dibattito
Bruciare il tricolore? O no?
di Daniele Ferro
Il 4 novembre 2009, a Torino, nel corso di un’iniziativa anarchica contro la Festa delle Forze Armate, è stata bruciata una bandiera italiana.
La cosa ha avuto un certo risalto nei mass-media. Per quel fatto sono stati denunciati alcuni manifestanti.
Un lettore ci ha inviato l’intervento che pubblichiamo qui sotto: secondo lui, si è trattato di una stupidata, perdipiù controproducente. Per favorire il dibattito, abbiamo fatto leggere il suo scritto ad altri compagni e compagne, alcuni dei quali ci hanno inviato il loro contributo. Li potete leggere in coda.
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«CESARE – Ma come la farete questa rivoluzione, se siete quattro gatti?
GIORGIO – È possibile che siamo solo in quattro. A voi giova sperare, ed io non voglio togliervi una così dolce illusione. Vuol dire che ci sforzeremo di diventar otto e poi sedici… Certamente il nostro compito, quando non vi sono occasioni di far meglio, è quello di far la propaganda per riunire una minoranza di uomini coscienti che sappiano quello che devono fare e che siano decisi a farlo» [p.118, Dialoghi sull’anarchia, Gwynplaine edizioni, 2009. Corsivi miei].
Queste battute fanno parte di un dialogo che Errico Malatesta scrisse nel 1914.
È passato quasi un secolo e alcuni anarchici non hanno ancora capito che la comunicazione è il primo aspetto da tenere in considerazione per la costruzione di una società anarchica.
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disegno di Roberto Ambrosoli |
L’anarchismo
e l’opinione pubblica
Alla fine di ottobre, siccome la redazione mi aveva spedito qualche copia in più di “A”, sono andato in una libreria di cui sono cliente: «Posso proporvi di esporre una rivista?» – «Certo». Quando ho iniziato a spiegare di che rivista si trattasse, la ragazza mi ha gettato addosso uno sguardo tra l’imbarazzato, il ridicolo e il timoroso. Ma sono uscito dalla libreria poco dispiaciuto, perché sapevo già come sarebbe andata a finire.
Ancora oggi, l’anarchico è visto come l’attentatore, il violento.
Se i cittadini hanno un’idea distorta degli anarchici un motivo ci sarà. Se tralasciamo il fatto che la nostra storia sia taciuta e che gli anarchici siano vittime di una campagna diffamatoria che forse ha avuto il suo apice nell’arresto di Valpreda dopo la strage di piazza Fontana, il motivo è che alcuni anarchici compiono azioni che incutono paura. Non ai “padroni”, cosa che sarebbe ovvia – visto che loro sbiancherebbero al solo pensiero di una società senza autorità quale noi desideriamo – ma ai semplici cittadini.
Cioè sono gli stessi anarchici, perlomeno alcuni, gli agenti della propria infamia.
Siccome i cittadini, non per colpa nostra, hanno paura o perlomeno sospetto verso gli anarchici, sarebbe opportuno non tirarsi pure la zappa sui piedi. Sarebbe opportuno fare – e non fare – il possibile affinché i cittadini capiscano che «anarchia non vuol dire bombe ma giustizia, amor, libertà», come canta “La ballata del Pinelli”.
Fiamme stupide
Credo che bruciare la bandiera italiana – come è stato fatto a Torino il 4 novembre per denigrare la fascistoide “Giornata delle Forze armate e dell’Unità nazionale” – sia un gesto stupido, cioè poco intelligente: di lì a poco, chi come me si fosse connesso alla pagina on-line de la Repubblica, avrebbe letto la notizia nelle brevi. Naturale.
Ho voluto approfondire, consapevole che «anarchico» è un’etichetta che i mezzi di comunicazione pinzano addosso alle persone con troppa faciloneria. Purtroppo era vero: su Indymedia Piemonte si leggeva che «qualche anarchico, senzapatria e disertore di tutte le guerre, ha voluto ricordare con una fiamma i massacri che ieri come oggi vengono fatti sventolando la bandiera bianca rossa e verde. Fuoco al tricolore! No a tutte le guerre! No a tutti gli eserciti!».
Io sono diventato anarchico a poco a poco: tra l’altro, ho mosso i primi passi anarchici proprio scendendo in piazza per dire no a tutte le guerre.
Rido (e piango) se qualcuno prova a tessermi le lodi della “patria”.
Mi viene il nervoso solo a vedere una mimetica.
Mi scende il latte alle ginocchia quando sento la voce retorica del Quirinale.
Ma mai mi sognerei di bruciare il tricolore. Perché so che sarebbe non solo inutile, ma anche controproducente.
Vorrei chiedere all’anarchico che ha bruciato la bandiera a che cosa siano servite quelle fiamme (eccetto l’apertura di un’indagine da parte della Digos, ma anche questo era largamente prevedibile).
Forse per avere visibilità? E allora proviamo a smettere i panni degli anarchici e ad indossare quelli del cittadino “qualunque”. Come considereremmo quel gesto? Probabilmente penseremmo che è il sintomo di una volontà di violenza. Come molti, poveretti, credono ancora che fumando una canna si finisca col bucarsi d’eroina, così bruciare la bandiera potrebbe essere considerato il primo passo per attentare alle istituzioni.
O forse chi ha bruciato la bandiera crede davvero che la violenza sia un modo per arrivare alla società anarchica (in tal caso, a mio parere sarebbe rimasto fermo a poco più dell’Ottocento).
Non so darmi altre possibili spiegazioni: o la visibilità o la violenza.
Mi si dirà: ma perché bruciare la bandiera sarebbe un atto di violenza, a chi fa male? Non fa male a nessuno fisicamente, ma sentimentalmente sì.
