Valerio Evangelisti, commentando, sul “Manifesto” di mercoledì 27 gennaio, le disavventure personali e giudiziarie dell’ex sindaco di Bologna, cita i versi che Olindo Guerrini, bolognese di adozione, dedicava, verso la fine dell’Ottocento, al corteo del primo maggio, solenne sfilata di lavoratori in cui “toccandosi le mani ognun di loro / cerca il vicin chi sia. / Se i calli suoi non vi segnò il lavoro, / quella è una man di spia”. Ora, si sa che il Guerrini di mestiere faceva il bibliotecario alla Università ed è dipinto dalle cronache d’epoca come il tipico bon vivant, un uomo amante delle grandi mangiate e delle serate in birreria con gli amici: difficilmente avrà avuto i calli alle mani, il che – naturalmente – non esclude che la sua adesione agli ideali del socialismo fosse sentita e sincera. Ma, in quanto poeta irrimediabilmente “minore”, non si lasciava sfuggire uno stereotipo che fosse uno e quello del lavoratore dalle mani callose e pure di animo eletto, tanto eletto da autorizzare i più seri dubbi sulla bona fides di chi i calli non ce li aveva, era appunto uno degli stereotipi più diffusi nella pubblicistica di sinistra di allora. E non solo di allora, d’altronde: ricordo che anni fa, quando ero in “Lotta continua”, un gruppo in cui gli operai, pur senza essere totalmente assenti, non erano certo più frequenti degli unicorni, vi ci si faceva un gran parlare di “centralità operaia” e della opportunità che fossero i lavoratori delle fabbriche a dirigere le lotte e l’organizzazione, che non sarebbe stata, forse, un’idea malvagia, visti i disastri combinati dagli intellettuali che effettivamente le dirigevano, ma come concetto, evidentemente, discendeva in linea diretta da quella intuizione ottocentesca.
Una morale nuova
Oggi, si sa, al primo maggio non si fanno più cortei, ma concerti, a nessuno verrebbe in mente di infiltrarvi una spia e di simili convincimenti non sentiamo più il bisogno. È giusto, in un certo senso, anche perché sono cambiati i modi di produzione e la composizione sociale del ceto dei produttori, ma non è obbligatorio sbarazzarci dei contenuti utili e positivi che pure in essi erano inclusi. Nello stereotipo delle mani callose, per esempio, si esprimeva, in modo ingenuo quanto volete, la necessità di conferire e riconoscere al lavoro manuale quella piena dignità che tutta la tradizione aristocratica e “umanistica” gli aveva negato per secoli. Come in quello, ad esso strettamente correlato, della superiore virtù del lavoratore, che veniva estesa, forse con troppa generosità, agli amministratori della cosa pubblica espressi dal movimento operaio, si celava l’esigenza di fondare, nell’auspicata società del lavoro liberato, una morale nuova, che superasse le ipocrisie e gli egoismi di quella tradizionale. Una volta accantonato il primo, si è scoperto che non era più possibile contare sul secondo, come si è visto a Bologna (ma prima ancora a Milano e altrove), e i risultati li abbiamo tutti sotto gli occhi. Certo, le accuse contro l’ex sindaco di Bologna, allo stato sembrano tutt’altro che provate, hanno l’aria, anzi, di essere state non poco gonfiate e non si può escludere (si deve, anzi, auspicare) che si dissolvano quanto prima come bolle di sapone, ma il problema, in questi casi, è soprattutto d’immagine e travalica le responsabilità e le situazioni personali. Con l’acqua sporca degli stereotipi si è finito con il buttar via il bambino dei valori e la sua mancanza si farà sentire sempre di più, specie nei posti, come Bologna, appunto, in cui con maggiore evidenza quei valori sembravano incarnarsi.
Sottilmente pretesco
È vero, d’altronde, che oggi come oggi la sinistra ha diluito parecchio la sua eredità operaia. Anzi, mi sembra d’aver capito che nel Partito Democratico quel malaccorto amministratore faceva parte della componente, diciamo, dell’ex Margherita, che al riformismo cristiano e non al pensiero socialista si ispira. La cosa, naturalmente, non ci deve né ci può consolare, non potendosi in alcun modo attribuire a quel filone una propensione maggiore che in quello laico all’interesse privato in atti di ufficio. Ma una osservazione in proposito lasciatemela fare: non sembra anche voi che alla base di tutto l’affaire (sempre senza dare per scontati i suoi sviluppi giudiziari) si percepisca una certa qual mancanza di laicità? Non vi pare che ci sia qualcosa di sottilmente pretesco nel comportamento di quei due personaggi e soprattutto in quello dell’uomo che, stabilita una relazione con una donna, la vuole accanto a sé anche come collaboratrice (la più stretta collaboratrice) sul lavoro e, una volta esauritosi il rapporto, non ce la vuole assolutamente più? Che è un modo, innanzi tutto, di confondere dei piani che dovrebbero, a scanso di equivoci, restare separati e apre la via, come s’è visto, a ogni sorta di iniziative malevole da parte degli elementi ostili, ma è anche una prova di come una parte della cultura cattolica di questo paese faccia parecchia fatica a inquadrare certe situazioni. Per qualcuno di loro, evidentemente, il rapporto uomo donna, al di fuori dello schema classico e auspicato del matrimonio con prole, meglio se abbondante, deve comunque trovare una formalizzazione sociale, a costo, verrebbe quasi da dire, di ripiegare sul modello del curato con la sua perpetua. Che sia un rapporto valido in sé, dotato di una sua autonomia valoriale e umana, è un’idea che in quegli ambienti fa fatica a passare. Per noi Bologna è il capoluogo di una tipica “regione rossa”, ma non dobbiamo dimenticare che vi ha esercitato il potere per secoli direttamente la Chiesa. Il Guerrini, che nel suo canzoniere dà parecchio spazio alla tematica anticlericale, non lo dimenticava mai.