Rivista Anarchica Online


lettere

 

Sono un anarchico volontario di Emergency

Come tanti anarchici detesto le etichette.
Però, dire “sono anarchico” non è un’etichetta, è uno stato mentale, è un modo di vedere le cose del mondo, è un modo di vivere se pure immersi nelle contraddizioni per via della società a cui si appartiene sotto l’occhio e il braccio forte dello Stato.
Così, anche appartenere a un’organizzazione non governativa non significa necessariamente avere appiccata addosso un’etichetta. Io lavoro come volontario per Emergency, sono uno di Emergency e sono pure anarchico. “Sono uno di Emergency”, significa che ne condivido i principi, gli obbiettivi e i mezzi utilizzati per realizzarli.
Sono anarchico e partigiano volontario di Emergency.
Credo fermamente che per realizzare la società che vorrei, libera, senza sopraffazioni, dove i diritti siano diritti di tutti e non privilegi di pochi, alla base debba esserci l’uguaglianza. Uguaglianza che nasce dalle tante diversità a seconda delle latitudini in cui si vive.
Libertà, uguaglianza e solidarietà, tre belle parole che non dovrebbero restare tali, ma attuarsi ovunque nella quotidianità di ogni individuo appartenente al genere umano. Il diritto a una vita dignitosa, non serve che stia scritto in qualche dichiarazione ufficiale, è un diritto naturale e universale, che si acquisisce venendo al mondo.
Come anarchico e volontario di Emergency, sono assolutamente deluso da questa italietta (ma non solo) che lascia che i propri rappresentanti-padroni deliberino nelle opportune sedi di finanziare o rifinanziare una guerra da cinquanta milioni di euro al mese, che sta devastando da troppi anni il popolo afgano.
Numeri di soldi utilizzati per creare altri numeri, questi ultimi però di morti, di feriti, di mutilati, di profughi (numeri che hanno o avevano una faccia). Guardiamo all’assurda e carnefice progressione annuale del costo della guerra, cominciata con 70 milioni di euro nel 2002 e che ne prevede 540 milioni nel 2009. Sono i numeri delle risorse per la guerra che l’Italia fa all’Afganistan. A quelli ostinati che volessero correggere la parola “guerra” con “missione di pace”, basti ammettere che quei soldi servono per mantenere operativi sul fronte afgano soldati corazzati e armati fino ai denti, carri armati, mezzi blindati, caccia-bombardieri, elicotteri da attacco, droni, tutti strumenti non propriamente “di pace”.
Si tratta di fondi e risorse che, se utilizzati correttamente, potrebbero risolvere qualche problema del popolo afgano e magari anche dei sudditi italiani.
La guerra, per sua stessa definizione, è la negazione di tutti i diritti dell’uomo. È l’affermazione del potere militare, del braccio armato del potere politico, socio e servo di quello economico. E poi, quell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana?
I “rappresentanti” dello Stato dovrebbero dargli ancora più peso di quanto possa fare un anarchico! E noi, cittadini italiani, la base della società? Dove è andato a finire il movimento contro la guerra?
Dobbiamo restare impassibili, indifferenti davanti a questa rappresaglia militare, a questa occupazione e soprafazione di un paese straniero, a questo omicidio plurimo e premeditato che ha già fatto almeno quaranta mila morti e migliaia di feriti, mutilati, profughi, vedove e orfani?
L’indifferenza è anch’essa complice di omicidio, quindi colpevole.
Una lettera che è uno sfogo di un anarchico volontario di Emergency.

Nicola Pisu
nicopisu@libero.it

 

Dibattito tricolore/Un (piccolo) gesto liberatorio

Ho letto con interesse (sul numero di febbraio), condividendone i contenuti e le ampie argomentazioni del marrano Valentina e di Tobia Imperato. Contrasto invece, con il punto di vista di Daniele Ferro condiviso da Andrea Papi che definisce bruciare le bandiere un gesto stupido (entrambi parlano di stupidaggine) che non rispetta, disprezzandolo, il sentimento di identità nazionale di un popolo.
L’identità nazionale, il cui simbolo è espresso dal patriottico tricolore, contempla l’accettazione di una sovranità imposta, rappresentata dapprima dal re sabaudo e in seguito dall’istituzione repubblicana. Il vessillo è stato sempre innalzato a capo degli eserciti che si fronteggiavano e si fronteggiano in battaglia.
La bandiera nazionale è esposta nei luoghi e sui palazzi del potere istituzionale, nelle caserme, nei campi militari di un esercito occupante, nei tribunali, nelle carceri e nelle scuole, come il crocefisso, dove si pratica l’educazione e la formazione tese all’ubbidienza e al rispetto delle regole imposte. Quale, dunque, riconoscimento del sentimento nazionale? Cosa significa? Unità di chi comanda con chi ubbidisce in una perfetta sinergia asimmetrica di sfruttati e sfruttatori? Ognuno al “proprio posto” nel rispetto reciproco?
Azzarderei, a questo punto, un’ipotesi sul sentimento visto che proviamo sentimenti diversi, che assumono talvolta segno opposto, di fronte alle stesse cose o situazioni. Perché c’è chi si reca alle parate militari e si esalta al garrire al vento del tricolore ed io invece, come altri, provo un sentimento di rabbia e ostilità? Mi diletta invece sentire recitare una poesia o ascoltare un brano musicale e provo piacere davanti ad un’opera d’arte mentre altri ne restano indifferenti.
Non è che per caso quello che noi chiamiamo sentimento non sia altro che un sistema percettivo-elaborativo afferente alla coscienza per cui ne diventiamo consapevoli date le nostre esperienze? Noi percepiamo ciò di cui abbiamo coscienza e quindi non fermandoci alla superficie dobbiamo penetrare il senso delle cose perché la conoscenza conseguentemente ci rende liberi.
Ma tornando alla questione che ha mosso questa riflessione, più in generale, l’analisi mi porta a considerare contradditorio da una parte sentir parlare contro il concetto di identità e poi, come in questa occasione, far riferimento al rispetto delle differenze di identità culturale (dell’amor patrio) il cui collante è il sentimento (di appartenenza) nazionale. Una nozione, a parer mio, da disertare se si vuole veramente creare i presupposti di un mondo radicalmente nuovo.
Io sto dalla parte di chi compie un piccolo, anche se insufficiente, gesto dimostrativo e dissacratorio, non violento, di negazione di ciò che simboleggia unità nella disuguaglianza politico-sociale.
Le azioni vanno colte nel loro contesto e situazione contingentemente diversa: bruciare la bandiera nazionale è da considerarsi un gesto liberatorio e liberante che anela alla libertà, negando il principio di identità di un’asfissiante cultura rappresentata dal tricolore nazionale.