Se qualcuno mi dice che anarchia è merda, è come se mi stesse dando un pugno. E così accade per chi, in buona fede (non facciamo quelli che considerano i non anarchici degli idioti) prova affezione per il tricolore. Non perché sia nazionalista, ma perché – ne sparo una qualunque – sin da bambini ci viene detto che quella bandiera rappresenta gli italiani. Perché il sentimento nazionale non significa più, per la maggioranza dei cittadini, ostilità nei confronti delle altre nazioni: il tricolore è semplicemente – anche se stupidamente – un simbolo di identità.
M’è balenata una terza ipotesi. Forse quel gesto è stato un impulso, un impeto che ha portato a non pensare cosa sarebbe successo in seguito (la pubblicazione della notizia, il probabile “oh ma che palle questi anarchici” degli italiani, la denuncia). E vabè, in tal caso la faccenda sarebbe chiusa perché tutti combiniamo cazzate.
Però sono più propenso a credere che invece sia stato un gesto ben consapevole.
Un atto che, tra l’altro, ha coperto una fantasiosa trovata degli stessi anarchici torinesi: prima che venisse bruciato il tricolore avevano inscenato «un plotone di soldati caricati a molla» (ancora da Indymedia).
Ripensare
la “propaganda”
Io lo slogan non l’ho cantato perché ho 25 anni, ma so che una volta si diceva «la fantasia al potere». Ecco, noi il potere non lo vogliamo, mettiamoci almeno la fantasia.
Perché dovremmo discutere seriamente, compagni, su cosa ne vogliamo fare di questa anarchia.
Vogliamo vivercela per sempre in solitudine, o se va bene in quattro gatti (neri)?
Vogliamo aspettare che le persone si innamorino dell’anarchia per caso (come è successo a me: per caso ho scoperto questa rivista e così – insieme alle manifestazioni di piazza – sono diventato anarchico)?
Oppure crediamo che l’anarchia sia l’evoluzione dell’umanità, ma che questa evoluzione vada raggiunta sulla continua spinta di chi anarchico ed anarchica lo è già?
Non sono il solo a credere che difettiamo gravemente nella comunicazione.
Dario Scella, sul numero estivo, scriveva che «da qualche anno […] si sta rischiando di perdere di vista questo punto fondamentale: il sapersi adattare ai tempi e alle situazioni, per comunicare meglio con le persone».
E nel numero di novembre Marco Gastoni affermava che «il nostro movimento fatica a raccogliere energie all’esterno».
Ne dovremmo discutere seriamente, compagni. Con fantasia.
Perché la società è in sempre più veloce cambiamento, e così – al di là delle ottime pubblicazioni, quali questa rivista e quelle delle varie case editrici libertarie – devono cambiare i nostri metodi di “far la propaganda”. Che è il nostro compito fondamentale, ammoniva Malatesta.
Altrimenti, come poesiava splendidamente Francesca Dipierro nel numero di ottobre, finiremo «nella nostra solitudine di chi parla e piange al muro, di chi muore con un ideale».
Sarebbe bello diffonderlo quell’ideale, prima di morire.
Daniele Ferro
(Urbino)
l’opinione di... |
Valentina |
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Perché bruciarlo ha (molto) senso |
Cahier d’un retour (impossible) au pays natal. |
E molte aurore ancor non sono aurora gveda |
Parigi, 1939
L’Europa va alla guerra –i suoi cieli oscurati dalle bandiere- lo sterminio degli Ebrei è ancora lontano, e sconosciuto. Con la solitaria veggenza dei grandi poeti, Aimée Césaire (1) pubblica il suo Diario di un ritorno al paese natale: la ribellione che cova nel petto di generazioni di schiavi negri deportati nelle piantagioni del Nuovo Mondo trova la propria espressione più creativa. Come pugni felici le decine di sorprendenti neologismi che manipolano una lingua fino allora d’oppressione – il francese – voltandola nel suo opposto: Césaire inventa una parola nuova per chi non può più parlare quella degli avi – troppo tempo, troppe galee, nel frattempo – né vuole piegarsi a quella, senza memoria, del colonialista. Una terza possibilità, una ribellione dalla secolare schiavitù che non faccia semplicemente appello alle radici, ad origini perdute (come scriveva Michel Foucault (2) il racconto di un’origine è sempre una teogonia, sta dalla parte degli dei, in un immaginario mattino del mondo, “prima della caduta”) che unificano nell’atto stesso di separare da quanti, egualmente oppressi, non le condividono geograficamente e politicamente (nel senso primario dei confini), ma un balzo in avanti, la creazione di una lingua per una comunità nuova, che conservi la memoria dei viaggi – di tutti i viaggi- forzati.
Sono le catene, le galee, gli insulti e lo scudiscio dello schiavista, le tempeste che lasciano in mare migliaia di corpi senza nome, i ricordi del paese che, con la distanza, perdono definizione diventando struggenti sinestesie a ri-coniugare le parole nella penna di Césaire e a prendere corpo in una lingua senza patria, perché è la lingua del viaggio: come se per la prima volta si desse ascolto non tanto al prima – un passato felice – né al poi, sommamente infelice, di schiavi, ma a ciò che sta tra la partenza e l’arrivo. Césaire è noto per l’invenzione della parola négritude, ma il suo neologismo più bello è un altro, ed è intraducibile. In un altro poema, una lettera aperta all’amico Depestre, che rimprovera per l’adesione acritica alla linea del Partito Comunista Francese, esortandolo domanda:
marronerons-nous Depestre, marronerons-nous?
