In base a cosa stabiliamo che un autore politico è importante? Possiamo valutare l’importanza di un autore dall’originalità delle sue idee, dagli aspetti innovativi del suo pensiero, e questo è un primo, fondamentale, criterio. Ma uno scrittore politico può essere ritenuto importante anche sotto un altro punto di vista, ossia per l’influenza che riesce ad esercitare presso i contemporanei ed i posteri. Da questo punto di vista, un autore è importante non solo per la sua capacità di influenzare le persone che si riconoscono nella sua ideologia, ma anche per il potere di seduzione nei riguardi di coloro che non si identificano nella sua visione complessiva del mondo, oppure che, addirittura, in una qualche misura la osteggiano. Uno scrittore politico che possieda queste qualità riesce a suscitare interesse in strati più o meno ampi della società, a sfatare luoghi comuni e pregiudizi, persino, in alcuni casi, ad orientare il dibattito pubblico rispetto a certi specifici temi.
Colin Ward ha rappresentato questo genere di scrittore. Egli è stato infatti tra i pochi libertari che, nella seconda metà del XX secolo, è riuscito ad uscire dal “ghetto” in cui sono stati – e si sono – rinchiusi gli anarchici e a comunicare le idee libertarie ad un’ampia cerchia di persone, in tutto il mondo. Come è riuscito Colin Ward in questa impresa? A cosa è dovuto il suo successo?
A ben considerare, Ward non è stato un teorico o filosofo originale dell’anarchismo, anzi neppure credo possa essere definito in questi termini: egli stesso, con una modestia davvero eccessiva, dichiarava di non essere «un pensatore» (1). Da un punto di vista dottrinale, egli nulla ha aggiunto al pensiero anarchico classico, come invece ha fatto in positivo, ma anche in negativo – dato il suo tentativo di rinnesto nella filosofia anarchica di massicce dosi di hegelismo – Murray Bookchin. Su un piano teorico l’anarchismo di Ward è pienamente inserito nel solco della tradizione anarchica classica, socialista (ma non accentuatamente classista) ed europea, sebbene egli abbia avuto una straordinaria capacità di recepire tutta una serie di suggestioni moderne che gli venivano dai più disparati ambiti della cultura contemporanea, anarchica e non.
L’originalità di Ward mi pare debba essere piuttosto ricercata nel suo fantastica, veramente unica, capacità di rendere attuali le idee anarchiche, di valorizzare la carica propositiva dell’anarchismo. L’anarchismo di Ward è certo una teoria critica del potere costituito e del potere – o meglio del dominio – in quanto tale; ma è anche – soprattutto – una proposta alternativa e concreta di costruzione quotidiana di una società libertaria, informata a relazioni sociali fondate su principi anarchici. Una proposta, quella di Ward che, come ha giustamente ricordato Codello (2), si fonda sulla valorizzazione degli elementi libertari già presenti nella società attuale, come in quelle passate: una società anarchica esiste da sempre, «come un seme sotto la neve» (3), si legge nella premessa a quel piccolo capolavoro che è Anarchy in action. L’anarchismo di Ward, nella migliore tradizione anarchica, non investe solo la sfera politica ma ogni ambito dell’esistenza e dell’esperienza umana, soffermandosi in particolare su alcuni ambiti critici della società: il lavoro, la scuola, i trasporti, l’ecologia, la pianificazione urbanistica. E avendo riguardo, soprattutto, di cercare soluzioni ai problemi delle fasce più deboli della popolazione: i bambini, i poveri, gli sfrattati, i “devianti”, etc.
