Negli ultimi decenni è stata effettuata in Italia e in altri paesi un’approfondita analisi del trattamento a cui vengono sottoposti i pazienti negli ospedali. Nel 1990 Iandolo ha scritto:
È un dato di fatto sconfortante che in tutti i paesi del mondo molti malati sia negli ospedali che in altre istituzioni sanitarie vengano, occasionalmente o sistematicamente, sottoposti a maltrattamenti e ad abusi da parte del personale sanitario medico e non medico e perfino dal personale di servizio (barellieri, portantini, ecc.).
In Italia due eventi vanno ricordati per la loro grande importanza.
Il primo evento ha come protagonista Gigi Ghirotti, un giornalista ammalato di morbo di Hodgkin, morto nel 1974. Nonostante la malattia Ghirotti ha continuato a fare il giornalista, ha scritto e parlato della sua malattia e si è impegnato in una critica delle condizioni disumane in cui spesso i pazienti si trovano nelle strutture ospedaliere (Ghirotti, 1973). Dopo la sua morte la sua denunzia ha portato alla creazione del Comitato Gigi Ghirotti, poi divenuto Fondazione Nazionale Gigi Ghirotti, finalizzato alla prosecuzione dell’impegno del giornalista per una umanizzazione delle condizioni dei malati negli ospedali.
Il secondo evento ha come protagonista Giancarlo Quaranta, autore de “L’uomo negato” (1982), in cui di nuovo si denuncia la situazione dei pazienti nelle strutture ospedaliere. L’analisi contenuta ne “L’uomo negato” ha portato, soprattutto ad opera del Movimento Federativo Democratico, alla creazione del Tribunale per i diritti del malato, un’associazione di volontariato che tutela appunto i diritti dei malati.
Al di là dei danni che può causare ai pazienti la disorganizzazione o l’inefficienza degli operatori sanitari colpisce il maltrattamento psicologico che a volte i pazienti devono subire: sgarberie, prepotenze, negligenze, mancanze di rispetto, atteggiamenti autoritari.
Alcune citazioni a proposito di fatti reali possono chiarire la natura del problema:
Me ne stavo lì, quieto e zitto, con il mio sondino attaccato al naso (erano passati pochi giorni dall’operazione della milza), quando m’arrivò accanto al letto un giovane medico, mai visto né conosciuto. Si presenterà, pensavo tra me, si farà conoscere. Mi dice: “Su bello, alza un po’la testa che ti devo fare una sorpresina”. Afferrò il sondino: uno strappo e via di colpo. “E adesso”, fece, mostrandomelo con fierezza, “sei contento che t’ho levato la proboscidina?”.
Non m’offendeva il tu, ma il modo di fare: certe volte hai l’impressione che il malato ideale sia, per il medico, un ragazzotto di dieci quindici anni, tardo di mente, oppure una persona in età, culturalmente denutrita. Il desiderio di castigare questa burbanza mi spinse a rimbalzargli il tu e a dirgli una bugia: “Sai che ti dico? Che a quel sondino mi ci ero abituato”. Mi stette a guardare trasecolato e s’allontanò tutto ingrugnito.
(Ghirotti, 1973)
“Se non stai buona ti mettiamo il catetere”, era stata la minaccia che ha portato alla sospensione dal servizio delle tre infermiere. Una donna di ottant’anni, con alle spalle tre arresti cardiaci, chiama durante la notte. Una, due, tre, chissà quante volte. Ha bisogno della ‘padella’perché deve orinare. Le infermiere non le danno retta, poi alla fine arrivano: il tono non è gentile, tanto meno sollecito o affettuoso. Anzi, le parole sono minacciose e nelle loro mani il catetere diventa un’arma sadica.
(la Repubblica, 1993, 3 agosto).
Tre ore dopo il ritorno di Ornella dalla sala operatoria fu mandata via una sua parente venuta per assisterla. “Non ce n’è bisogno”, le fu detto senza un minimo di grazia. Ma poco dopo Ornella cominciò a rimettere e le compagne di stanza mi chiesero di suonare il campanello dato che l’unico era vicino al mio letto. La porta si aprì e una portantina, la peggiore di tutte, entrò chiedendo “Che c’è?”, con un tono di voce seccata e volgare. Dissi: “La signora non sta bene”. Ecco la risposta testuale: “E che me chiami solo perché questa vomita?”. “Scusi se è poco”, dissi a mia volta, trattenendo a forza tutto quello che avevo dentro di me.