Nella nostra lingua esiste «marrone», ma niente di più inadatto a tradurre il verbo césairiano. La “marronizzazione” (il meticciamento, o la creolizzazione) non è un colore comune, uniforme, non è un’identità, non ha una bandiera. L’antropologo Geertz Clifford (3), uno dei migliori eredi contemporanei della scuola dei Cultural e Post-colonial Studies ha tentato di ricostruire la formazione del verbo marroner… Lo spagnolo cimarron (selvaggio) deriva dall’antico ispanico cima: la sommità di un monte, un luogo, anche, in cui nascondersi se si sta fuggendo. Da qui l’inglese maroon, cioè lo schiavo che fugge. Di nuovo, il riferimento è alle fughe degli schiavi africani che, quando le galee giungevano in vista delle Antille, spesso si sollevavano e fuggivano. Si buttavano in mare, e nuotando disperatamente, rischiando gli squali, l’inedia, gli scogli, i flutti feroci dell’oceano, a volte raggiungevano un’isola nuova, dove vivevano da uomini liberi. Scampati al naufragio sperimentavano una libertà inusuale, non solo dallo schiavista, ma pure, paradossalmente, dalle proprie vecchie origini. Ecco dunque, a mio parere, l’unica traduzione possibile dell’incitazione di Césaire all’amico Depestre:
“dimmi, Depestre, scapperemo, scapperemo-come-schiavi-in-fuga-verso un’isola-nuova?”
Scapperemo dai francesi che ci hanno sequestrati, noi e i nostri avi, per generazioni, persino dalla loro lingua; dalle catene dei padroni che ci hanno imprigionato le menti prima che i corpi
(…) e il negro fustigato che dice “Scusa padrone”…Guardate, sono abbastanza umile? Ho abbastanza calli alle ginocchia? (4)
Ma, ancora..scapperemo anche dai nostri falsi miti identitari, che certamente ci hanno permesso a volte, nelle difficoltà, di restare in vita, e che però, poiché ciò che ci unì nel dolore, ora ci divide, rischiano di incatenarci più che le galee?
Rifiuto di presentare i miei gonfiori/ Come autentiche glorie./ E rido delle mie antiche puerili ossessioni. No, non siamo mai stati amazzoni del re Dahomey, né principi del Ghana con ottocento cammelli, né dottori a Timbuctu mentre era re Askia il Grande, né architetti di Djénné, né Madhis, né guerrieri. Noi non ci sentiamo sotto l’ascella il prurito di coloro che una volta tennero la lancia. E poiché ho giurato di non nasconder nulla della nostra storia, voglio confessare che siamo stati in ogni epoca lavatori di piatti abbastanza meschini, lustrascarpe senza importanza, nel migliore dei casi, stregoni abbastanza coscienziosi e il solo indiscutibile primato che abbiamo battuto è quello della resistenza alla frusta (5).
Césaire sa bene di toccare un punto dolente, e di rischiare l’impopolarità; sa che la lingua degli avi, i loro miti, i costumi, la storia e persino un certo qual concetto di nazione, e di gloria nazionale, benché mai esistiti davvero (ogni tradizione è una tradizione inventata, per rubare un’espressione felice allo storico Eric Hobsbawm) sono stati un importante serbatoio di resistenza, durante i secoli della schiavitù. Ma ciò che è servito forse a resistere, come un’arma a doppio taglio, diventa poi un ostacolo per la creazione di un mondo radicalmente nuovo, un’altra autorità da disertare dunque, senza nostalgia: Césaire sa che ogni patria, perduta, immaginata, sognata, ogni nazione, coi propri miti fondativi, è principio di oppressione e di esclusione di coloro che, pur dividendo le stesse galee, non condividono le medesime tradizioni inventate. No, non siamo mai stai amazzoni del re Dahomey… e dunque, e ancora, marronerons, marronerons-nous?
Atene,
V sec. a.C., circa
La città sta cambiando irreversibilmente, l’idea di una patrios politeia, e di una polis-culla della civiltà e della democrazia è ormai in crisi. Per alcuni inizia a farsi strada l’incontestabile certezza che le guerre persiane e la paura dei “barbari” siano state solo un alibi per la politica spregiudicata e imperialistica di Pericle, mirante in realtà alla mera egemonia sulle altre città greche. Tra loro Euripide, l’ultimo e il più oscuro, per biografia e critiche, dei grandi tragediografi greci. È Medea, una delle sue tragedie più note e ripercorse dalla letteratura e dal cinema nei secoli a venire, la seconda tappa del nostro viaggio immaginario fuori da ogni patria.
La storia è nota: Giasone, eroe greco, per riconquistare il trono di Corinto deve impossessarsi del vello d’oro, la pelle di un montone dalle virtù magiche custodito dal padre di Medea, re di una terra lontana. La donna si innamora follemente di lui, e travolta dalla passione, lo aiuta nell’impresa tradendo ogni affetto, inganna il padre, fa uccidere il fratello, e infine abbandona la sua terra e scappa con l’amato. Ben presto questi la tradirà: promesso sposo ad una donna più conveniente, perché greca, abbandonerà Medea, che sconvolta dalla rabbia non esiterà ad uccidere i figli avuti con lui, per darsi, infine, di nuovo alla fuga, sul carro del Sole, stavolta verso una destinazione sconosciuta.
Medea non è greca. È un’orientale che ha per parenti femmine pericolose almeno quanto lei (sua zia è la maga Circe, quella che trasformava gli uomini greci in porci ed altri prosaici animali). I suoi dei, i suoi costumi, i suoi sacrifici, persino i suoi sentimenti, così smodatamente eccentrici rispetto al “giusto mezzo” aristotelico, non sono quelli di Giasone. Essa è fin dal principio destinata, per questo, a subire il tradimento (6) (è il vecchio “mogli e buoi dei paesi tuoi”…) e a consumare la tragedia. Non può restare nella vecchia patria: per passione l’ha tradita, e tradito la famiglia. Di nuovo un viaggio, per mare. Ignoto e speranza. Poi la delusione. Infine, respinta dalla nuova patria, un’altra partenza. Apparentemente i Greci furono un popolo molto ospitale, di artisti e filosofi. Parlavano una lingua complessa e precisa. Talmente ospitali che la parola xenìa, cioè ospitalità, apparteneva alla medesima sfera semantica di xénos, straniero. Dunque straniero ed ospitalità come facce di una stessa medaglia. Avevano addirittura un emblema, un suggello materiale dell’ospitalità, il symbolon, da cui il nostro “simbolo”, dal verbo sum-ballo, “metto insieme”: si trattava di un coccio che il padrone di casa, alla partenza dell’ospite straniero, divideva in due parti, tenendone una per sé e l’altra donandola al viaggiatore;in questo modo, anche a distanza di anni, rincontrandosi, si sarebbero riconosciuti, facendo combaciare le proprie metà.
