Sebbene io sia convinto che le vicende che attraversano le organizzazioni formali della nostra classe siano compiutamente comprensibili solo se poste in relazione allo stato del conflitto sociale e che chiudersi nel dibattito interno a questa o a quella organizzazione sia un errore di notevole portata ritengo anche che non se ne possa del tutto prescindere se si vuole sviluppare una riflessione empiricamente fondata dello stato del movimento sindacale.
È, infatti, innegabile che, a partire dalla metà degli anni ’80 lo sviluppo di movimenti di lotta extrasindacali prima e del sindacalismo alternativo poi ha costituito un importante punto di riferimento per la nostra azione e riflessione e che non appare eccessivo affermare che il sindacalismo alternativo costituisce una parte rilevante della sinistra sociale.
Se quanto ho affermato è vero, ne consegue che limiti, difficoltà, crisi del sindacalismo di base sono oggetto di un inevitabile interesse da parte di compagni e compagne sia che siano direttamente impegnati sul terreno sindacale che anche se hanno un interesse teorico e pratico a questa esperienza.
Tra “teorici”
e “pratici”?
Questa situazione determina, a mio avviso, una conseguenza forse inevitabile ma che va tenuta presente, non siamo osservatori esterni in grado di leggere una serie di situazioni senza esserne coinvolti dal punto di vista soggettivo ma siamo parte del processo che analizziamo con l’effetto che passioni, identità, sensibilità entrano in gioco almeno quanto pesa la dimensione più freddamente analitica.
A questo proposito, mi è avvenuto qualche settimana addietro che un compagno con il quale ho una regolare frequentazione sia sul piano politico e culturale che su quello sindacale mi facesse rilevare che, per quanto riguarda l’attuale discussione pubblica in area libertaria sullo stato del sindacalismo di base, io tendo a non proporre un’ipotesi forte, ma mi trovi a replicare a compagni e compagne che propongono una critica radicale del sindacalismo di base realmente esistente in nome di un approccio realistico pragmatico che mi appartiene certo, ma nel quale altrettanto certamente non si risolve il mio punto di vista generale.
In altri termini, si sarebbe instaurato un meccanismo circolare del quale anch’io farei parte, da una parte compagni e compagni certamente autorevoli e assai più di me preparati dal punto di vista teorico che dimostrano quali e quante siano le contraddizioni del sindacalismo di base esistente e indicano la via per un sindacalismo veramente rivoluzionario e libertario e, dall’altra, chi tiene botta facendo rilevare le difficoltà ed i limiti dell’attuale conflitto fra le classi e il fatto che i sindacati, anche i più radicali, non sono l’orda d’oro.
Un ennesimo caso, dunque, di divisione di posizioni e ruoli fra “teorici” e “pratici”?
Ritengo che leggere in questo modo la discussione in corso sarebbe ingeneroso o quantomeno riduttivo nei confronti di coloro che la animano, di tutti coloro che la animano.
Innegabilmente, infatti, i “teorici” hanno forme proprie di azione pratica e i “pratici” quali chi scrive una qualche idea del dove intendono andare a parare e di ciò che effettivamente fanno pure l’hanno.
È allora, forse il caso, di provare ad affrontare alcune questioni fuori dei meccanismi già ampiamente sperimentati. Quanto segue è solo un parzialissimo tentativo in questa direzione.
In primo luogo, mi pare evidente che i termini della discussione in corso non sono nuovi o, almeno non sono particolarmente nuovi ed anzi ritornano più o meno negli stessi termini da almeno una decina di anni. Proprio quest’invarianza meriterebbe forse di essere valutata più a fondo.
Il “moderatismo” dei sindacalisti
Come mai, a fronte di una situazione sociale in veloce evoluzione, avviene un fatto del genere? Provo ad accennare a due possibili spiegazioni.