Altri, nei mesi e negli anni a venire, rifletteranno più diffusamente sulla visione anarchica di Colin, e sulla sua preziosa – ed inesauribile, nel metodo – eredità. In questa sede vorrei limitarmi a richiamare l’attenzione sul seguente punto. Non mi sembra un caso che gli anarchici che più sono riusciti a far crescere le idee libertarie al di fuori dei sempre più ristretti ed asfittici circuiti dell’ultrasinistra negli ultimi decenni siano stati, in un certo senso, molto più figli di Kropotkin che di Bakunin. Mi riferisco, oltre a Ward, a Paul Goodman e Murray Bookchin. Occorre riconoscere che Bakunin, di cui tutti gli anarchici si sentono legittimamente figli e debitori e del quale sono giustamente ed orgogliosamente fieri, è un pensatore le cui idee risultano ancor oggi in molti casi preziose ma anche nel quale è presente una pericolosa e violenta carica nichilistica, pantoclastica e messianica: una carica dannosa, sebbene comprensibile, per i suoi tempi, ma soprattutto nociva e fuori tempo massimo per i nostri. È stato Bakunin a scrivere: «Per moralizzare la società attuale dobbiamo cominciare innanzi tutto a distruggere da cima a fondo tutta questa organizzazione politica e sociale fondata sulla disuguaglianza, sul privilegio, sull’autorità divina e sul disprezzo dell’umanità» (4); è stato lui a sostenere che «un’insurrezione popolare, per la sua stessa natura, è istintiva, caotica, distruttiva, ed esige sempre grandi sacrifici personali ed enormi perdite di proprietà pubblica e privata. Le masse sono sempre disposte a sacrificare se stesse; ed è ciò che le trasforma in un’orda brutale e selvaggia, capace di realizzare imprese eroiche e apparentemente impossibili… Questa passione distruttiva, è vero, è ben lontana dall’essere sufficiente a realizzare gli obbiettivi più alti della rivoluzione; ma senza di essa la rivoluzione sarebbe impossibile. La rivoluzione esige un’ampia ed estesa distruzione, una distruzione feconda ed autorinnovantesi, poiché in questo modo e solo in questo modo può sorgere un uomo nuovo» (5). A lui dobbiamo infine la nota massima secondo cui «la passione distruttrice è una passione creatrice», che si è instillata nella forma mentis dell’anarchico militante-tipo, divenendo quasi uno stile di pensiero.
Ebbene, questa massima non solo è falsa, perché dalla tabula rasa non rinasce in modo automatico nulla di necessariamente migliore di ciò che si è distrutto, ma anche pericolosa, perché storicamente ha consentito a nuovi padroni, a piccoli e grandi criminali, a parvenu del potere – e perciò assetati di esercitarlo nella maniera più dispotica – di instaurare un dominio peggiore di quello che si era distrutto. Certo, Bakunin metteva in guardia contro il rischio che la rivoluzione producesse nuovi padroni, ripeteva che la distruzione rivoluzionaria doveva riguardare le cose più che le persone, che bisognava evitare bagni di sangue giacobini. Tuttavia è un fatto che Lenin, Mussolini, Hitler, Stalin e Franco sono il prodotto, per quanto non intenzionale, della dinamica delle rivoluzioni (6), giacché dalla guerra civile, da quella sorta di stato di natura hobbesiano creato dalle insurrezioni, dallo spirito rivoluzionario e dal discredito totale gettato su tutto ciò che esiste, su tutto ciò che l’umanità ha faticosamente conquistato nei secoli, per tentativi ed errori, deve emergere, in qualche maniera, un ordine; e se la gente non ha una lunga abitudine a gestirsi da sé, finisce per affidarsi a chi – a differenza degli anarchici – ha pochi peli sullo stomaco e promette – ed è effettivamente in grado di mantenere – un ordine nuovo, poco importa se ciò significa passare come un rullo compressore sopra la vita di milioni di esseri umani.