Già, peccato che xenoi, stranieri in questa accezione, fossero soltanto i greci di altre città. Agli stranieri per davvero, i non-Greci, era riservato un altro nome: barbaros. Questo derivava da un’onomatopea, cioè da una presa per il culo: alla lettera, il barbaro era quello che faceva bar bar, emetteva suoni ridicoli e incomprensibilmente lontani dall’aurea parlata ellenica.
Medea era una “barbara”, dunque, e non uno “xena”: nessuna ospitalità poteva essere riservata ai suoi modi così diversi, così stranieri. Euripide, il tragico che vive con disagio i mutamenti storici e sociali della propria città, in cui l’esaltazione patria e democratica prende le forme ambigue e “proto-mediatiche” della sofistica e dei processi per ateismo (7), e che non esita, anche lui, a disertare la patria negli ultimi anni della sua vita, accogliendo l’invito di Archelao, re di Macedonia, sa che non è ancora il tempo che la storia di una barbara possa finir bene….
Torino,
intorno al 2 novembre, 2009
Avrei potuto anch’io citare Malatesta, quello lucidamente critico dell’ideologia della patria (e di ogni sua bandiera), che ben conosceva la pervasività a livello dell’immaginario di certi simboli, o quello straordinariamente problematico e meravigliosamente ironico del ’22….la gente vuole vivere il giorno della rivoluzione, ma pure il giorno dopo… Ma ho preferito non farlo. Qualcosa di irresistibilmente vicino allo spirito anarchico – se ne esiste uno – mi ha sempre reso insofferente nei confronti dell’autorità, fosse anche quella delle fonti “giuste”. Hanno sempre rappresentato, per me, un modo facile di chiudere la partita con gli interlocutori, un modo antipatico di definirsi più anarchici degli altri, ma soprattutto ho sempre trovato le fonti giuste (non in sé e per sé, beninteso, ma citate in un certo modo) terribilmente noiose. Noiose come tutti i padri, della patria, delle idee o delle Rivoluzioni (e anche di famiglia). I padri, quelli buoni, non vanno citati, ma traditi cioè, secondo la duplicità originaria del termine, tradotti. Nel presente, e preferibilmente senza troppe virgolette.
Ci sono cose che non sono mai cambiate nella sostanza pur nelle mille metamorfosi subite attraverso i secoli. Una di queste è la funzione dell’amor di patria, catalizzato dalla bandiera nazionale, almeno da quando hanno cominciato ad esistere gli Stati-nazione. Quando ho passato un pomeriggio intero a cercare la bandiera per poterla bruciare insieme il giorno della festa delle forze armate, e ho fatto fatica a trovarla, a tardo pomeriggio, in un posto sperduto all’estrema periferia della città, dove le strade cominciano a non essere più asfaltate, ho pensato che forse, negli italiani, di amor patrio ne era rimasto ben poco. La legge del mercato, della domanda e dell’offerta, sembrava non lasciare dubbi: pochi la chiedono, pochi la vendono.
Non è così. Di fronte alle crisi, le persone tornano ad aggrapparsi a un sentimento molte volte indistinto, talaltre apertamente razzista, di disagio, insofferenza, colpevolizzazione, demonizzazione dello straniero. Le fabbriche chiudono. È colpa della Cina e dei suoi tarocchi! Non c’è lavoro. È colpa degli immigrati, troppi! Le strade fanno schifo e non esco volentieri, la sera: sono i rumeni ubriachi e stupratori, o gli islamici, che appena si bevono una birra… Quando le cose vanno male improvvisamente ci sentiamo italiani, italiani contro qualcun altro (per la verità anche quando le cose vanno molto bene cioè ai Mondiali di calcio ma solo se la Nazionale vince). Nella disinformazione generale, e in un disinteresse spesso collettivo, ci dimentichiamo di tutto, anche di noi pochi decenni fa, di chi eravamo, e di quanto stranieri fossimo per gli altri. È la solita storia. Dell’amor di patria, e della sua bandiera, che serve a mascherare il principio di ogni governo: lo sfruttamento. Questo, da che Malatesta ne scrisse, non è mai cambiato. Se la mia fosse una lettera “giusta”, adesso dovrei aggiungere che lo Stato della bandiera bruciata stringe accordi con un dittatore africano per riprendersi gli immigrati che non vuole, e per metterli in sordidi lager ai margini del deserto dove, nati nell’anonimato, tornano per morire senza nome. Dovrei aggiungere che questo è lo Stato dei respingimenti al largo di Lampedusa – non gli scogli di Argo, o quelli lavici delle Antille, ma le spiagge del Salento – che questo è lo Stato che continua, nel XXI secolo, a mandare soldati in cerca del posto fisso a uccidere e depredare e violentare e, a volte, a farsi uccidere pure loro, per qualche euro in più a fine mese, e che sul supposto eroismo di questi supposti martiri da sempre imbastisce interessi e stringe accordi di tutt’altra natura. Che questo è lo Stato dei CIE, e che è stato fascista e poi, da un giorno all’altro, ha indossato vestiti democratici puliti senza nemmeno aver finito di lavarsi. Che è lo Stato delle Stragi dello Stato, e degli omicidi dello Stato. Ma la maggior parte di queste cose, che causano struggimento e rabbia, e che dobbiamo continuare a ricordare, ogni giorno, non distinguerebbero il mio da un discorso schiettamente democratico, forse anche, persino, onestamente liberale. E infatti, il punto, il cuore, non è in tutte queste cose: perché se per assurdo potesse esistere uno Stato “giusto” resterebbe anche allora, come tale, ingiusto, e inaccettabile. Non esiste una patria buona, perché non esiste un’identità collettiva, fissa, rigida, che debba valere per tutti, che sia buona. Essa è, immediatamente, falso principio di esclusione e di separazione. E falso perché, sotto i panni dei costumi, delle leggi, dell’amor patrio comune a certi e diverso da quello degli altri, resta la vera sostanza comune: che qualsiasi governo non è che lo strumento dei padroni, per asservire e depredare la “maggioranza laboriosa”, per gustare i frutti del lavoro altrui, sempre estorto, a maggior ragione quando non ce n’è o ce n’è poco. La patria continua, oggi, a dividerci. Ci sono galee italiane e galee africane, o cinesi, o indiane, o rumene. Ma sono galee, e sono catene.