Tommaso Bressan
(Forlì)

 

Said Rahman, sette anni

Lettera aperta in data 15 febbraio 2010 dell’infermiere capo dell’ospedale di Emergency a Lashkargah, dove arrivano i civili feriti nell’offensiva alleata contro al vicina città di Marjah. Anche bambini di 7 anni

Vergogna.
È quella che proviamo tutti qui all’ospedale di Emergency a Lashkargah, Afghanistan, dopo l’inizio dell’ennesima ‘grande operazione militare’, che ogni volta è la più grande...
Un profondo senso di vergogna per quello che la guerra, qualsiasi guerra, fa. Distruzione, morti, feriti. Sangue, pezzi di carne umana. Urla feroci e disperate. Non fa altro.
Ma qualcuno ancora pensa che sia un buon modo per esportare ‘pace e democrazia’.
In effetti la pace la stavano portando anche a Said Rahman, noto ‘insurgent’ della zona, ma quella eterna però. Si è beccato un proiettile in pieno petto, di mattina presto, mentre era in giardino.
Non stava pattugliando la zona, non stava combattendo, non stava mirando nessuno.
Non ha nemmeno visto da dove arrivava il proiettile che ha ancora nel corpo e che gli ha sfondato il polmone di destra. Ha solo sentito un gran bruciore e poi è svenuto dal male.
L’hanno trasportato in elicottero fino a Lashkargah, gli stessi elicotteri che prima sparano, poi in ambulanza nel nostro centro chirurgico per vittime civili della guerra, abbastanza instabile ma con il suo orsacchiotto di peluche nuovo di zecca, regalo della democrazia.
Sembrava avesse la gobba da tanto sangue si era raccolto nella schiena.
È stato operato subito, gli hanno messo due drenaggi toracici, quasi più grandi di lui.
Perché il noto ‘insurgent’ ha sette anni.
Sette.
Questa è la ‘grande operazione militare’, la più grande.
Vergogna.

Matteo Dell’Aira
(Infermiere capo dell’ospedale di Emergency a Lashkargah, Helmand. Afghanistan)

 

Anarchismo a Napoli/botta...

Cari amici,
incontro per caso il numero 339 (novembre 2008) della vostra bella rivista. Ci trovo alcuni amici cari coi quali ho collaborato molto quando si è fatto il Dizionario degli anarchici – Natale Musarra, soprattutto e Franco Bertolucci, e mi pare un periodico serio e bene fatto.
Buona è anche la recensione di Massimo Ortalli all’ottimo lavoro di Fabrizio Giulietti sull’anarchismo napoletano agli inizi del Novecento. Concordo su tutto e ritengo anch’io davvero notevole lo sforzo che l’autore va facendo per restituire voce e ruolo politico agli anarchici del Mezzogiorno d’Italia.
Non è vero però che tutto cominci con Giulietti. Mi sono occupato soprattutto di socialismo e socialisti, non lo nego, ma anche – e molto – degli anarchici di cui scrive Giulietti. È naturale e giusto che col passare delle generazioni i giovani studiosi allarghino la visuale dell’indagine storica. Sostenere però che finora nessuno s’era accorto “che anche in una città come Napoli – che siamo superficialmente abituati a pensare in balia del più spinto individualismo e quindi incapace, per la sua natura “plebea”, di esprimere una forte cultura sociale – era profondamente radicato un movimento anarchico e socialista”, questo no, questo non è assolutamente vero.
Ho speso una vita a dimostrarlo e ne fanno fede i miei studi, che Giulietti peraltro onestamente e correttamente cita assai spesso. Non vorrei, questo sì, questo mi pare di poterlo dire, che dopo aver dovuto fare i conti con le scomuniche e le censure dell’ortodossia comunista, giunto alla vecchiaia, mi dovesse toccare l’amara sorte di incontrare una nuova “chiesa”, che, per essere anarchica, sarebbe davvero una ridicola “contraddizione in termini”.
Null’altro. E, credetemi, con amicizia vera,

Giuseppe Aragno
(Napoli)

 