A poco serve, a questo riguardo, invocare il fatto che le rivoluzioni sono avvenute nella “pratica” diversamente da come erano state pensate nella “teoria”. In base a questo principio dovremmo dare ragione ai fascisti e ai comunisti quando dicono che quello che si è realizzato non è il “vero” fascismo o il “vero” comunismo, che l’errore è dovuto alle circostanze o agli uomini che hanno tentato di realizzare l’idea, non all’idea in se stessa. In realtà, un’idea politica va giudicata propriamente dalla “pratica” che realizza: chi ha teorizzato la “filosofia della prassi” non può esimersi da un giudizio sulla prassi; chi ha affidato alla storia, come ad una sorta di divinità, il compito di realizzare l’idea, non può che accettare il giudizio della storia; chi invoca la “tesi delle circostanze” risulta poco credibile essendo le “circostanze” in gran parte il prodotto dell’azione di chi le usa a giustificazione ex post. Il fascismo e il comunismo sono stati applicati per decenni con popoli diversi, a diversi gradi di sviluppo, con storie diverse alle spalle: i risultati, come noto, sono stati sempre con gli stessi. Allo stesso modo, se la rivoluzione, così come è stata concepita a partire 1789 – la rigenerazione totale del genere umano, l’idea di creare una società dove ogni dominazione sia abolita – ha dato sempre la stessa risultanza, questo non è avvenuto a causa delle “circostanze”, ma in virtù dei suoi vizi congeniti. È chiaro che senza l’elemento sovversivo, senza lo spirito generale di ribellione contro il principio di autorità in quanto tale e contro tutte le sue manifestazioni storiche passate, presenti e future, l’anarchismo non sarebbe più anarchico; ma questo spirito può trovare forme diverse di espressione. Se la rivoluzione è uscita, nei paesi occidentali, dall’agenda politica, è proprio perché non ha funzionato, e non ha funzionato perché non può funzionare.
Ward, sulla scia di Kropotkin, di cui è stato divulgatore e originale interprete – non però acritico e scolastico ripetitore: si vedano le sue critiche all’ottimismo evoluzionistico e alla teoria della “presa nel mucchio” (7) – ha preferito cercare di capire come far crescere in questa società quello che già prefigura, e in parte realizza, una possibile organizzazione anarchica della società. Oltre che kropotkiniano, quello di Ward è un anarchismo “anglosassone”, post-ideologico – di qui la freschezza che sprigionano i suoi scritti – e post-rivoluzionario: «libertà e autorità sono sempre in lotta tra loro» (8); «la lotta finale non esiste, esiste solo una serie di lotte partigiane tra loro» (9); «questa convinzione mi esclude automaticamente da coloro che pensano in termini di rivoluzioni di massa» (10); «la questione di fondo, di conseguenza, non è quella di stabilire se l’anarchia sia o meno possibile, ma piuttosto se sia possibile allargare il campo d’azione e l’influenza dei metodi libertari, fino al punto che essi diventino i criteri normali coi quali gli esseri umani organizzano la loro convivenza» (11).
In conclusione: il pensiero di Ward rappresenta, e deve rappresentare, per l’anarchismo, una opportunità di riscatto e una fonte di speranza. Una opportunità di riscatto perché dovrebbe spingere coloro che si riconoscono nelle idee anarchiche a “sporcarsi” ancor più le mani, ad occuparsi dei problemi delle persone e dei problemi sociali proponendo soluzioni concrete e già, almeno in parte, realizzabili, “falsificabili” ossia sottoposte alla prova empirica e al continuo vaglio dell’esperienza vissuta. Il modo di concepire l’anarchismo proposto da Ward permette, tra le altre cose, di ripensare – forse – lo stesso movimento anarchico, nel senso che questo potrebbe acquisire una dimensione più allargata di quella attuale. A fianco dei nuclei più politicizzati e militanti – peraltro necessari perché esista un movimento politico – potrebbero benissimo convivere, con pari dignità, singoli e gruppi che non hanno, o non hanno più, voglia di fare militanza attiva, ma che invece reputano più opportuno di cercare di realizzare relazioni non gerarchiche nell’ambito del proprio posto di lavoro, del quartiere in cui vivono, etc., senza dare una forma anarchica – in senso strettamente ideologico – e perfettamente coerente alle loro azioni: la vita impone – a tutti, anche ai più “puri” – faticosi compromessi quotidiani, e l’idea che non si possano e si debbano accettare compromessi è, oltre che sbagliata, continuamente smentita dalla pratica. Il problema non è il compromesso in sé, ma la soglia, il livello dei compromessi che si ritiene possa essere accettato affinché l’azione politica sia incisiva ed efficace, e tale soglia non può essere predeterminata in maniera astratta, una volta per tutte, ma deve necessariamente essere calibrata alla situazione storica e contingente; fermo restando, ovviamente, che un certo numero di compromessi sono incompatibili con l’ideologia propugnata. In effetti, uno dei problemi del movimento anarchico è la continua emorragia di persone. Ad eccezione di un nucleo di “stanziali”, che vivono e invecchiano nell’anarchismo militante, il movimento anarchico è popolato e attraversato da selve di “irregolari” che dopo una permanenza più o meno breve scompaiono – quasi tutti – per sempre. Il fatto è che questi compagni, o perché “perdono la fede”, ossia si convincono della impossibilità della realizzazione, per lo meno immediata, delle idee anarchiche, oppure perché identificano l’essere anarchici con l’essere dei militanti anarchici, non avendo uno spazio fatto a loro misura dentro il movimento, se ne tirano fuori. L’anarchismo di Ward potrebbe risultare molto utile da questo punto di vista.