(Bajo, 1989)
Quando me ne vado mi trovo a fare il lungo corridoio insieme alla signora che piangeva e recriminava per aver trovato la madre avvolta nella merda del giorno prima.
Io non la conoscevo, ciò nonostante:
“Che disastro!” mi disse. “Non se ne può più!
E ogni posto è peggio dell’altro!
Prima era ricoverata al Policlinico Umberto I.
Si sa, è una persona anziana e malata! La notte, quando chiamava per qualche bisogno, tutti si scocciavano e la rimproveravano e la minacciavano… Una volta arrivarono a dirle: Non ti azzardare a richiamare, altrimenti ti piglio e ti porto nella camera mortuaria!”
“Che cosa?!”
“Allora l’ho portata qua: è un ospedale così pulito all’apparenza! Ma è solo apparenza! Tutto è apparenza!
Ci hanno le macchine più aggiornate, ma non le sanno adoperare, ci hanno i risultati elettronici, ma non li sanno leggere e ci hanno anche le più grosse carogne di infermiere!
…che possano finire anch’esse la loro vita tra i panni sporchi!”
E, con questa maledizione sulla bocca, allunga il passo e scompare!
(Cristofanetti Boldrini, 1982)
Un rapporto
asimmetrico
Spesso i quotidiani parlano delle difficoltà di certi pazienti negli ospedali, per esempio delle insoddisfacenti spiegazioni che ricevono sulle proprie condizioni, della mancanza di rispetto per la propria privacy, della loro impossibilità di avere accanto a loro un familiare (per es. Cillis, 2009; Cornaglia Ferraris, 2009; Crivellini, 2009; Paissan, 2009).
Il maltrattamento psicologico dei pazienti ricoverati negli ospedali può sorprendere. L’ospedale dovrebbe essere una delle massime espressioni della solidarietà umana, della comprensione, della compassione, e invece a volte è una delle massime espressioni dell’incomprensione, dell’insensibilità, dell’isolamento, dell’emarginazione.
Non è difficile capire le condizioni psicologiche di un ammalato ricoverato in ospedale. C’è innanzitutto la preoccupazione per le proprie condizioni di salute, che a volte può essere rilevante. C’è la sofferenza dovuta al fatto che è fuori del suo ambiente normale, lontano dalla sua famiglia, dai suoi amici, dalla sua casa, dal suo lavoro. E’ovvio quindi che l’ospedale è un luogo dove pietà e compassione sono più necessarie che altrove. Come mai invece a volte pietà e compassione sono assenti e la loro assenza aumenta la sofferenza dei pazienti? Come è possibile che si possa infierire su di loro data la situazione in cui si trovano?
Per rispondere a questa domanda bisogna prendere in considerazione il fenomeno dell’aggressività umana. L’aggressività è particolarmente notevole in una società come quella in cui viviamo, in cui il principale modello di relazioni interpersonali è di tipo competitivo. Questo significa che tendiamo a percepire gli altri come rivali, antagonisti, concorrenti, di fatto nemici, e quindi individui da combattere, da sopraffare, da assoggettare. Un altro punto importante è costituito dal fatto che l’aggressività viene di solito esercitata sui più deboli.
In un ospedale il rapporto dei pazienti con il personale sanitario è decisamente asimmetrico. I pazienti si trovano indubbiamente in una condizione di inferiorità. La loro salute, la loro vita dipendono dal personale sanitario. Che il rapporto pazienti-personale sanitario sia vissuto come un rapporto di potere è chiaramente indicato da certe dichiarazioni di pazienti da me intervistati. Una paziente dimessa, per esempio, ha detto: “Mi sembrava di appartenere ad una classe inferiore.” È in questa prospettiva che si può capire il maltrattamento psicologico dei pazienti negli ospedali da parte del personale sanitario.
Naturalmente, per concludere, non si può fare a meno di chiedersi: che cosa si può fare per diminuire o anche eliminare del tutto questo maltrattamento? La risposta è semplice. Bisogna cercare di aumentare nei pazienti la coscienza dei propri diritti e nel personale sanitario la coscienza dei propri doveri.
In una società veramente civile il fondamentale modello di relazioni interpersonali dovrebbe basarsi sulla cooperazione e sulla solidarietà, valori già da tempo teoricamente presenti nella nostra cultura ma di fatto in buona parte ignorati. Uno sguardo anche sommario alla storia dell’umanità può chiaramente dimostrarci che cosa ha significato ignorarli e che cosa presumibilmente ci aspetta nel prossimo futuro se continuiamo ad ignorarli.
