramma dei cambiamenti climatici che ci stanno conducendo verso la catastrofe quando sanno benissimo di esserne la causa. È violento comandare e agire per mantenere uno stato di cose fondato sull’ingiustizia, sull’ipersfruttamento, sul ricatto sociale, sulla prevaricazione, ecc..
È pure violento imporre con supponenza, dall’alto dei propri privilegi, di usare le buone maniere a chi, sottoposto a vessazioni psicologiche date dalla condizione esistenziale cui è costretto, rimane inascoltato. L’elenco di ciò che impone violenza per renderci succubi è incommensurabile.

Spropositata inaccettabile disparità

Il limite fondamentale dell’estenuante dibattito di questi giorni è che l’unica violenza deprecata e messa all’indice è quella fisica o verbale di chi esprime dissenso con aggressività, magari perché non trova altro modo di far sentire la propria voce. Sostanzialmente si chiede di condannare e osteggiare l’aggressione contro il potere, mentre non si pongono minimamente in discussione le varie forme di violenza del potere che costantemente pendono sulle nostre vite come una spada di Damocle. Personalmente sono anche d’accordo nel porsi il problema di superare la violenza, ma non a senso unico come sta facendo chi è al servizio di chi domina, per i quali più o meno suona così: «Voi subordinati smettete di aggredirci e accettate di buon grado, anzi con amore, di subire le nostre aggressioni, perché tanto non c’è niente da fare». Perlomeno venga riconosciuta la spropositata inaccettabile disparità, secondo cui le oligarchie dominanti hanno il diritto di mantenere la violenza del loro potere, mentre i sottoposti possono solo usare le buone maniere nell’esprimere il loro disaccordo. È un’estremizzazione dell’affermazione di Weber secondo cui il potere è il diritto dell’uso legittimo della forza.
Da parte dei più che subiscono senza aver voce in capitolo allora il quesito cui dare risposta è se sia giusto opporsi alla violenza del potere con la violenza della ribellione. Cioè se abbia senso rispondere alla violenza di chi comanda con la violenza di chi si ribella perché giustamente è stanco di subire. La risposta immediata di primo acchito è semplice: solo se ne vale la pena, se è efficace e in qualche modo riesce a raggiungere lo scopo, altrimenti, come la storia insegna, il prezzo da pagare per l’insuccesso è sempre troppo alto e sproporzionato. Il potere non perdona chi osa disobbedirgli apertamente e sfrontatamente. Ma c’è chi potrebbe sensatamente chiedere come si fa a stabilire prima che dopo ne sarà valsa la pena. È ovvio che non lo si può sapere, mentre si può identificare il livello di probabilità che permette di supporre quante siano le possibilità di non soccombere.
C’è anche un altro problema che per gli anarchici in particolare riveste un’importanza di prima grandezza. L’uso eventuale della violenza contro la supremazia oppressiva del potere, in caso di successo, non deve portare all’imporsi di un nuovo potere che nei fatti si sostituirebbe a quello che è stato sconfitto. Al di là che lo si voglia o no, riproporrebbe la stessa identica logica prevaricatrice che aveva spinto a ribellarsi.
Ecco allora che l’uso eventuale della violenza come mezzo di opposizione deve mantenere meramente la caratteristica della necessità di difendersi dai soprusi e le sopraffazioni. Non può che essere inteso come una triste necessità. La qual cosa dovrebbe escludere di usarla come determinante strategica, cioè di concepirla come lo strumento principe per abbattere militarmente i poteri dominanti. La logica militare, per sua natura, si fonda sulla supremazia della forza, che è una caratteristica della volontà di dominio.

Qualsiasi ribellione?

Da diversi anni, ogni volta che ne ho l’occasione, mi sforzo di sostenere e dimostrare che l’anarchia è nella sua essenza antiviolenta, cioè si fonda sul ripudio della violenza. L’anarchismo esiste e agisce per realizzare un’alternativa sociale che si autoregoli attraverso liberi accordi e liberi patti, escludendo per principio da questa autoregolazione l’uso di mezzi violenti e d’imposizione. Per pervenirvi accetta, quando ne identifica la possibilità e la necessità, di usare la violenza per difendersi e per rendere inoperante quella del potere vigente. Ma il suo scopo principale e ideale è quello di pensare e agire per eliminarla il più possibile, in tutte le sue forme, dai modi di gestire le relazioni tra gli esseri umani. Anche quando sceglie di usarla è perciò sorretto dall’etica di limitarne l’uso, quando conviene, alla necessità di difendersi.
Per tutto ciò l’anarchismo non abbraccia l’ideologia nonviolenta, che è il rifiuto della violenza anche per difendersi, mentre è eticamente antiviolento, cioè la ripudia come mezzo di regolazione sociale.

Questi sono i presupposti di riferimento, la luce teorica che ci dovrebbe guidare nelle scelte per un cammino coerente. Ma calandoci nell’oggi, per capire come comportarsi con sguardo disincantato, non ci si può non rendere conto che le possibilità di risposte violente per esprimere la volontà di ribellione sono sempre più difficili da scegliere, almeno per chi vuole che siano efficaci e possano un minimo colpire nel segno. Negarlo vuol dire partire dalla convinzione assiomatica, se non addirittura dogmatica, che qualsiasi ribellione in sé va sempre bene indipendentemente che riesca nel suo intento o fallisca, che l’atto stesso della rivolta rappresenti una vittoria degna di una fede cieca. Questo è uno sguardo romantico rivolto esclusivamente all’atto eroico del ribelle; è una mitizzazione che non vuole occuparsi del senso delle cose.