E noi dobbiamo ancora spezzarle, e ancora prendere il largo. Anche questo è bruciare, nel 2009, la bandiera. Certo il gesto, da solo, non basta. Ma le persone che si sono trovate in piazza, quella sera, per come e quanto possono, battono le strade, i giorni e le notti, parlano con le persone, le più svariate, a volte è un mercato abusivo che vogliono sgomberare, a volte un giro sui bus, per avvisare delle retate ai danni dei clandestini con la complicità dei controllori, a volte sono riunioni lunghe, quando si è tutti stanchi, per decidere il da farsi. E allora quel gesto vale qualcosa, vale di più. Il rischio della deviazione riformistica è sempre in agguato. A volte sono le biografie private di ognuno di noi a mettercelo davanti, le difficoltà quotidiane, un po’ di stanchezza, un po’ di paura per sé e per il proprio futuro: ed ecco il rischio, pensare che si potrebbe anche continuare a pensare nello Stato, nella logica dello Stato, della patria, per migliorarla, da dentro.
Bruciare la bandiera ricorda da dove veniamo, e dove vogliamo andare, anche se spesso sembra la più lontana delle isole. E ci ricorda che ormai siamo in mezzo al mare, e stiamo nuotando, e non ci è più possibile, il “ritorno al paese natale”, e che non lo vorremmo, per ciò che è stato ma pure per ciò che sarebbe, anche se fosse un paese “buono”, sappiamo che “No, non siamo mai stati amazzoni del re Dahomey, né principi del Ghana con ottocento cammelli, né dottori a Timbuctu mentre era re Askia il Grande, né architetti di Djénné, né Madhis, né guerrieri”. E per quei molti, che provano ancora un certo confuso senso di sacralità, di fronte alla bandiera, una forma di feticismo, come un riflesso incondizionato, è’ la “voce del padrone” che, sinuosa come un’ideologia prende, tra le altre, ancora questa forma, per far dire, come allo schiavo di Césaire “Guardate, sono abbastanza umile?”.
Abbiamo ancora bisogno di fare molte cose. Forse anche troppe. Ma bruciare il tricolore è ancora una di queste, perché Noi non ci sentiamo sotto l’ascella il prurito di coloro che una volta tennero la lancia. E poiché ho giurato di non nasconder nulla della nostra storia, voglio confessare che siamo stati in ogni epoca lavatori di piatti abbastanza meschini, lustrascarpe senza importanza, nel migliore dei casi, stregoni abbastanza coscienziosi e il solo indiscutibile primato che abbiamo battuto è quello della resistenza alla frusta (8).
Un marrano.
Valentina
p.s. Va bene che non esiste il decalogo dell’anarchico perfetto, ma tra le cose che non si possono dire, perché non si possono nemmeno pensare, è che la denuncia per vilipendio sia “prevedibile”, qualcosa che ci si potrebbe “aspettare”. Bruciare una cosa, anche se è un simbolo, è, in questo paese, un reato penale, punibile fino a due anni. A volte più che far male ad un essere umano. Non è violento, questo, non è stupido?
Note
- Aimée Césaire fu un intellettuale martinicano. Una delle sue opere più influenti, il Cahier cui faccio qui riferimento, cominciato a scrivere nel 1935, fu rifiutato da diverse case editrici, prima della pubblicazione. Abbandonata Parigi per la Martinica si dedica all’insegnamento in un liceo locale, e Frantz Fanon sarà uno dei suoi allievi. Egli rappresenta l’ala più radicale, creativa e surrealista della négritude, termine da lui stesso inventato per battezzare la nascita di un movimento d’emancipazione culturale e politica dal colonialismo. Nel 1956, a causa di profondi ed insanabili contrasti sulla politica coloniale e non solo, esce dal Partito Comunista. La sua opera resta ancora oggi, in Italia, da leggere e scoprire.
- Michel Foucault, in Micfrofisica del potere, “Nietzsche, la genealogia, la storia”, Einaudi, Torino 1977.
- Geertz Clifford, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
- Aimée Césaire, Diario di un ritorno al paese natale, Jaca Book, Milano 1978 (orig. Cahier d’un retour au pays natal, ed. Présence Africaine, Paris 1956).
- Op.cit.
- Di mirabile modernità i versi dal 536 al 544, in cui Euripide, apertamente schierato dalla parte dell’infanticida straniera, mostra l’arroganza “elleno centrica” di Giasone, che rinfaccia all’amante di averla strappata ad una terra barbara per portarla nella civiltà…
- Tra gli altri, il grande filosofo pre-socratico Anassagora era stato condannato per ateismo al rogo delle sue opere.
- Op.cit.
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Andrea Papi |
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Il rispetto delle differenze |
Condivido pienamente l’articolo di Ferro.
Aggiungerei soltanto che le bandiere, come tutti i simboli, hanno più significati. Per esempio il tricolore è usato anche dai partigiani. In più è un simbolo del Risorgimento, quindi in origine nacque come simbolo di rivendicazione di libertà dall’occupazione straniera. Bruciarlo non vuol dire, come stupidamente s’illudono i bruciatori di bandiere, dispregio alle forze armate, ma rinnegamento di tutta una storia molto complessa e piena di significati contradditori e ambigui. Lo stesso vale per qualsiasi bandiera nazionale, compresa quella d’Israele e quella palestinese, ecc..