... e risposta

Caro Giuseppe,
ho letto le tue osservazioni fatte alla mia recensione del libro di Fabrizio Giulietti sull’anarchismo napoletano, e desidero chiarire alcune cose.
Io mi occupo, sulle colonne di A rivista, essenzialmente di storia del movimento anarchico specifico e non, più in generale, di quello socialista, o sindacalista. Questo rende ragione del fatto che io abbia salutato con favore la “scoperta”, se così vogliamo chiamarla, di un movimento anarchico partenopeo oggettivamente poco conosciuto fuori da una ristretta cerchia di studiosi e lodevolmente portato alla luce da Giulietti. Per questo motivo ho scritto la frase da te citata, frase che non intendeva assolutamente nascondere, o peggio ancora, censurare – come credo sia anche per te, non mi piacciono le chiese, né quelle religiose né quelle laiche – altri studi ed altre ricerche su altri movimenti sociali, quelli socialista e sindacalista, per intenderci.
Sono perfettamente al corrente dei tuoi lavori, nella mia biblioteca è presente da anni il tuo Socialismo e sindacalismo rivoluzionario a Napoli in età giolittiana e recentemente ho letto, con vero diletto, quella tanto straordinaria quanto sconosciuta raccolta di storie di vita che appare nel tuo Antifascismo popolare: un esempio di come la storia, pur mantenendo il rigore della ricerca, possa anche essere una sorta di avvincente romanzo.
In questi ultimi anni ho curato, per A rivista, due dossier bibliografici, nei quali sono venuto citando e segnalando quanto è stato pubblicato in Italia, nell’ultimo decennio, sul movimento anarchico e sull’anarchismo. Nel terzo dossier, che penso sarà pronto verso la fine dell’anno prossimo, era già prevista, doverosamente, la segnalazione di questa tua ultima fatica, evidenziando soprattutto le figure e le storie degli anarchici di cui scrivi.
Con altrettanta, sincera amicizia.

Massimo Ortalli

 

Concordo con Andrea Papi

Bellissimo l’articolo “Attualità dell’anarchismo” di Andrea Papi sullo scorso numero di “A”. Perfettamente chiaro. Perfettamente giusto. Concordo pienamente.

Arturo Schwarz
(Milano)

 

Parlare con la gente

Caro compagno Massimo Ortalli, sono Paolo, un compagno.
Ti scrivo dopo aver letto, solo ora, il tuo articolo “Una società di gente normale” su “A” di gennaio.
Mi trovi pienamente concorde con quello che hai scritto nell’articolo. Così ti scrivo, così perché ne sentivo il bisogno, forse magari poi ha poca importanza, ma non fa niente, però voglio scriverti che sono anarchico e lo sono sopratutto perché l’anarchia è un ideale che predilige la persona prima dell’ideologia. Ed è per questo che lo sono e sono fiero di esserlo.
Sono d’accordo che non dobbiamo nasconderci o isolarci come unici ad avere il diritto di combattere contro il nemico, ma appoggio un’alleanza.
Ti porto il mio esempio, un piccolo esempio, ma che io reputo importante, e spero che ce ne siano tanti come me.
De Andrè diceva che l’anarchia è un modo di essere prima che un’ideologia. Ed io appunto ho preso alla lettera questa frase detta dal cantautore.
Perché io appunto metto il pensiero anarchico in qualsiasi cosa che faccio, e con qualunque persona con cui parlo.
E lo faccio perché ne sono convinto, e sono convinto che l’anarchia è l’unico modo per dare un buon senso alle persone, e togliere ogni pregiudizio.
Credo che questo mio gesto, sia un modo di combattere in qualche maniera il nemico comune, appunto se noi anarchici usciamo dal nostro essere chiusi, parliamo con la gente.

Spero di portare un piccolo esempio di anarchia.
Cordiali saluti, ti ringrazio. Ciao.

.

Paolo
paoperfo@hotmail.it

 

Noterelle sui dintorni di Dio

(nota: mette conto di precisare, per gli innocenti, gli sprovveduti, gli imbecilli e i disinformati, che l’interesse di atei convinti et sereni per dio e gli annessi a questo tema è ovvio esattamente come per qualunque altro argomento speculativo-filosofico di cui tratti l’osservazione e la riflessione sull’uomo e la sua storia. Per chiunque abbia pratica, anche elementare, di filosofia, non dovrebbe apparire come una originalità che il filosofo si occupi anche di dio. Ricordo, sempre per chi fosse digiuno di filosofia o sia nutrito di rudimentali pregiudizi, che i grandi pensatori politici, dall’illuminismo al socialismo storico, si sono confrontati con il tema, anche gli anarchici. Tra tutti la maggior parte composta di individui convintamente atei. E spero, con questo, di aver ovviato ad una tanto frequente quanto disarmante obiezione.)

