L’utopia anarchica
di Martin Buber
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Martin Buber |
La nostalgia per ciò che è giusto: questa è la definizione adoperata da Martin Buber per descrivere il manifestarsi del desiderio utopico nella storia dell’uomo e che possiamo ora leggere nelle pagine iniziali di Sentieri in utopia che, qualche mese fa, l’editore Marietti ha dato alle stampe, sotto l’eccellente cura di Donatella Di Cesare (suo è il saggio introduttivo: Buber e l’utopia anarchica della comunità).
Il libro apparve per la prima volta in ebraico nel 1947 e pochi anni dopo nella traduzione tedesca dello stesso Buber. Oltre all’attuale, in italiano esiste un’altra traduzione, uscita negli anni sessanta presso le Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti.
Il testo spiazza il lettore e lo fa in maniera fertile, proficua, sapendo condurre fuori dai percorsi abitualmente calpestati, dai paletti che erigiamo alla nostra capacità di oltrepassare il limite dato. A prima vista il libro si presenta come uno studio sul rapporto esistente tra utopia e comunità alla luce di alcuni grandi pensatori e di alcune significative esperienze del passato; quindi come un lavoro di tipo storico-politico. Ma fin dalle prime pagine è possibile cogliere un altro filone che alimenta con vigore la riflessione buberiana: quello profetico-religioso. Non solo, ciò che merita rimarcare è che i due aspetti non si trovano giustapposti, ma si richiamano in un dialogo costante dell’uno con l’altro.
Secondo Buber, studioso delle religioni, il compimento dell’esistenza e della creazione lo troviamo annunciato nella visione escatologica, vale a dire nell’individuazione di un fine ultimo per l'umanità e il cosmo. Detto questo, l’autore introduce una distinzione, per lui fondamentale: vi è un’escatologia profetica, alla quale ciascun individuo è chiamato a partecipare in modo attivo, così come c’è un’escatologia apocalittica, oggettivamente predeterminata e in cui l’uomo è considerato mero strumento di qualcosa che lo sovrasta. Se è vero che nel corso del tempo i lumi della ragione hanno svuotato (o cercato di svuotare) di senso l’escatologia proveniente dalle religioni, essa però non è defunta, ma viene ereditata, in altre sembianze, sotto forma secolarizzata. Da tale prospettiva il marxismo vuole riscattare la tradizione apocalittica, mentre tutta l’utopia libertaria si ricollega alle istanze profetiche.
Il termine socialismo utopistico, si sa, è stato coniato da Marx nel Manifesto del partito comunista per indicare un variegato gruppo di autori, da Saint-Simon a Fourier, da Proudhon a Owen, accostati per l'astrattezza delle loro formulazioni teoriche, ritenute poco attinenti alla realtà; a costoro veniva opposta la costruzione di un socialismo scientifico, basato su una analisi oggettiva della realtà socio-economica.
Nel corso di un convegno su “Utopia e profezia” svoltosi qualche anno fa a Roma, Mario Tronti, il padre dell’operaismo (una fra le correnti marxiste più interessanti degli ultimi decenni), definiva il tentativo di Marx di condurre il socialismo dall’utopia alla scienza, un tentativo generoso ma destinato al fallimento, in quanto la scienza si è rivelata alla fine nemica del socialismo ancor più dell’utopia. Oggi, di fronte al fallimento del socialismo reale, da una parte, e, dall’altra, alla crisi della ragione, con il riconoscimento dell’esistenza di diverse forme di razionalità, lo sguardo che ci propone Buber è una sorta di brezza benefica che scuote rispetto alla resa agli imperativi dell’esistente o all’esilio negli angusti anfratti della propria interiorità. La prospettiva utopica, comunitaria e dialogica di Buber è a un tempo un invito a una rivoluzione permanente della vita quotidiana, così come a una continua conversione al senso più profondo dell’esistenza.
Dopo i capitoli dedicati ai precursori, il volume tratteggia, capitolo per capitolo, le proposte comunitarie di Proudhon, Kropotkin e Landauer. Fortemente partecipate sono proprio le pagine dedicate a quest’ultimo, amico dell’autore, scomparso tragicamente nel 1919 durante il breve corso della Repubblica dei consigli bavarese (sul legame fra i due c’è un bel contributo nel volume collettivo L’anarchico e l’ebreo, pubblicato da Eleuthera qualche anno fa). Diversi motivi di Landauer li vedremo ripresi da Buber, a cominciare da quello della rivoluzione come irruzione del novum in un istante improvviso, vissuto nel qui e ora. O quello della necessità che la rivoluzione si faccia permanente, in grado cioè di stare in costante movimento, per non rischiare di diventare statica, stato. O, ancora, il riconoscimento della tonalità profetica che contraddistingue il Dio ebraico, il quale spinge il suo popolo all’esodo e alla rivolta, fino a raggiungere il suo acme nell’anno giubilare dove i debiti vengono rimessi, gli schiavi affrancati e la terra lasciata finalmente riposare (a questo proposito c’è, ad opera di Erri De Luca, un’interessante traduzione, seguita da commento, dei versi della Scrittura sacra che parlano di ciò: L’urgenza della libertà, Napoli, Filema, 1999).