Dall’altra parte
Non vorrei essere frainteso. Non penso che tutto il personale sanitario italiano maltratti psicologicamente i pazienti ricoverati negli ospedali. Nel corso della mia ricerca mi sono imbattuto più volte in casi di operatori sanitari assolutamente degni di rispetto. In particolare ho esaminato un reparto di uno dei più grandi ospedali romani, un reparto ideale in cui tutti, dal primario alle persone delle pulizie, erano gentili con i pazienti.
Ma qui è opportuna una considerazione di fondamentale importanza. Non ci sono dubbi sul fatto che il lavoro del personale sanitario è molto difficile. In particolare è risultato che gli infermieri sono una delle categorie di lavoratori più a rischio di burnout. La sindrome del burnout è un tipo di esaurimento psicofisico causato da un lavoro stressante. Questa sindrome determina fra l’altro un deterioramento delle capacità di avere rapporti empatici con gli utenti del proprio lavoro, che nel caso degli infermieri sono naturalmente i pazienti.
Con questo non voglio dire che le stressanti condizioni di lavoro degli infermieri e del personale sanitario in generale giustifichino un eventuale maltrattamento dei pazienti. No, assolutamente. Voglio semplicemente precisare che le condizioni di lavoro del personale sanitario sono importanti. Non ci sono dubbi sul fatto che soddisfacenti condizioni di lavoro portano in generale a migliori prestazioni lavorative. Da qui la necessità che il personale sanitario abbia ottime condizioni di lavoro (trattamento economico, orari, ecc.). Solo così si potrà avere un personale preparato e che si impegni concretamente nel proprio lavoro, che come ho detto è indubbiamente un lavoro difficile.
Sarebbe ora per esempio che la società pagasse i lavoratori in rapporto alle difficoltà effettive e all’importanza del loro lavoro. In una società veramente civile un’infermiera dovrebbe essere pagata più di un calciatore. In realtà, come è ben noto, questo nella nostra società non succede.
Inoltre, quando si tratta di servizi pubblici (per es. personale sanitario, poliziotti, vigili del fuoco, insegnanti, conducenti di mezzi pubblici) la difesa delle condizioni di lavoro non dovrebbe essere effettuata solo dalla categoria di lavoratori direttamente interessata, ma da tutta la popolazione perché è nell’interesse di tutta la popolazione che i servizi pubblici funzionino bene. Quindi non si deve lasciare al personale sanitario il compito di mobilitarsi per il proprio interesse. Tutta la popolazione deve mobilitarsi per difendere gli interessi di una categoria di lavoratori la cui attività riguarda il benessere di tutta la collettività.
Francesco Robustelli
Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione
Consiglio Nazionale delle Ricerche
Via San Martino della Battaglia 44,
00141 Roma
e-mail: francesco.robustelli@istc.cnr.it
Francesco Robustelli è laureato in scienze biologiche ed è libero docente in psicologia. Ha insegnato Psicologia Comparata all’Università “La Sapienza” di Roma. Ha inoltre lavorato all’Istituto Superiore di Sanità, all’Università di Sassari, alla Yeshiva University di New York e al Consiglio Nazionale delle Ricerche, dove si trova tuttora. Attualmente svolge ricerche nel campo della psicologia sociale, soprattutto sul fenomeno della violenza. È il rappresentante per l’Italia di una rete internazionale dell’UNESCO per l’educazione contro la violenza.
Riferimenti bibliografici
Bajo V. (1989), Denunciare chi?, Assisi, Cittadella Editrice.
Cillis A.R. (2009), Cure costose e malasanità, “Salute di Repubblica”, 7 maggio, 20.
Cornaglia Ferraris P. (2009), La task force dell’emergenza funziona bene, “Salute di Repubblica”, 23 aprile, 19.
Cristofanetti Boldrini M.G. (1982), La morte al policlinico Gemelli, Roma, Centro letterario del Lazio.
Crivellini M. (2009), Se il paziente governa la sanità, “Salute di Repubblica”, 21 maggio, 21.
Ghirotti G. (1973), Lungo viaggio nel tunnel della malattia, Torino, EDA.
Iandolo C. (1990), L’etica al letto del malato, Roma, Armando.
la Repubblica (1993), Sadismo in corsia, l’ora del giudizio, 3 agosto.
Paissan M. (2009), La riservatezza ‘ferita’ in Asl e ospedali, “Salute di Repubblica”, 23 aprile, 42.
Quaranta G. (1982), L’uomo negato, Milano, Franco Angeli. |
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