È difficile rimuovere monumenti di parole senza alterare la sintassi. Ma tenterei di procedere nell’operazione di rilettura dell’antico moto anarchico “né dio né stato ne’ servi né padroni”, convinta di poterne mantenere inalterata la sintassi, vale a dire il senso più profondo e importante che lo ispira. E mi concentrerei sull’attacco. Sul categorico “né dio”. È evidente che la formulazione di una sinteticissima dichiarazione di principi richiede una esemplificazione, ed ovviamente esemplificata è la formula a cui ci si riferisce. Altresì evidente è che, mentre lo Stato è rimasto pressoché lo stesso nelle sue prerogative da quando fu espressa questa dizione, sui Servi e i Padroni bisognerebbe fare una revisione, perché è ovvio che se lo spirito del discorso può rileggersi immutato anche oggi, lo specifico dei termini appare un po’ scolorito e meno leggibile. Ma il senso è ancora chiaro. Invece su Dio rilevo una circostanza di maggiore criticità, già dalla formulazione, che ritengo meriti una messa a punto. Questa operazione mi sembra possa essere di aiuto anche per dibattito all’interno del pensiero anarchico contemporaneo.
Non è possibile rimuovere dio dalla coscienza degli uomini. O meglio, non è possibile rimuovere il sentimento di religiosità presente nell’uomo, e ciò perché il sentimento religioso è legato alla percezione del sacro, e questa percezione si è costruita nella coscienza umana fin dall’inizio della sua storia, e si è costruita nello stretto legame, intensissimo e radicale, che l’uomo aveva con la natura. Il sentimento del sacro era una elaborazione del dato incontrovertibile che solo un rapporto di profondo rispetto nei confronti della natura poteva essere una garanzia di sopravvivenza. Il destino dell’uomo era indissolubilmente legato al “rispetto delle regole” che la natura imponeva per fornirgli i mezzi per vivere. Non era, come appare oggi ad un occhio superficiale, una imposizione “ideologica”, ma una necessità primaria. Naturalmente la complessità e l’immensa varietà dell’essere della natura, non sempre penetrabile dalla mente primigenia, facevano sì che maturasse negli uomini un “sacro rispetto” nei suoi confronti. Rispetto tutt’altro che superstizioso, ma fondamentalmente “economico”, esemplificabile in una espressione del tipo: se io non faccio niente che insulti, offenda ed alteri le leggi naturali, la natura sarà con me generosa e prodiga. In caso contrario subirò la sua ostilità. In un rapporto di causa-effetto tutt’altro che trascendente.
Il tanto celebrato senso “della piccolezza” dell’uomo di fronte al mondo e all’universo, che avrebbe fatto scaturire il sentimento religioso, ritengo che sia una banalizzazione pittoresca ma del tutto inconsistente delle dinamiche di cui sopra. Così come la “paura di fronte alla morte”, così convincente per molti, è uno psicologismo di disarmante debolezza se usato per spiegare il costruirsi del sentimento della religiosità. Nella sua storia, nello spazio e nel tempo, l’uomo ha cominciato a temere la morte da quando gli hanno fatto credere che e ci fosse un aldilà, e che potesse essere punito in questo aldilà per le sue eventuali malefatte. Ma in centinaia di migliaia di anni prima della formulazione di queste infauste determinazioni l’uomo non ha temuto la morte, semmai la sofferenza, proprio come qualunque altro animale. E non c’è da confondere l’istinto di conservazione con la paura della morte, ché quello è un dettato innato, questa è una determinazione culturale.
Ma il senso del sacro era presente anche prima della paura della morte, e quindi questo smentisce l’ipotesi di cui sopra, che ha avuto grande fortuna per molto tempo.
In realtà fino ad oggi s’è spiegato il sentimento di religiosità a partire dalle religioni, che sono l’espressione perversa dell’antico sentire umano riguardo al sacro. E quindi le spiegazioni sono risultate esse stesse pervertite dalle alterazioni compiute dalle religioni all’interno di questo dato culturale. È ben evidente che da quando sono apparse le religioni, vale a dire l’istituzionalizzazione di un sentimento universalmente diffuso, si è proceduto a piegare l’animo umano verso ambiti che la sua religiosità primordiale non aveva mai contemplato. Le religioni costituite rappresentano uno degli atti di sopraffazione più funesti perpetrato sugli uomini. La quasi totalità delle guerre, delle violenze sugli uomini, degli arbitri sui deboli (per esempio le donne), delle aberrazioni sociali sono frutto del potere esercitato dalle religioni costituite. E che di potere si tratti è indiscutibilmente dimostrato: gli istituti religiosi costituiti hanno sempre rivestito un ruolo determinante nella gestione del potere, quando non ne sono stati l’unica espressione. E uno dei conflitti più antichi e più sanguinosi che l’umanità abbia mai dovuto sopportare e ancora sopporta è proprio il conflitto per il potere tra istituzione religiosa e l’istituto civile del potere. Dio, l’uno o l’altro, ha benedetto e protetto eserciti, confermato la bontà di azioni indegne, supervisionato carneficine, oltraggi, violenze sugli indifesi, sostenuto dall’alto delle bandiere le azioni più nefaste. Dio lo vuole. Dio è con noi. Dio e il mio diritto. In nome di Dio.
Ma l’arbitrio più serio e più micidiale si è compiuto sulla natura stessa dell’uomo, obbligandolo a confondere il proprio istinto religioso con l’obbedienza alla religione. Non potendo negare il proprio sentimento del sacro, l’uomo si è visto costretto a ricondurlo a quanto gli veniva imposto come depositario del sacro, e quindi a sottostare a tutte le derivazioni di questo assunto. L’evidente aberrazione di questa circostanza ha costretto milioni di coscienze a durissimi conflitti interiori, del tutto non necessari.
In realtà un fulcro non secondario su cui si è fatto leva per affermare questo arbitrio è la tendenza, quasi generale (ne fanno eccezione solo i mistici individualisti), a voler condividere questi sentimenti con la collettività. Sì, perché il sentimento del sacro, riferito alla natura e alla relazione dell’uomo con questa, accomunava di fatto tutti gli uomini: collettivo era il rapporto con la terra, l’acqua, il fuoco ecc. e la necessità di comportamenti rispettosi delle regole della natura era una priorità collettiva: le conseguenze di comportamenti scorretti si ripercuotevano su tutti gli individui, viceversa tutti erano tutelati da comportamenti che garantissero una relazione armonica con la natura.
Proprio questa radice collettiva del sentimento del sacro è stata la circostanza determinante perché di questo sentire si facesse uno strumento di potere. Esistono nel tempo e nello spazio società atee, prive cioè di istituti religiosi garanti, ma sono casi assai poco frequenti.
E davvero è stata una ulteriore aberrazione e un’infelice ispirazione quella del socialismo reale che ha creduto di imporre un “ateismo di stato”: questa dabbenaggine ha permesso a molti di confondere l’adesione ai principi del socialismo con l’adesione all’ateismo. L’ateismo, così come la religiosità, non possono essere posti come condizioni sociali dogmatiche: le due cose non sono prerogative di cui si debba far depositaria la società ma circostanze soggettive e individuali che tali debbono restare, senza che in alcun modo vadano a condizionare la vita civile e collettiva. Naturalmente l’ateismo di stato ha permesso di continuare a mantenere fondata l’identificazione della religiosità con le chiese costituite: se il credere o non credere è deciso da un’istituzione, vuol dire che è solo un fatto di scegliere quale istituzione abbia ragione; quindi chi sentiva in se’ uno slancio religioso ha continuato a credere di doverlo identificare nelle chiese, e nel difendere il suo slancio di fatto difendeva la chiesa. Per di più perseguitata…
È quindi bene che si sgombri il campo dalla tentazione di porre l’ateismo come condizione “sine qua non” di una lettura anarchica della società, per rimarcare invece con maggior forza la negazione di qualunque tipo di “istituto” religioso, perché sono gli istituti religiosi, identificabili nelle varie chiese e strutture confessionali di qualunque genere, ad essere il cancro micidiale della società civile, ancora più degli stati. È evidente che la deformazione di millenni conduce la mente degli uomini ad identificare le due cose, ma questo è profondamente sbagliato, ed è necessario che si rendano distinguibili e separati i due ambiti.
Dobbiamo fare chiarezza sul fatto che condannare le chiese non comporta automaticamente togliere di mezzo dio: sono ambiti del tutto diversi e non sovrapponibili. Chi crede è portato a concludere che abolire la chiesa significa abolire dio: su questo equivoco la chiesa di Roma, per esempio, regge il suo potere da duemila anni. Il nemico della storia dell’uomo è la chiesa, non dio. Questa non dimentica mai di rimarcare che essa ed essa sola è la depositaria del messaggio di Gesù, e quindi è la detentrice della fede in dio. Ma questo, ovviamente, è un arbitrio inconsistente, sorretto da quella necessità di fede collettiva a cui facevamo riferimento. Ma nessuno vieta a nessuno di credere in un dio, qualsivoglia. Quello che non può essere accettato è l’istituzione di un potere legato a questo credere che si imponga all’intera società.