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Gustav Landauer |
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Gershom Scholem |
La parte centrale del volume è invece dedicata ad un accurato esame delle posizioni di Marx e Lenin. Va sottolineata la profonda conoscenza di Buber dell’opera dei due autori: egli riesce a scavare fra le righe, confronta scritti, compresi quelli reputati minori, compara stesure, analizza epistolari, dimostrando quanto meno una competenza in materia ben superiore a tanta vulgata marxista-leninista. Ciò che emerge alla fine è la visione accentratrice dei due (certamente non identica l’una con l’altra e comunque sfiorata in più frangenti da esiti e dubbi: vanno riconosciute a Buber queste sottolineature), in cui i rivoluzionari di professione, il partito e infine lo stato socialista, s’impongono sulla rivoluzione sociale, sulla capacità di autorigenerazione delle cellule sociali. Il commento laconico di Buber: “Si può solo andare avanti, ma in nuova direzione”.
Come alternativa alla direzione indicata da Mosca viene proposta la strada offerta da Gerusalemme e dall’esperienza del kibbutz. Un tratto positivo del villaggio cooperativo ebraico sorto in Palestina è – secondo Buber – la modalità pratica, prima ancora che ideologica, per cui è nato. I diversi motivi ideali in esso rinvenibili (i classici del socialismo utopistico, il sistema comunitario russo noto col nome di artel, gli appelli alla giustizia sociale presenti negli insegnamenti biblici) appaiono con i caratteri della flessibilità, della plasticità, diventano stimoli che incoraggiano al lavoro pratico, non dogmi intangibili. Ricordiamo come Buber sostenesse che Israele doveva divenire una communitas communitatum, una federazione di esperienze sociali, ben attenta alle proporzioni fra decentramento e accentramento, usando quest’ultimo nella giusta dose, per quel tanto che le condizioni di tempo e luogo lo richiedevano. Il tutto nel riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti dei popoli arabo ed ebraico, quale base immediata per una trattativa che avrebbe dovuto portare alla costituzione di un’entità bi-nazionale.
Le cose, lo sappiamo, non andarono così, la direzione per Gerusalemme susciterà altre delusioni. Ma non era l’unico, Buber, a pensarla in quel modo, il suo sarà un pensiero che risulterà minoritario, lasciando comunque tracce e aperture al futuro. Siamo convinti che avrebbe fatto sue le parole dell’amico e collega Gershom Scholem, grande studioso della qabbalah e della mistica ebraica, il quale così scriveva nel 1946 ad Hannah Arendt: “La mia fede politica – se ve n’è una – è anarchica”. Sempre lo stesso autore (ma su tutto ciò cfr. di Scholem: Le prix d’Israel. Ecrits politiques 1916-1974, per le francesi Editions de l’éclat, uscito nel 2003) così annotava, anni prima, nel suo diario: “Il nostro obbiettivo principale: Rivoluzione! Rivoluzione totale! (…) Vogliamo la rivoluzione nell’ebraismo. Vogliamo rivoluzionare il sionismo e diffondere l’anarchia, ovvero l’assenza di dominio.” .
Federico Battistutta
Come ti “educo”
il Rom (e il Sinto)
È da poco uscito nelle librerie un ennesimo libro di Luca Bravi sulla storia dei Rom Si intitola Tra inclusione ed esclusione. Una storia sociale dell'educazione dei rom e dei sinti in Italia, Unicopli, Milano, 2009. Il volume, di grande rigore scientifico, attraversa il percorso storico dai campi di concentramento italiani riservati agli "zingari" fino alle schedature dei rom e dei sinti del 2007-2008, ricostruendo la storia e le teorie che portarono alle classi speciali per "zingari" nate nel nostro paese a metà degli anni Sessanta. Per info e per presentazioni del libro: Edizioni Unicopli, tel. 02 42 29 96 66, redazione@edizioniunicopli.it o luca.bravi@unifi.it.