In Russia e in Cina, per esempio

La certezza che oggi le ribellioni violente risulterebbero con grande probabilità inefficaci ai fini di un’autentica emancipazione, è data dal dato storico che è venuta meno la prospettiva che per più d’un secolo aveva illuso i fautori delle rivoluzioni insurrezionali. Decenni di esperienze postrivoluzionarie fallite ci hanno messo di fronte alla consapevolezza che, una volta abbattuto o preso il potere dopo aver sconfitto le oligarchie dominanti, nulla è affatto scontato sulla riuscita di ciò che si andrà a costruire. Proprio là dove l’insurrezione violenta generalizzata ha vinto, come in Russia e in Cina, solo per fare gli esempi più macroscopici, si è messa in piedi una situazione sociale che è risultata per molti versi peggiore della precedente.
Proprio l’esperienza storica, in cui guarda caso le istanze libertarie sono sempre state schiacciate e messe da parte (questo fatto dovrebbe portare a meditare a fondo coloro che si sentono anarchici e rimangono fanatici di svolte insurrezionali), ci dice che il problema più importante da focalizzare e su cui concentrare i propri sforzi non è quello della ribellione e dell’abbattimento del potere, ma quello della costruzione fin da ora dell’alternativa. Ciò che dovremmo cominciare ad aver ben chiaro è che la preoccupazione fondamentale dovrebbe essere quella di predisporre le condizioni immaginarie, culturali e psicologiche generalizzate per sapere, perlomeno idealmente, ma anche un minimo sperimentalmente, per che cosa si insorge e si combatte e, soprattutto, che cosa s’instaurerà nel caso la ribellione andasse a buon fine. Oggi sappiamo, o dovremmo sapere, che senza questa chiarezza di prospettiva ogni tentativo di opposizione radicale, violento o no, è destinato a fallire e ad essere sconfitto, o dal nemico o dalle proprie stesse carenze.
Ho spesso l’impressione che non tutti i compagni abbiano chiaro quale sia il significato profondo e coerente dell’anarchia e dell’anarchismo, in particolare che confondano, seppur in perfetta buona fede, gli strumenti e i mezzi con gli scopi e il senso. Che cioè ci sia chi ritiene che l’essere anarchici risieda innanzitutto nella volontà di ribellarsi, che la caratteristica principale dell’anarchismo sia la capacità di suscitare e scatenare insurrezioni contro i poteri costituiti.

Sacrosanta refrattarietà

Se è vero che un carattere che ci distingue risiede nell’essere innanzitutto refrattari ad ogni imposizione dall’alto, è però altrettanto vero che questa sacrosanta refrattarietà non si risolve nel manifestare sempre e comunque l’aggressività della propria irriducibile opposizione. Se non si tien conto dei danni che possono derivare da un atteggiamento di costante rivolta, al di là e contro tutto e tutti perché comunque è sempre tutto marcio, senza porsi il problema di come riuscire efficacemente a indebolire gli effetti prevaricatori del potere, si finisce per offrire la propria testa su un piatto d’argento e favorire, involontariamente, la continuità di ciò che si vorrebbe abbattere.
L’anarchismo è prima di tutto rifiuto dell’autoritarismo politico, che pretende che la società non possa che esser governata da elite di comando. È una scommessa che si prefigge di realizzare la libertà piena nella pur necessaria gestione politica, proponendosi nella forma dell’autogestione sociale, cioè di non usufruire di strutture di comando, di governi dall’alto, di gerarchie. Siccome non sarebbe possibile senza il concorso e l’apporto di tutti, il suo compito primario è quello di fare ipotesi progettuali, di mettere in piedi sperimentazioni alternative, di agire nel tentativo di coinvolgere e convincere che funzionerebbe e che sarebbe sensata e appetibile perché migliore della condizione di non libertà che ora subiamo. La ribellione anche violenta, quando se ne presenta l’opportunità, è uno dei mezzi possibili per riuscire a superare la situazione di subordinazione vigente. Ma confonderla con l’unica strada percorribile, fino ad elevarla al fine cui tendere, è un errore imperdonabile, perché vuol dire non aver compreso che è solo un mezzo, come ogni altro relativo alle condizioni storiche in cui si agisce.
L’anarchia si realizza soltanto se si è concordi nel volerla. Non può né essere imposta, perché sarebbe al contrario una dittatura, né messa in piedi e portata avanti da un’elite con la pretesa di agire per conto di tutti gli altri, perché rappresenterebbe, magari inconsapevolmente, la creazione di una nuova oligarchia. In nessuna maniera può essere conquistata da una minoranza che voglia egemonizzare la maggioranza. Qualsiasi cosa la riguardi, per la sua stessa ragion d’essere, deve diventare patrimonio collettivo dell’insieme sociale. Così quando si scatena una ribellione liberante contro l’oppressione dei poteri costituiti, da un punto di vista anarchico non può che esser di popolo, mentre non può in alcun modo essere opera di gruppi minoritari che agiscano per conto proprio, magari in forme più o meno autodichiarate informali, erigendosi in modo autoreferenziale a portavoce o, peggio, a conduttori dei bisogni degli oppressi che pretenderebbero di rappresentare.

Andrea Papi