Leggendo quanto scrive Antonio Cardella sullo scorso numero (349) della rivista, Una situazione grave, molto grave, non posso che trovarmi d’accordo: in questa situazione anomala, che sembrerebbe preludere non al consueto e periodico rimescolamento di carte del potere e delle istituzioni, quanto, piuttosto, a un inasprimento delle norme repressive e ad uno stravolgimento di quelle regole della convivenza civile senza le quali non sarebbe più possibile parlare di libertà, si rende necessario, per noi anarchici, dare più concretezza alle nostre affermazioni di principio. Altrimenti, limitandoci alle semplici enunciazioni, ci troveremmo davvero, come dice il compagno, ad “abbaiare alla luna”. Insomma, è ormai chiaro che per la nostra sopravvivenza come forza sociale, si debba cercare di rafforzare in modo continuativo e dialettico il rapporto con la società, nel suo insieme e con quanti ancora operano in una prospettiva di sostanziale estraneità dal regime che si sta affermando nel paese.
Ha perfettamente ragione Cardella, quando afferma che ci stiamo dimenticando, e non del tutto involontariamente, di agire come in passato quando, di fronte all’affermarsi del fascismo, si “cercarono alleanze con quelle forze che, pur non essendo anarchiche, nutrivano aspirazioni libertarie e antifasciste”. Parole sacrosante ma che per tanti aspetti oggi difficilmente possono essere messe in pratica. Dove sono, infatti, quei fratelli Rosselli o quel Piero Gobetti con i quali collaborò organicamente Camillo Berneri? E dove sono i Calamandrei, i Salvemini, i Lussu, i Galimberti e mettiamoci anche i Pertini, compagni di strada che pur partendo da posizioni che qualcuno potrebbe definire con semplicistica sufficienza “istituzionali”, seppero però opporre la loro dignità e il loro agire al fascismo montante, contribuendo a sconfiggere, non solo sul piano materiale ma anche e soprattutto su quello morale e culturale, la dittatura?
Riacciuffare il bandolo della matassa
Insomma, un certo isolamento del movimento anarchico nella società è un dato di fatto, e anche se non sono solo nostre le responsabilità – la pochezza del panorama politico che si muove in quella che dovrebbe essere l’area della sinistra ci dice come sia sempre più difficile trovare situazioni accettabili – resta pur sempre un problema oggettivo che dobbiamo assolutamente risolvere. Occorre insomma ricominciare a muoverci senza nasconderci dietro al fatto che di “compagni di strada” credibili e coerenti ne sono rimasti pochi, e riconoscere una certa nostra incapacità, o mancanza di volontà, di “dissipare le diffidenze che si nutrono nei nostri riguardi” (e vorrei dire anche e soprattutto le diffidenze che noi nutriamo nei confronti dell’universo mondo).
Con pazienza, ancora più di quanto tanti di noi stanno già facendo, dobbiamo riacciuffare il bandolo della matassa, quella organizzativa (come strumento e prefigurazione della società che auspichiamo) e quella della diffusione delle idee, e rimettere in gioco, con orgoglio, la validità del pensiero anarchico. Ripensare alla centralità dell’anarchismo, riportare il pensiero anarchico, in tutta la sua ricchezza e attualità nel mezzo della vita sociale, ristabilendo un clima di relazioni e di scambio paritario con ciò che sta all’esterno, senza la presunzione di credere che l’anarchico sia l’unico legittimato a combattere il potere costituito, senza pensare di avere la verità in tasca, senza quella inconfessata e frequente vocazione minoritaria che nasce da una malriposta interpretazione del radicalismo, che spesso ha accompagnato la nostra storia, anche la più recente.
La demenziale bombetta ammaestrata
Insomma, pensare che per affermare la nostra identità si debba essere contro tutto e tutti, orgogliosi del proprio splendido isolamento, mi sembra l’ingombrante retaggio di un passato nel quale la guerra per bande fra le ideologie rendeva, se non necessario, almeno costruttivo riproporre su basi ideologiche il nostro agire antiautoritario. Direi che oggi le cose siano cambiate, eppure si fa ancora fatica a comprenderne appieno le modalità. E purtroppo lo vediamo ogni volta che si cerca di ridurre la ricchezza del pensiero, dell’agire e dei valori anarchici a comportamenti ai limiti del masochismo – ce ne dispiace per le conseguenze repressive – o alla demenziale bombetta ammaestrata messa, se non da un “poliziotto” come spesso capita, da qualcuno convinto di dover riproporre ad uso delle telecamere e delle gazzette l’immagine minacciosa o folcloristica (a seconda dei punti di vista) dell’anarchico tutto d’un pezzo, impavido ed estremo baluardo della libertà.
Dobbiamo accettare il fatto che la battaglia contro l’autorità, se è una nostra prerogativa, non può essere, al tempo stesso, una sorta di monopolio, come se solo noi ne avessimo il diritto morale: la società, per fortuna, è infinitamente ricca di stimoli libertari e solidaristici, che vengono espressi non ideologicamente ma spontaneamente e nella pratica della lotta quotidiana. E sta a noi interpretarla senza griglie ideologiche. È soprattutto a questo che dobbiamo riferirci, e se in effetti la componente più costruttiva del movimento si confronta dialetticamente con la società, resta pur sempre latente, a parer mio, una sorta di pensiero non detto che ci fa ritenere che, alla fine della giostra, sia il nostro l’unico metodo di lotta corretto e produttivo.
Ciò che dobbiamo proporci e alla cui realizzazione dobbiamo sempre più indirizzare la nostra attività, sia di lavoro militante che di propaganda, è che il pensiero anarchico possa diventare un patrimonio diffuso e pervasivo della società e che i suoi valori possano essere palpabili e condivisi: la società anarchica, semmai riusciremo a vederla, sarà una società di gente normale, poco barricadiera e ancor meno radicale, indifferente ad affermazioni di principio roboanti e dirompenti ma attenta ai valori della solidarietà, dell’uguaglianza e del reciproco riconoscimento. Basti pensare alla rivoluzione spagnola nel 1936, ai contadini andalusi e aragonesi o agli operai catalani, a quelle comunità nel loro complesso e non solo alle avanguardie più combattive: interi villaggi e intere fabbriche animate da un popolo che aveva capito che l’anarchismo non solo era possibile, ma era anche auspicabile, perché migliore di qualsiasi altra forma di organizzazione sociale.
Ecco, è qui che dobbiamo ritrovare, se proprio necessario, quel senso di superiorità morale e intellettuale che non origina dalla “maschia” radicalità del nostro agire ma, più semplicemente, dalla consapevolezza che è più facile costruire una società di liberi ed uguali partendo dal basso, assieme ad individui finalmente coscienti delle proprie capacità e consapevoli dei propri obiettivi.