Ne pubblichiamo qualche stralcio dal capitolo quarto (Il processo storico di tenuta a distanza degli “zingari”) e in particolare dal primo sottocapitolo (La costruzione dei “campi nomadi” in Italia. Storia di una ri-educazione di Stato).
Le vicende sociali e politiche italiane che portarono alla costruzione del “campo nomadi” come luogo specifico di vita per lo “zingaro” sono di per sé esplicative di una compartecipazione di più elementi al processo di ghettizzazione di un gruppo, oltre che del possibile legame esistente tra educazione, scolarizzazione e processi di esclusione sociale in ambito cittadino o nazionale. È opinione comune italiana che quei “campi” siano i luoghi di vita prescelti dagli stessi rom e sinti, perché “nomadi” e dunque desiderosi di risiedere in aree da cui spostarsi continuamente nel rispetto della propria cultura che li spingerebbe al “nomadismo”: ripulito dalla propria connotazione razziale e avvicinato al riferimento culturale totalizzante del bersaglio etnico, tale termine suona sinistramente simile a quell’“istinto al nomadismo” misurato dall’Unità d’igiene razziale del Reich.
L’immagine dello “zingaro culturalmente nomade” è poi rimasta una specificità della nostra nazione che ha fatto dell’Italia “il paese dei campi” (European Roma Rights Center, 2000), unico Stato europeo in cui si è scelto questo tipo di soluzione abitativa permanente, divenuta poi un ghetto, per i rom e i sinti. […] Nel Nord Italia e fino alla Toscana si è dato il via alla progettazione di campi costruiti all’estrema periferia delle città sul modello del “nomade di passaggio”: […] quello che fu costruito apparteneva alla sfera dell’immaginazione dei non zingari rivolta alla minoranza rom e sinti. […] Il passaggio dall’immaginato luogo di sosta temporanea per “zingari-figli del vento” ad area di permanenza definitiva per soggetti in carne e ossa etichettati genericamente come elementi di disturbo per la “pubblica sicurezza” si sostanziava di nuove pratiche abitative: le casette di legno edificate con materiali di risulta dagli stessi rom (a dirla lunga su quanto forte fosse il tentativo di riavvicinare quei luoghi alle condizioni di vita normale condotta in Iugoslavia) oppure l’ingresso dei container come soluzione pensata dalle pubbliche amministrazioni; […] Dovevano essere aree di passaggio, si sono trasformate in terreni in cui la transitorietà è divenuta di lunga durata in merito a una “questione zingari” percepita inspiegabilmente da decenni come “problema emergenziale” cui rispondere con misure temporanee che in realtà si contorcono su se stesse producendo sempre maggior ghettizzazione. […]
Nelle società del post-Auschwitz, abbandonati i riferimenti di stampo razziale, l’àmbito educativo e rieducativo di Stato ha assunto il ruolo di strumento per la progettazione del futuro dei gruppi “reietti” o catalogati globalmente come al di sotto dei parametri standard d’intelligenza e sociabilità. […] I campi diventavano rapidamente i luoghi entro cui i rom e i sinti dovevano vivere per forza. Il 28 gennaio 1990 era necessario il ricorso al Tar da parte di un rom residente a Olbia per dichiarare l’illegittimità dell’ordinanza comunale che prevedeva l’obbligatorietà per gli “zingari” di vivere nell’area di Colcò individuata dal comune per la permanenza di rom. [pp. 83-89]. Luca Bravi
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Lispector
La pubblicazione di questo libro, prima e unica traduzione italiana del romanzo di Clarice Lispector, Um sopro de vida, è stata possibile adottando la maniera “trasgressiva” o “piratesca” in cui viene proposta, dopo sei anni durante i quali non è rimasta intentata la canonica o, altrimenti detta, via “legale” senza però riuscire nello scopo.
Il desiderio era e resta quello di regalare al mondo una cosa bella, vera, autentica che il pensiero, le parole e la scrittura dell’autrice hanno saputo liberare.
Al di là di un esclusivo – ed escludente – genere, ma precisando interiori risonanze poetiche, che vanno dalla prosa alle forme teatrali e romanzesche, Clarice Lispector compone, in un’opera di assoluto valore letterario, il suo Soffio di vita. Per lei infatti, come ebbe a dire, “la letteratura è detestabile, è fuori dall’atto di scrivere”.
Il gesto politico che caratterizza la pubblicazione di questo libro è rimarcato nella distinzione fra costo e prezzo: costo materiale € 3,50, prezzo libero. Per richieste rivolgersi a cerutti-giorgi@bluewin.ch. |
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