Zelinda Carloni
(Roma)

 

Addio compagni addio

Ciao. A volte si sceglie di evolversi (o di involversi) in silenzio, altre volte si sceglie di manifestare apertamente i propri percorsi intellettuali allo scopo di coinvolgere determinate categorie di persone nel proprio divenire e di conquistarne l’attenzione. Per questa ragione ho deciso di scrivere questa lettera aperta e di inviarla ad Umanità Nova e ad “A” con la speranza che le rispettive redazioni vogliano renderla pubblica coinvolgendo nelle mie riflessioni quelli che considero “i miei amici anarchici”.
Di recente ho inviato delle proposte di riflessione a entrambe le riviste, solo “A” ha deciso di pubblicarle ma da entrambe le redazioni ho comunque avuto risposta. Purtroppo in entrambi i casi le due migliori espressioni dell’anarchismo intelligente italiano hanno confermato quanto da tempo (anni, ve l’assicuro) pensavo, e cioè che purtroppo nemmeno il movimento anarchico è riuscito a salvarsi dal virus che ha debellato le opposizioni politiche e sociali di tutta Europa: l’orticellismo.
Tra gente che si richiama al comunismo in tutte le sua varietà, al socialismo nelle sue manifestazioni ancor più numerose, all’anarchismo, eccetera, esiste ormai un composito mondo che si vuole anticapitalista ma le cui componenti non riescono a dialogare tra loro. Anzi, peggio, si fronteggiano in cagnesco e a volte si odiano. Non siamo più nemmeno allo stadio in cui i socialisti odiavano i comunisti, i comunisti disprezzavano i socialisti, entrambi aborrivano gli anarchici e questi ultimi non sopportavano nemmeno l’odore degli altri due, no, siamo ben oltre, decine di espressioni micro-partitiche del comunismo si offendono e si combattono tra loro, innumerevoli organizzazioni di ogni dimensione che si richiamano al socialismo si disconoscono a vicenda e gli stessi anarchici, dopo una storia fatta di scissioni e ricongiunzioni, sono oggi divisi in cento fiumiciattoli nei quali si disperde la linfa vitale che ha dato la vita al movimento di liberazione dei lavoratori di tutto il mondo e che oggi non riesce più a nutrire la pur pregevole pianta.