Fra l’altro la bandiera rappresenta la nazione, cioè l’identità del popolo, non lo stato che la fa sua. Bruciare la bandiera, che lo si voglia o no, rappresenta un disprezzo verso dei sentimenti, criticabili finché si vuole, ma componenti degli individui che vi si riconoscono, non un rinnegamento di istituzioni. E gli anarchici hanno sempre rispettato i sentimenti, anche quelli che contrastavano, proprio in nome del rispetto delle differenze. Per questo è una pratica che in tempi recenti cominciò ad essere usata dagli autoritari di destra e di sinistra, in particolare stalinisti e fascisti, cioè da chi vuole eliminare le bandiere degli altri per poi imporre le sue con la forza.
Non credo sia possibile annoverarla tra le pratiche di protesta anarchica, anche se ci sono, oggi, diversi che si autodefiniscono anarchici, com’è nel loro diritto (anche se c’è anche il diritto di sottolinearne l’incoerenza da parte di altri che si considerano anarchici, com’è per esempio il mio caso e quello di Ferro), che scimmiottano questa pratica autoritaria illudendosi, penso, di essere dei duri e puri della lotta contro il potere.
Andrea Papi
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Carlo Oliva |
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Un simbolo ambiguo |
Il tricolore italiano, a pensarci, è uno strano oggetto. Nasce come simbolo di indipendenza, ma sul modello della bandiera di una potenza occupante. Viene riesumato dopo la Restaurazione come vessillo repubblicano e rivoluzionario, ma è adottato da un re in cerca di gloria dinastica e diventa presto l’emblema della monarchia. Ha sventolato sulle barricate e alla testa degli eserciti mandati a rimuoverle, per reprimere i moti degli operai e le rivolte dei popoli. È stato, in altre parole, simbolo insieme degli oppressi e degli oppressori. Se ha incarnato qualche caratteristica tipicamente italiana, sono state soprattutto quelle dell’ambiguità ideologica e dell’opportunismo, e in questo senso molti – troppi – dei nostri concittadini vi ci possono riconoscere.
Certo, è possibile che qualcuno, oggi, a quella bandiera sia sinceramente affezionato e si senta offeso quando la vede oggetto di oltraggi e vilipendi. In segno di rispetto della sua buona fede, sarebbe forse conveniente non darla alle fiamme. Io, probabilmente, mi sentirei a disagio a partecipare a un’azione del genere, anche per paura di venire confuso con leghisti o consimili ceffi, ma è anche vero che ormai sono anziano e dalle manifestazioni che non siano puramente verbali mi tengo alla larga. E poi temo che il principio non possa avere un valore assoluto né essere assunto come norma di comportamento generale, a meno di non voler ricadere nell‘opportunismo di cui si diceva. Se si vuole manifestare in pubblico un qualsiasi valore, bisogna rassegnarsi a dispiacere a chi non lo condivide. Dopotutto, esistono fascisti in buona fede, clericali in buona fede, militaristi in buona fede e via andare e il rispetto sempre dovuto alle persone non si estende di necessità ai simboli che inalberano. Da questo punto di vista, anzi, è sempre meglio bruciare un simbolo che rompere una testa. Si correrà il rischio, magari, di venire fraintesi e di veder strumentalizzati i propri gesti, ma sono rischi, questi, che non sempre è possibile evitare.
In fondo, che quella bandiera, che noi non abbiamo scelto, ma ci è stata imposta dagli eventi, rappresenti anche noi, in quanto componente coesa della comunità nazionale, è un’ipotesi tutta da dimostrare. Personalmente, non sopporto le bandiere neanche allo stadio, figuriamoci alle parate militari e sulle caserme. Il che non vuol essere, intendiamoci, un invito a metter mano a benzina e cerini: di ogni gesto va valutata l’opportunità tattica, la convenienza caso per caso. Ma questo è un altro discorso.
Carlo Oliva
l’opinione di... |
Tobia Imperato |
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La ricerca del piacere |
“P erché ci sputo sopra alla bandiera sputo sopra all’Italia tutta ‘ntera” (1)
“Sin da bambini ci viene detto che quella bandiera rappresenta gli italiani. Perché il sentimento nazionale non significa più, per la maggioranza dei cittadini, ostilità nei confronti delle altre nazioni: il tricolore è semplicemente – anche se stupidamente – un simbolo di identità”.
Non so che farmene di questa identità, rappresenta solo truppe d’occupazione carabinieri e bombardieri.
Il tricolore in verità, dopo la nascita della repubblica, non è mai stato un simbolo amato dall’italiano medio, che solitamente se ne sbatteva e non portava mai la mano sul cuore nell’udire l’inno di Mameli. Solo con l’avvento al governo dei post-fascisti aggregati al carrozzone berlusconiano ci sono stati reiterati tentativi di rilancio del sentimento nazionale. Come fa fede la vergognosa campagna pubblicitaria “Grazie ragazzi!” indetta in occasione dell’ultimo 4 novembre dal ministro della difesa fascista La Russa.
Non comprendo quindi – nemmeno da un punto di vista meramente utilitaristico (inimicarsi la simpatia del pubblico) – il motivo della presa di posizione di Daniele, quando in realtà a provare emozione per il tricolore non è “la gente” ma solo una minoranza patriottica, molto distante da ogni idea di libertà ed emancipazione.
Non ho partecipato, per motivi di lavoro, alla bella iniziativa della FAI torinese, anche se ho al mio attivo militante almeno un pubblico rogo di tricolore. È logico quindi che condivida pienamente e consapevolmente questo tipo di azioni.
Trovo veramente stupefacente (O tempora! O mores!) dover dibattere su un foglio anarchico un simile argomento per me scontato (se sia lecito o meno per degli anarchici dare alle fiamme una bandiera nazionale) soprattutto con un giovane di 25 anni, età in cui si dovrebbe veramente fare fuoco e fiamme o, come diceva Bakunin, avere il diavolo in corpo.