- una più legata alla nostra soggettività militante, probabilmente all’inizio degli anni ’90 molti avevano posto aspettative eccessive nel sindacalismo di base e, a fronte della relativa modestia dei risultati ottenuti, vi sarebbe una crisi di rigetto, un disamoramento con tutte le conseguenze del caso e in primo luogo il ritorno alla ricerca della purezza identitaria. Questa deriva coinvolge diversi compagni passati per una qualche forma di militanza sindacale che ritengono di dover fare i conti con questa esperienza o comunque compagni che al sindacalismo di base hanno guardato con attenzione e simpatia e modificano il loro orientamento;
- una più legata al quadro storico sociale, almeno in Italia, ma non solo, a fronte di una situazione sociale per molti versi disastrosa siamo di fronte ad una passività altrettanto disastrosa della working class, passività che rende plausibile la tesi che una sua riorganizzazione sindacale prima che impossibile sia inutile. Cosa cambierebbe, infatti, se lavoratori atomizzati e passivi passassero in misura più rilevante dell’attuale dai sindacati istituzionali a quelli di base? Evidentemente nulla con le conseguenze del caso.
In questo quadro riprende forza l’idea che è necessario in primo luogo e, al limite, esclusivamente rivendicare con forza una progettualità radicale e rivoluzionaria, cosa che un sindacato certo non può fare compiutamente per l’evidentemente contraddizione che ciò comporterebbe visto che, organizzando dei lavoratori in quanto tali, non potrebbe certo assumere una posizione rivoluzionaria in nome di lavoratori che rivoluzionari non sono.
Sarebbe facile obiettare a chi sostiene questa tesi che nessuno impedisce ai compagni ed alle compagne di rivendicare la propria specifica identità libertaria e che, anzi, la presenza di vivaci organizzazioni sul terreno di classe è una condizione favorevole anche all’azione politica rivoluzionaria.
Ma se questa tesi, apparentemente ragionevolissima, non soddisfa diversi compagni, dobbiamo domandarci quale sia la ragione di questa insoddisfazione.
Proverò a formulare alcune problematiche risposte nella speranza che stimolino una riflessione più ampia ed approfondita.
Da più parti si rileva che la pratica sindacale è assorbente, richiede cioè un impegno ed un energia tali che chi vi si dedica non ha tempo e disponibilità per occuparsi d’altro. In altri termini, il neosindacalismo degli ultimi decenni avrebbe sottratto compagni e compagne, risorse, energie al movimento specifico impoverendolo in luogo di arricchirlo.
Per di più, la pratica sindacale tenderebbe a favorire un approccio ai problemi per molti versi moderato sia perché i “sindacalisti” si devono relazionare a gruppi di lavoratori non particolarmente sovversivi che per la natura stessa dell’attività sindacale realmente esistente che prevede la ricerca di soluzioni ai problemi, accordi, contrattazioni et similia.
Infine il sindacalismo per quanto radicale riprodurrebbe meccanismi tipici della divisione sociale del lavoro che combattiamo con il formarsi di apparati, specialisti, gruppi dirigenti.
Non pretendo, ovviamente, di aver riassunto in maniera adeguata il punto di vista dei critici del sindacalismo di base realmente esistente ma solo quanto ne ho compreso e mi pare rilevante.
È interessante rilevare che fra i sindacalisti libertari che frequento queste critiche sono ampiamente note e, per dirla tutta, paradossalmente condivise.
Ma l’amor mio non muore
Qualcuno potrebbe, a questo punto, porre la domanda brutale: se siete consapevoli di vivere dentro una dimensione contraddittoria, perché non sciogliete questa contraddizione liberando voi stessi da impegni gravosi e lo scenario sindacale da un equivoco?
Si potrebbe rispondere ad una domanda del genere con una battuta classica e cioè affermando che “l’amor mio non muore” ma, sebbene una tesi del genere contenga una rilevante quota di verità visto che le scelte politiche sono determinate anche da una dimensione emotiva, sarebbe riduttivo.
In realtà il sindacalismo libertario assume la contraddizione non come limite, falsificazione delle sue premesse, sconfitta ma esattamente al contrario come condizione della sua esistenza e del suo sviluppo.
Per dirla con più chiarezza che discrezione, una pratica propriamente sindacale libertaria a mio avviso si fonda sull’assunzione delle relazioni sociali dominanti così come effettivamente si danno come terreno sul quale agire individuando nel loro svolgersi quei punti di contraddizione che possono favorire lo sviluppo di forme di autorganizzazione sociale, azione diretta, autonomia di classe.
Non pretende di essere essa stessa l’autorganizzazione di classe, sa bene di esprimere una minoranza militante ed è, a rigore, una minoranza agente come la tradizione del sindacalismo d’azione diretta definiva i nuclei di lavoratori più attivi e combattivi.
È, insomma, un percorso fra altri non “il percorso” e come tale andrebbe valutato.