Ma esso rappresenta anche una fonte di speranza, perché mostra a noi, e soprattutto a chi non la pensa come noi, che l’anarchia non è un’isola utopica la cui realizzazione, affidata ad un’ideologia millenarista e catastrofista, è nei fatti rinviata sine die, ma è un modo di sentire, di vedere il mondo, di costruire giorno per giorno la vita quotidiana e le relazioni sociali, già operante qui ed ora. Paolo Finzi ricordava la vivissima impressione che suscitò in suo padre, che aveva sempre considerato gli anarchici dei romantici sognatori, la lettura di Colin Ward. A me viene in mente anche Malatesta, che – non ricordo in quale scritto – parlava della concreta realizzabilità dell’anarchia, che non è solo una bella idea, concetto su cui, diceva Malatesta, potrebbe convenire anche un poliziotto. Oppure mi viene alla mente l’esempio della “casalinga di Voghera”, tirato in ballo, qualche anno fa, da Amedeo Bertolo, per il suo “buon senso” così poco ribelle (12). Ebbene: penso che leggendo Colin Ward non solo il padre di Finzi, ma anche il poliziotto di Malatesta e la “casalinga di Voghera” di Bertolo potrebbero, se non pensare che l’anarchia così intesa è una pratica auspicabile di vita, perlomeno ritenere che forse è possibile; con ciò incrinando l’immaginario istituito su cui si fonda il dominio.
Francesco Berti
Note
- D. Goodway, Conversazioni con Colin Ward. Lo sguardo anarchico, Eleuthera, Milano, 2003, pp. 113.
- F. Codello, La lezione di Colin Ward, «A Rivista anarchica», n. 352 , p. 8.
- C. Ward, La pratica della libertà. Anarchia come organizzazione, Eleuthera, Milano, 1996, p. 11.
- M. Bakunin, Dio e lo Stato, in Id., La libertà degli uguali, a cura di G.N. Berti, Eleuthera, Milano, 2000, p. 99.
- M. Bakunin, Stato e anarchia, a cura di S. Dolgoff, Antistato, Milano, 1976, p. 373.
- Su questo aspetto si veda, tra gli altri, P. Gueniffey, La politique de la Terreur. Essai sur la violence revolutionnaire, 1789-1794, Gallimard, Paris, 2000.
- D. Goodway, Conversazioni con Colin Ward, cit., pp. 104 e 118.
- C. Ward, L’anarchismo e la crisi del socialismo, «Volontà», 1984, n. 4, p. 71.
- C. Ward, La pratica della libertà, cit., p. 26.
- C. Ward, Che significato avrà domani l’anarchismo, «A Rivista anarchica», 1993, n. 7, p. 16.
- C. Ward, La pratica della libertà, cit., pp. 193-94.
- A. Bertolo, Al di là della democrazia. L’anarchia, Volontà», 1994, n. 4, p. 13.
Milano
domenica 30 Maggio, ore15.00
presso la Casa della cultura – Via Borgogna, 3
(MM San Babila)
Anarchia come organizzazione
ricordando Colin Ward
introduce il dibattito:
Francesco Codello
Intervengono:
David Goodway
Goffredo Fofi
Vittorio Giacopini
Giacomo Borella
Elis Fraccaro
verrà proiettata un’intervista esclusiva a Colin Ward a cura di Paolo Cottino
promuovono: “A” rivista anarchica /
Centro Studi Libertari / Elèuthera /
Il laboratorio libertario / Libertaria / Lo straniero |
ricordando Colin Ward
L’anarchico gentile
di Roman Krznaric Colin Ward era uno dei più grandi pensatori anarchici dell’ultimo mezzo secolo e un pioniero nel campo della storia sociale. Si è spento febbraio scorso all’età di ottanta-cinque anni, lasciando un lascito di più di trenta libri e un grande seguito fra attivisti, educatori e scrittori – il sottoscritto compreso – che hanno tratto ispirazione dal suo approccio radicale al cambio sociale, che ai sogni utopistici sulla rivoluzione ha sempre preferito l’azione pratica di base. L’effusione delle necrologie sul giornale “The Guardian“ ed altrove è la testimonianza della sua influenza.
