Quando ero piccolo pensavo che la libertà consistesse nel fare tutto quello che mi piaceva. E così mi ripetevo che da grande avrei girato il mondo cogliendo il piacere e fregandomene di tutte le regole. Nessuno era mai riuscito a spiegarmi che cosa fosse la libertà, a farmi cambiare idea. L’unica definizione che mi imponevano quasi come una stanca litania era quel vecchio motto semplicistico, a dire il vero anche un po’ridicolo: “la mia libertà finisce dove comincia la tua”. E così la libertà di scalmanarmi ai giardinetti finiva e restava repressa sul nascere dalla libertà dei vecchietti che volevano starsene sulle panchine a godere la pace dei giardini puliti senza bambini che inventassero giochi più rumorosi del cinico traffico cittadino. Da lì il mitico cartello mille volte abbattuto che recitava il bastardo divieto di calpestare le aiuole.
Crescendo, poi, notavo che era sempre la libertà dei più grandi a prevalere su quella dei bambini, e poi quella dei più forti su quella dei più deboli, quella dei più ricchi su quella dei più poveri, quella dei più influenti su quella dei senza voce, dei senza potere, dei senza tetto, dei senza tutto.
La mia fortuna, per quanto riguarda la libertà, fu quella di incontrare la stampa anarchica. Leggendo e studiando compresi che la libertà inizia quando sei consapevole delle tue azioni.
In altre parole se non sai quello che stai facendo, se non ti soffermi sulle conseguenze generate dalle tue azioni, se ti muovi esclusivamente assecondando riflessi condizionati non potrai mai dirti libero. Se non hai il coraggio di mettere in discussione tutto quello che ti hanno imposto come buon comportamento, se non vuoi approfondirlo e giudicarlo con il tuo libero arbitrio, con la tua sensibilità, come puoi credere di essere libero?
Conclusi allora, che la libertà non me l’avrebbe regalata nessuno, e che se ne volevo anche una piccola fetta, me la dovevo conquistare. Una volta abbandonate le illusioni in technicolor offerte dal mondo del lavoro, una volta gettati dalla finestra i condizionamenti patriarcali dell’uomo bianco, ricco, imprenditore vincente e, quindi, libero, una volta lette le appassionanti vicende delle innumerevoli controculture che, in mille e più modi, avevano tentato l’assalto al cielo e alla terra, decisi che il mio tentativo l’avrei giocato sulle colline, vicino ai boschi e lontano dal lobotomizzante tritatutto spettacolare della città.
E fu proprio in campagna che, ricercando la libertà, trovai un paesaggio desolante: cani alla catena, cavalli imbrigliati, maiali segregati a vita, conigli stivati in piccole gabbie, galline chiuse da reti metalliche, pecore circondate da recinti elettrificati, asini costretti a portare enormi carchi di legna. E tutto questo era parte di un allegro e romantico paesaggio bucolico, naturale, genuino. Sfruttare un animale, legarlo, portargli via figli, latte, uova, piume, pelle, carne e libertà per poi ucciderlo quando non serviva o non c’era più spazio per lui, era cosa buona e giusta che si opponeva alla vita alienante della città. Anche i vari gruppi alla ricerca di soluzioni libertarie non facevano eccezione. Nei casi “migliori” l’animale era pur sempre un mezzo che consentiva di spostarsi senza usare un motore, di smuovere pesi, di lavorare la terra con minore fatica. Come un vecchio adagio si ripeteva la logora cantilena utilitarista: l’animale deve rendere. In cambio del cibo lui lavora.
L’animale trattato bene, quindi, non era quello che si aiutava o sfamava in caso di bisogno, quello con cui si cercava di comunicare rispettando la sua natura, tentando un approccio, uno scambio, provando un insolito e reciproco piacere nell’osservarsi e nel conoscersi; così diversi e così simili, gente di passaggio alla ricerca di collaborazione, mutuo appoggio, libertà. No, l’animale trattato bene, era quello che, magari, non veniva bastonato, o quello che, ogni tanto, poteva trascorrere qualche ora fuori dai posti assegnati. Proprio come lo schiavo trattato bene, quello che rendeva tanto e si mostrava con orgoglio in pubblico per proclamare la potenza, ma anche la liberalità del padrone.