Vorrei prendere in prestito una frase che Gesù pronunciò alla fine del sermone sul Monte: “li riconoscerete dai loro frutti“. Bene che frutto stiamo dando? Praticamente nessuno. Gli eredi della sinistra socialista hanno buttato a mare una storia ormai secolare abbracciando il capitalismo e, oggi, accettando di condividere la strada della destra liberista; i comunisti, che già avevano avuto dei problemi di unità prima della demolizione del PCI, sono ora ridotti in parrocchiette che nella migliore delle ipotesi servono solo a tenere alta una inutile e patetica bandiera e nella peggiore servono solo ad assicurare una rendita di posizione a qualche capetto locale o nazionale; e gli anarchici? Gli anarchici ossessionati dal bisogno di mantenere un’identità integra e dalla paura di contaminarsi non riescono a fare altro che coltivare il classico orticello, ben orgogliosi delle proprie fonti di ispirazione, dei propri mostri sacri, della propria storia e della propria atomica diversità ma non riescono ad incidere minimamente sul corso degli eventi e vivono la propria alterità a testa alta (come i Testimoni di Geova) ma nell’isolamento più totale dagli altri protagonisti del dibattito politico (e fin qui pazienza) e, quel che è peggio, dal mondo del lavoro (siamo riusciti persino ad avere due U.S.I. che si odiano e si fanno la guerra, capite?).
Quanti siamo in tutta Italia? Duecento? Cinquecento? Mille? Chi lo sa. Non si sa perché non ve ne è segno. Se non fosse per i pazzoidi che spaccano le vetrine e giocano al piccolo Bresci (salvo poi ottenere l’unico risultato di passare le notti in galera) la parola anarchia non sarebbe nemmeno più pronunciata al di fuori delle nostre sedi e dei nostri giornali.
Dove sono quegli agitatori che mobilitavano masse di lavoratori e sapevano condurle a esprimere tutta la loro forza e, infine, a condizionare l’attività di coloro che sedevano in parlamento? Dove sono quegli intellettuali che volevano e sapevano educare la gente ed insegnarle a desiderare di stare meglio in un mondo diverso e possibile? Dove sono quei sindacalisti che della lotta sociale facevano scelta di vita e che sapevano condurre la volontà popolare a sintesi ed incanalarla in efficaci forme di lotta? Non c’è più niente di tutto questo? La risposta è un sonoro “no”, un “no” sofferto e doloroso ma comunque un “no”.
Nelle manifestazioni facciamo sempre il nostro drappello a parte per non confonderci con gli altri; nel sindacato non siamo più capaci di operare in mezzo ai lavoratori e costituiamo con altri, minoritari come noi, delle siglette di nessuna importanza destinate solo a una presenza folcloristica e a fare da sgabello per qualcuno più furbo che ne approfitterà per candidarsi in qualche partitucolo dell’estrema sinistra; nel sociale e nel volontariato operiamo sempre da soli perché non ci va mai bene nessuno; in politica non ne parliamo, solo l’idea di fare pochi metri di strada con un partito politico ci fa venire l’orticaria.
Risultato? Lo zero assoluto.
Eppure attorno a noi c’è un fermento che nasce dal malumore e dal disagio sociali e che meriterebbe di essere raccolto dalla miriade di ruscelletti in cui si esprime e ricondotto a sintesi all’interno di un progetto di cambiamento realistico e condiviso capace di esprimere scenari possibili e di sfociare in conquiste sempre parziali, sempre intermedie, ma realizzabili.
Ammiro chi sta con fatica nella C.U.B. e ci tiene informati periodicamente su U.N. però non basta. Sapete perché i compagni di Lotta Comunista stanno in C.G.I.L.? Io ci parlo con loro, non stanno lì perché non avrebbero la voglia e la capacità di stare da soli, stanno lì perché i lavoratori sono lì e per ottenere qualche risultato bisogna stare tra i lavoratori.

Nelle due lettere che ho inviato ad “A” e ad U.N. ho provato rilanciare un minimo di dibattito su questi temi ma in entrambi i casi ho trovato un muro. Su “A” Andrea Papi ha voluto vedere solo il mio possibilismo elettorale (il classico dito che indica la luna) ignorando tutto il resto del mio discorso e Walter di U.N., che mi ha risposto per e-mail, ha fatto la stessa cosa aggiungendo che è sempre disponibile al dialogo ma non a rimettere in discussioni argomenti su cui già tutto è stato chiarito e deciso.
Ecco il problema: è tutto definito una volta per tutte e basta con questi rompiscatole che vogliono farci rinunciare ai nostri sacri dogmi e ai nostri rassicuranti rituali.
Ma non siamo più all’epoca di Malatesta. Non è più possibile una rivolta nel Matese. Il mondo è stato trasformato dalla tecnologia e dai media in un unico villaggio di cui sappiamo sempre tutto in tempo reale e in cui possiamo spostarci ovunque in pochissimo tempo. O comprendiamo che il nuovo orizzonte della lotta deve essere planetario o siamo destinati alla pura e semplice testimonianza. E a livello planetario o si agisce con la forza della maggioranza e col suo consenso e il suo sostegno o il nostro futuro sarà ancora fatto di orgoglioso isolamento e autocelebrativa emarginazione.
Probabilmente non sono più “anarchico“ (o forse lo sono più di tanti altri, non so) però su una cosa ho le idee chiare: voglio che quel poco che il mio tempo e la mia capacità mi permettono di fare abbia un senso, non sono più disposto a fare il portabandiera di una differenza sterile per quanto carica di grande dignità e rinuncio a questa definizione che mi ha accompagnato per tanti anni per abbracciare semplicemente quella di “socialista“.
Saluto con amicizia i compagni anarchici che avranno potuto e voluto leggere queste mie righe, non voglio atteggiarmi a novello Andrea Costa ma come lui scelgo la via del buon senso e imbocco l’unica strada percorribile in direzione della comune meta: quella della ricerca dell’unità e della collaborazione con chi c’è e con chi ci sta, il che significa che mi sporcherò le mani e mi farò contaminare sperando di contaminare un po’ anch’io gli altri.
Con per sempre nel cuore il socialismo e la libertà, vi saluto.