Mi sembra di capire che quello che angustia Daniele non sia un problema etico, bensì di errata comunicazione all’esterno.
Legittimo, anche se, a mio parere, molto male impostato.
Prima di tutto vorrei sgombrare il campo da equivoci e ambiguità. Che c’entrano la violenza e le bombe con uno straccio bruciato?
Non esiste alcuna correlazione tra violenza (che si compie sugli esseri viventi) e atti dimostrativi (che si compiono su oggetti inanimati). Sebbene nella nostra storia vi siano stati anarchici non-violenti (molto pochi) non mi risulta che vi siano mai stati anarchici non-brucianti.
Lo stesso Daniele si rende conto di averla sparata un po’ grossa, tanto da cercare di giustificarsi:
“E allora proviamo a smettere i panni degli anarchici e ad indossare quelli del cittadino “qualunque”. Come considereremmo quel gesto? Probabilmente penseremmo che è il sintomo di una volontà di violenza. Come molti, poveretti, credono ancora che fumando una canna si finisca col bucarsi d’eroina, così bruciare la bandiera potrebbe essere considerato il primo passo per attentare alle istituzioni”.
Siccome qualcuno, poveretto, crede che fare sesso faccia male alla vista, gli anarchici dovrebbero astenersene?
Siccome qualcuno, poveretto, crede nel paradiso dopo la morte, gli anarchici dovrebbero andare in chiesa a pregare?
Siccome qualcuno, poveretto, crede che si possa cambiare la società con una crocetta su una scheda, gli anarchici dovrebbero votare?
Siccome qualcuno, poveretto, crede che la polizia difenda i cittadini, gli anarchici dovrebbero amarla?
Siccome qualcuno, poveretto, crede che ci siano guerre giuste, gli anarchici dovrebbero sostenerle?
Siccome qualcuno, poveretto, crede che zingari e immigrati creino insicurezza, gli anarchici dovrebbero arruolarsi nelle ronde padane?
Come si vede questo ragionamento (il sentire comune della gente) non ci può portare da nessuna parte.
E non ho nessuna intenzione di “smettere i panni degli anarchici e ad indossare quelli del cittadino “qualunque” perché, come diceva Benjamin Pèret, “Je ne mange pas de ce pain-la” (2).
Ma quello che preme a Daniele è che simili azioni possano intaccare l’immagine degli anarchici quali bravi ragazzi, per bene, educati, che aiutano le vecchine ad attraversare la strada…
Se la gente ci pensasse così allora sì che, sempre secondo Daniele, saremmo milioni e milioni e non quattro gatti.
Gli anarchici, come il resto degli abitanti del pianeta, sono essere umani con diversità di temperamento e comportamenti infinita e, in ogni caso, maggiore a quella di ogni altro raggruppamento politico. Logico, visto che la loro teoria si fonda sulla libertà quale valore principale.
Non esiste non è mai esistito e mai esisterà – per fortuna – un comportamento unico e omologato nel vivere e praticare l’anarchismo. Da sempre questo è lasciato alla sensibilità di individui e gruppi.
Se Daniele (e coloro che la pensano come lui) giudica sconveniente bruciare bandiere è libero di agire secondo coscienza, ma questo non significa che tutti gli anarchici ci si debbano uniformare.
Ovviamente, gli anarchici non avendo leggi e regolamenti, si affidano al dibattito delle idee per affinare strategie e codici comportamentali, che non diventano mai un dogma per tutti ma sono riconosciuti come tali solo da chi li ha liberamente accettati.
Per questo motivo accolgo la “provocazione” di Daniele, confutando il suo modo di vedere.
“Se qualcuno mi dice che anarchia è merda, è come se mi stesse dando un pugno. E così accade per chi, in buona fede (non facciamo quelli che considerano i non anarchici degli idioti) prova affezione per il tricolore”.
Caro Daniele, non puoi mettere sullo stesso piano l’ideale anarchico e la retorica patriottarda. Sono due elementi tra loro incommensurabili.
Ricordo un episodio che lessi in gioventù e che mi è rimasto impresso, anche se non ne rammento la fonte esatta. Primi anni del secolo, Parigi, cimitero di Père Lachise, immensa manifestazione popolare per ricordare i morti della Comune. La polizia vuole impedire l’ingresso della bandiera nera. Gli anarchici si scontrano con le vaches (come venivano dispregiamente definiti gli sbirri) per passare nonostante il divieto. Ci riescono. E quando finalmente il nero vessillo varca la soglia del cimitero, viene gettato al suolo e tutto il corteo ci passa sopra allegramente.
Questo è uno splendido esempio di azione anarchica. Pronti a battersi per difendere la propria bandiera e pronti nel medesimo tempo a calpestarla per affermare il principio che per gli anarchici nulla è sacro, nemmeno i propri simboli. “Troverò sempre abbastanza persone disposte ad associarsi con me senza prestare giuramento alla mia bandiera (Max Stirner)”.
Come puoi vedere, caro Daniele, se anche noi anarchici abbiamo una bandiera, per noi è solo un drappo che ci distingue dagli altri, serve solo a farci riconoscere, ma resta semplicemente quello che è: un pezzo di stoffa senza altri significati che trascendano l’aspetto identificativo (3).
“Se qualcuno mi dice che anarchia è merda” non me ne importa il classico fico secco, ma sono disposto a rischiare il carcere pur di poter sempre gridare a voce alta Viva l’anarchia.
L’azione degli anarchici non è mai messianesimo ed evangelizzazione, altrimenti saremmo simili ai Testimoni di Geova (e ugualmente insopportabili).
È vero, si fa la cosiddetta propaganda per far conoscere all’esterno le nostre idee nella speranza di riuscire a raggiungere la coscienza di persone che al momento anarchiche non sono.
Ma se l’impegno anarchico si riducesse a questo sarebbe solamente una noiosa routine, priva di gratificazioni.