Oramai quasi tutti, in teoria, sono contrari ai metodi raccapriccianti dell’allevamento intensivo, e questi metodi possono continuare perché nessuno può vedere ciò che accade. È tutto ben nascosto e protetto all’interno di grandi capannoni dove gli animali non vedono neppure la luce del sole. In campagna, invece, si vede tutto. E questo tutto, che è composto da sfruttamento, segregazione, uccisione e negazione delle più elementari forme di libertà, è accettato con la massima tranquillità. Addirittura si arriva a considerare che un tale atteggiamento nei confronti degli animali sia naturale, come se mucche, capre, oche, galline, conigli non fossero esseri che provano dolore, rabbia, sorpresa, che formano branchi e famiglie e coppie, che si prendono cura dei piccoli, che si costruiscono rifugi, tane, nidi, che giocano, che hanno forme di organizzazione sociale, che hanno paura di morire. No, niente di tutto questo, vengono considerati esclusivamente mezzi da cui trarre profitto, cibo ed energia in maniera “libera, pulita ed ecologica”.
Verrebbe da chiedersi come sia possibile.
E la risposta è chiaramente da individuare nel forte condizionamento specista. Cavalli cavalcati, mucche che tirano vecchi aratri, scene di caccia, animali in gabbia sono immagini che hanno attraversato il nostro immaginario da quando siamo piccoli. Quadri, illustrazioni di libri di testo, cartelloni pubblicitari, spot, film, documentari non fanno altro che presentarci gli animali (principalmente gli animali considerati e denominati ufficialmente “da reddito”) come naturalmente destinati a servire i nostri bisogni. E la cosa è talmente invasiva, potente, colorata, efferata che è divenuta parte di noi, un condizionamento talmente potente da farci dimenticare la realtà, da impedirci di vedere quali sono le conseguenze di “semplici” azioni come mangiare una fetta di carne, domare un cavallo e cavalcarlo, rubare il latte a una mucca che non potrà più nutrire il suo piccolo che, a sua volta, dovrà essere macellato, o entrare in un circo dove un umano costringerà una foca ad effettuare esercizi innaturali per divertire un pubblico del tutto inconsapevole del suo drammatico viaggio e del suo violento addestramento.
Questo condizionamento, che ovviamente vive e prospera sulla base di precisi e colossali interessi, non si accontenta più delle vecchie immagini reali, ma ricorre, nell’indifferenza generale, a vere e proprie mistificazioni presentando confezioni con maialini contenti di diventare prosciutti, spot con mucche libere e felici di regalare il loro latte, manifesti con scenari bucolici in cui la natura, pur piegata al nostro servizio, trionfa. Una falsità sopra l’altra che digeriamo e assimiliamo senza sosta per poi scegliere “liberamente” il tipo di alimentazione che riteniamo più adatto.
Il veganesimo, quindi, con il suo modo di alimentarsi, di vestirsi, di consumare, di protestare e di agire direttamente per abbattere tutte le barriere speciste, invita a liberarsi subito da questo titanico condizionamento, a ricercare la propria libertà considerando con attenzione i mezzi per raggiungerla.
Perché la nostra libertà non finisce dove comincia quella degli altri animali.
La nostra libertà si incontra, si interseca e procede inarrestabile insieme a quella di tutti gli altri animali
Troglodita Tribe S.p.A.f.
(Società per Azioni felici)
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Antispecismo: opuscolo di 110 pagine creato dall’associazione “Oltre la specie” Onlus.
Per riceverlo potete contattare l’associazione via e-mail
scrivendo a: acquisti@oltrelaspecie.org |