Corrado Olivotto
(Aosta)

 

Ma quel 1969 non è il mio / botta...

Cara “A”,
ti scrivo a proposito dell’articolo di Diego Giacchetti “L’anno dei giovani. 41 anni dopo il 1969.” sullo scorso numero.
Dopo la lettura sono rimasto perplesso; c’era qualcosa, che non riuscivo a comprendere, che non mi tornava. L’ho letto e riletto ma a parte la forte discontinuità tra i primi due paragrafi (“Nuovi contenuti della lotta di classe” e “Il ’69 italiano” dove si descrivono le condizioni e le contrapposizioni, ed il terzo e quarto “Questione meridionale nelle città del nord” e “Tutto e subito” dove si citano molti testi di canzoni) e tra le considerazioni generali e quelle di costume, c’era qualcos’altro.
Forse manca una premessa che indichi il percorso critico seguito e cosa si volesse dimostrare. Ad esempio le canzoni citate non sono le più rappresentative se non in un ambito per gran parte commerciale e specificamente italiano; sono indicatrici di un periodo in quanto ad esso appartengono, ma non evidenziando la ricchezza culturale e il caledeoscopio di esperienze individuali e collettive che si svolsero in quello stesso periodo.
Ma non era questa la ragione della perplessità. L’Autore descrive un ’69 che non è il mio e questo non solo per gusti musicali ma anche per come è tessuto il racconto, a partire dalla terminologia usata.
Ora io in quel periodo ero già anarchico ma ciò non credo implichi che i miei ricordi e le mie interpretazioni possano descrivere da soli quel periodo; direi che quasi tutti gli ultra cinquantenni vissuti in Italia hanno attraversato il ’69 in età tale da potere ricordare e chi più, chi meno, chi per nulla hanno fatto esperienze in quel periodo e quindi hanno il diritto di avere una propria memoria. Inoltre chiunque può svolgere osservazioni su qualunque periodo anche non direttamente vissuto. E quindi neanche questo poteva essere la ragione di perplessità.
Leggendo e rileggendo “alfin” ci sono arrivato ed ho capito perché questo ’69 che non corrisponde al mio ’69 mi infastidiva. Gli anarchici e i libertari hanno generato gran parte delle idee caratterizzanti i movimenti di opposizione del ’68 degli anni precedenti e di quelli immediatamente successivi. Molti anarchici e libertari hanno vissuto completamente quei periodi con una capacità propositiva e creativa enorme, con una coerenza unica, indenni dalle sirene culturali del mercato (anche quelle delle canzoni), del socialismo reale e delle sue autoritarie e dogmatiche organizzazioni e terminologie, dal modello di potere asfittico e dai suoi vantaggi. Però queste esperienze, fatte da molti che ancora oggi operano nel movimento, non sono state organicamente ricomposte. In questo si rilegge anche quello diffidenza alla testimonianza individuale che accomuna molti compagni terrorizzati di incappare nella prosopopea, nell’egocentrismo, nella cristallizzazione della storia.
Nello stesso numero, cara A, nella rubrica “37 anni fa” ci racconti come nel numero 20 uscito nell’aprile 1973 pubblicasti il “volantone” “Anarchici contro il fascismo”; in cui raccoglievi testimonianze e relazioni di fatti accaduti 30 anni prima.
Ecco forse se ci fosse un simile recupero delle memorie individuali e comuni, delle esperienze e delle teorie di quanto è avvenuto 40 anni fa, io leggerei gli articoli come quello trattato con maggiore serenità perché lo inserirei all’interno di un mosaico di memorie che evidenzierebbe la variegata composizione del movimento e delle esperienze, garantendoci tra l’altro di mantenere la testimonianza di una partecipazione attiva e creativa fantastica.
In sintesi l’articolo di Giacchetti è stato occasione per farmi riflettere e quindi i miei ringraziamenti vanno all’Autore.
Complimenti per la tua capacità di essere sempre più bella.

Adriano Paolella
(Roma)

... e risposta

Adriano Paolella ha ragione due volte.
Quando vuole una storia nella quale si senta rappresentato e quando sostiene che ancora è trascurata la ricerca sul contributo di idee e di militanza degli anarchici italiani in quegli anni e in quelle lotte. Si tratta di mettersi “sotto” (il mio amico Franco Schirone, per fare un solo nome, qualcosa ha prodotto) non vedo altra soluzione.
Ha ragione anche quando dice di non aver trovato queste risposte nel mio pezzo. Infatti ho provato a “vedere” altro. Una cosa sono le culture politiche e le canzoni del e scritte per il movimento, altro il movimento in quanto tale, soprattutto quando si tratta di insorgenze di massa, numerose e collettive, caratterizzate dalla presenza significativa di una nuova generazione. Un sentire comune e nuovo che forma la sua coscienza (emozioni, sentimenti, stati d’animo, intuizione, proteste e ribellioni) nel vivo dell’esperienza che conduce e nel contesto storico dato.
Qui la formazione e l’educazione sono a tutto campo, incluse le “vituperate” e commerciali canzonette, scritte senza alcuna intenzionalità pedagogica, conosciute e diffuse dalla rete commerciale che molti giovani operai e studenti gettonavano nei juke box dei bar, magari nelle pause tra uno sciopero e l’altro, tra un corteo e un volantinaggio o una serata trascorsa a sentire e cantare canzoni di lotta.