Una componente, spesso trascurata, dell’azione anarchica è la ricerca del piacere, qui e ora. Piacere che si può trarre dalla consapevolezza di non essere in alcuna misura complici dei misfatti del potere, dal vivere una vita diversa improntata sui valori della libertà e dell’uguaglianza, dai rapporti con i compagni basati su parametri all’opposto di quelli della società del dominio e dello sfruttamento, nel fare un giornale un manifesto o un volantino, nell’organizzare un evento (assemblea, manifestazione, conferenza, comizio, concerto o festa) e soprattutto – cosa paventata da Daniele – nell’attacco alle istituzioni. Attacco che non è necessariamente violento (anche se non è da escludere) ma a volte molto più penetrante perché va colpire proprio lì dove il potere cerca di incalanare il sentire della gente per impedire una presa di coscienza generale: la retorica patriottica, l’oscurantismo religioso, l’acquiescenza totale ai valori dominanti.
Ed è quindi proprio in queste situazioni che lo sberleffo anarchico si fa sentire. Alla faccia di tutti i nemici della libertà.
Daniele si preoccupa per un’innocente fuocherello, ma sappiamo fare di peggio. Edoardo Massari, il giovane anarchico eporediese morto suicida in carcere nel 1998, durante un’occupazione simbolica del municipio di Caluso, col tricolore ci si era pulito il culo (4). A Torino, tempo fa, ignoti “travailleurs de la nuit” libertari si sono divertiti a segare alcune teste brunzute del recente monumento ai caduti di Nassirya facendo infuriare Digos, ROS e autorità varie (5). Fantasia contro il potere.
Non basta esporre al balcone una bandiera arcobaleno per contrastare la guerra, ogni tanto serve dare qualche sussulto alle acque stagnanti di una contestazione ormai rassegnata. Ben vengano quindi queste azioni. Che il tricolore bruci in ogni piazza!
Questo non significa considerare “i non anarchici degli idioti”. Ma nemmeno uniformarsi alla canea urlante dei servi di ogni colore. Né servi né padroni.
Anche con le azioni esemplari si fa comunicazione, non solo con lo scritto. Il fascino della rivolta è un potente stimolante in grado di coinvolgere e far riflettere chi non è stato completamente lobotomizzato dai media.
Un’ultima cosa. Daniele scrive: “Oppure crediamo che l’anarchia sia l’evoluzione dell’umanità, ma che questa evoluzione vada raggiunta sulla continua spinta di chi anarchico ed anarchica lo è già?”
Ti devo contraddire. Anche se in passato è stato teorizzato, l’anarchia non è un’evoluzione dell’umanità. Non mi risulta che sino ad oggi vi siano stati progressi in questa direzione. L’anarchia è frutto di una libera scelta degli individui (6).
Vi sono momenti storici alti (come nel secolo passato è avvenuto in Spagna) in cui le idee anarchiche si sposano con la volontà generale. E in questo caso gli anarchici sono in grado di dare una lezione al mondo (7).
Non è colpa degli anarchici (e tanto meno dei loro atti) se la gente non si avvicina al nostro movimento. È che i nostri poveri e deboli strumenti di comunicazione non riescono a raggiungere un’umanità sempre più isolata (non esistono praticamente più luoghi d’aggregazione popolare) tesa – per quanto riguarda i paesi industrializzati – solo al soddisfacimento di inutili consumi.
Ma non disperare, Daniele. La storia può riservare delle sorprese e gli anarchici saranno sempre al posto che loro compete. Per adesso, godiamoci la ribellione.
Tobia Imperato
Note
- Da “E anche al mi’ marito tocca andare”, canzone popolare toscana dell’epoca della prima guerra mondiale.
- Cfr. Benjamin Péret, Non ne mangio di quel pane, Edizioni Gratis, Firenze, 1993.
- Questo non vuol dire che non mi piacciano le bandiere nere o rosso-nere (come quelle che compaiono nel bellissimo inserto pubblicato sul n. 337 della rivista Orgoglio e amore: bandiere anarchiche) ciò che intendo ribadire è che la bandiera anarchica, pur essendo un ottimo documento della passione libertaria, non presenta mai il connotato di sacralità che invece è attribuito alle bandiere nazionali attraverso ridicole cerimonie, quali alzabandiera tutti sull’attenti e stronzate del genere.
- Cfr. Tobia Imperato, Le scarpe dei suicidi, Ed. Fenix, Torino, 2003, pp. 118-119.
- Cfr. http://torino.repubblica.it/multimedia/home/7348824.
- “Anarchico è il pensiero e verso l’anarchia va la storia”, il celebre aforisma del repubblicano Giovanni Bovio, ha incontrato per molto tempo il favore degli anarchici. Lo stesso pensiero kropotkiniano, influenzato dal positivismo scientifico dell’epoca, si basa su questo determinismo. In controtendenza con la sua epoca Errico Malatesta ha sempre combattuto tale teoria, opponendole il volontarismo. Non un processo storico ma solo la volontà degli individui potranno realizzare l’utopia libertaria. La concezione malatestiana è ormai universalmente condivisa dagli anarchici odierni.
- “In un’intervista del 1999 Concha Liaño , che durante la guerra civile aveva fatto parte del gruppo Mujeres Libres, alla domanda se fosse valsa la pena di aver fatto la rivoluzione, rispose in lacrime: Io ti dico di sì. Abbiamo dato una lezione al mondo. Gli abbiamo dimostrato che si può vivere in collettività, mettendo in comune tutto quello che c’è. Che potevamo educare in piena libertà, senza castighi, i nostri figli, che potevamo godere della natura e istruirci nella cultura. Io ti dico di sì, lo abbiamo fatto per poco tempo, però abbiamo dato una lezione al mondo”, Enrico Acciai, La fine dell’utopia. Auge e crisi dell’anarcosindacalismo spagnolo, QF Quaderni di Farestoria, a. IX, n. 3, settembre/dicembre 2007, Pistoia, p. 24.
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