Diego Giachetti

 

Novara/Impedita un’iniziativa sui Rom

Nella serata del 19 febbraio scorso i compagni e le compagne antirazzisti/e di Novara avevano indetto un’iniziativa pubblica sullo sterminio dei Rom e dei Sinti ad opera dei nazifascisti durante la seconda guerra mondiale. L’iniziativa in ricordo del Porrajmos vedeva la partecipazione di Paolo Finzi, della redazione della rivista anarchica “A”, che ha collaborato con l’Opera Nomadi alla ricostruzione della memoria rispetto a questa pagina tragica e dimenticata della storia. Inizialmente la Giunta di Novara aveva concesso per la serata l’uso della sala pubblica sita alla Barriera Albertina, comunicando la cosa a mezzo lettera ufficiale ai compagni.
A due giorni dalla data accampava una serie di scuse per revocare la concessione senza che questo fosse ufficialmente comunicato attraverso altra lettera del Comune.
I compagni perciò si recavano ugualmente nella serata del 19 alla sala per tenere l’iniziativa in cui convergevano parecchie persone interessate provenienti anche da fuori città. Giunti là i custodi dichiaravano di aver ricevuto ordine di non aprire, quindi i compagni decidevano di svolgere ugualmente l’iniziativa nella piazza antistante il Comune. In seguito raccoglievano alcune indiscrezioni sulla volontà da parte della Giunta di osteggiare da qui in avanti ogni iniziativa antifascista/antirazzista nel centro della città.
Questo fatto si inquadra nella logica, portata avanti da Giunta e Questura, di emarginare chi si fa portavoce dei valori della Resistenza. Stupisce il silenzio e l’assenza della cosiddetta “Sinistra” che oltre a non dare adesione all’iniziativa non leva una sola voce di protesta rimanendo anch’essa impastoiata nella cultura imperante di rimozione della memoria storica e delle lotte.
Sappiano coloro che hanno sposato questa logica che gli antifascisti, i giovani, le compagne ed i compagni di Novara non si lasceranno ridurre al silenzio e risponderanno con la moltiplicazione delle iniziative politiche e delle mobilitazioni in difesa di una cultura della memoria, contro il razzismo e la xenofobia. Quindi chiamano tutti i sinceri democratici ad unirsi a loro contro le manovre del Comune leghista e della Questura.

Circolo “Banditi di Isarno”
(Novara)

 

.

 

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Dino Delcaro (San Francesco al Campo – To) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Colin Ward, 500,00; Vincenzo Argenio (San Nazzaro de’ Burgondi – Av) 20,00; Romeo Muratori (Rimini) 20,00; Livia Anzelotti (Napoli) 200,00; Gianni (Milano) 1.000,00; alcuni compagni (Roma) 75,00; Nicola Pisu (Serrenti – Vs) 20,00; Luigi Vivan (San Bonifacio – Vr) 10,00; Paola Anzaloni (Bologna) 50,00; Mauro (Cinisello Balsamo – Mi) 2,00; Silvio Gori (Bergamo) ricordando Egisto e Marina Gori, 30,00; Antonio Cecchi (Pisa) 10,00; Giorgio Nanni (Lodi) 20,00; Saverio Nicassio (Bologna) 20,00; Giampaolo Pastore (Milano) 20,00; Maurizio Guastini (Carrara – Ms) 150,00; Enric Ambrosi (Montecchia di Crosara – Vr) 10,00; Oreste Rosei (Savona) ricordando Giovanna Caleffi Berneri e Aurelio Chessa. Auguri alla “Faillina”, 20,00; Paolo Sabatini (Firenze) 27,00; Arturo Schwarz (Milano) 100,00; Alberto Venturi (Pistoia) 5,00; Fabio Palombo (Chieti) 110,00; Giancarlo Zilio (Selvazzano – Pd) 20,00; Rinaldo Boggiani (Rovigo) 50,00; Antonio Pedone (San Felicino – Pg) 20,00; Roberto Carloni (Roma) 20,00; Luigi Vivan (San Bonifacio – Vr) 10,00; Carlo Bonanni (Grottammare – Ap) 20,00; Piero Barsanti (La Spezia) 20,00; Rosanna Ambrogetti e Franco Melandri (Forlì) 30,00; Andrea Babini (Forlì) 30,00; Oscar Greco (Rende – Cs) 20,00; Nunzio Cunico (Sovizzo – Vi); Orazio Gobbi (Piacenza) 20,00; Luciana Castorani (Cremona) 300,00; Piero Mambretti (Lecco) 50,00; Gruppo anarchico “Pasquale Binazzi” (La Spezia) 100,00; Andrea Cassol (Cesio Maggiore – Bl) 30,00; Daniela Belloni (Caprie – To) 5,00; Albino Trucano (Borgiallo) 40,00; Frigerio-Gila (Lecco) in ricordo della cooperativa anarchica “La Raccolta” fondata nel 1978 e affondata dal governo DC/PSI, 50,00. Totale euro 3.284,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Luca Capata (Cerveteri – Rm); Gianluca Botteghi (Rimini); Alessandro Marutti (Cologno Monzese – Mi); Fausto Franzoni (Pianoro – Bo); Franco Lombardi Mantovani (Brescia); Lorenzo Guadagnucci (Firenze); Marcella Denegri (Milano); Franca Sbraglia (Milano); Fulvia De Michel (Belluno); Maurizio Guastini (Carrara – Ms); Nicola Casciano (Novara); Francesco Barba (Brescia); Roberto Panzeri (Valgreghentino); Franco Cappellacci (Marotta di Fan – Pu); Gianluigi Melchiori (Maserada sul Piave – Tv); Fabio Palombo (Chieti); Paolo Fossati (Arosio – Co). Totale euro 1.700,00.