Ho incontrato la sua opera per prima volta nel 1997 sul giornale anarchico “Freedom”, che avevo cominciato a leggere come antidoto ai giornali tradizionali, che erano ossessionati delle elezioni politiche di quel anno. Rapidamente iniziavo a divorare i suoi libri, dal classico Anarchy in Action [trad. it. Anarchia come organizzazione] (1973) ai titoli più stravaganti come Goodnight Campers! The History of the British Holiday Camp [Buonanotte villeggianti! La storia del campo di villeggiatura inglese] (1986). Poi ho fatto amicizia con Colin e sua moglie Harriet (anche lei pensatrice formidabile e scrittrice) e nei prossimi dieci anni ho passato tanti bei soggiorni da loro nella contea di Suffolk. Colin era un uomo gentile e un narratore favoloso. Lui ridacchiava come un ragazzo, aveva uno scintillio negli occhi, e spesso si metteva a cantare improvvisamente nel momenti più strani, tipo mentre masticava una salsiccia, attingendo alla sua memoria prodigiosa – la quale, purtroppo, svaniva nei suoi ultimi anni – per ricordarsi dei testi delle canzoni dalla sua infanzia vissuta nella contea di Essex negli anni 30. Non è da sorprendersi che sia suo figlio che i suoi due figliastri hanno deciso di fare il musicista.
Anche se si guadagnò una reputazione internazionale e fu invitato a tenere conferenze in tutto il mondo, solo raramente Colin approfittava per viaggiare all’estero. Invece, uno dei piatti forti della sua settimana era un viaggio in autobus (non aveva la patente) dalla sua casa nella campagna alla città di Ipswich, dove andava al cinema con Harriet e faceva incursioni nella biblioteca locale, della quale dev’essere stato l‘utente più fanatico. A casa, quando non stava leggendo, passava la maggior parte del suo tempo battendo sulla sua vecchia macchina da scrivere, buttando giù un altro libro o rispondendo diligentemente alla sua corrispondenza, sia che veniva da anarchici coreani o da esperti norvegesi sui allotment che facevano parte del suo seguito globale.
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Colin Ward |
Anarchia in azione
Ciò che realmente amavo di Colin era la sua capacità di vedere il buono nelle persone. Lui non sprecava la sua energia attaccando quelli le cui opinioni non condivideva, e normalmente riusciva a trovare qualche parola benevola anche per loro. Dell’anarchico americano notoriamente suscettibile Murray Bookchin, lui disse una volta, “sono piuttosto felice che noi ci troviamo solamente ogni quindici anni più o meno, perché ci informiamo sulla salute e sulla famiglia piuttosto che su quelle cose che ci unirebbero o ci dividerebbero“. Quell’era il limite di Colin in termini della critica personale, e considerava essenziale evitare le lotte intestine all’interno del movimento anarchico.
La mia storia preferita su di lui – che forse avrò abbellito un po’durante gli anni – riguarda il suo periodo a Wandsworth Technical College nel Sud di Londra durante gli anni sessanta come insegnante della nuova materia di Studi Liberali. La maggior parte dei suoi studenti erano giovani apprendisti nel settore della costruzione, e quando entrò per dare la sua prima classe chiese a loro cosa volevano – quali difficoltà avevano nelle loro vite in cui lui potesse realmente aiutarli? Risultò che la loro più grande preoccupazione era la mancanza di sonno. Quindi Colin debitamente riempì il cervello della letteratura dotta sul sonno e si mise ad insegnare un trimestre di classi sull’arte di dormire. È una storia che è sempre rimasta con me come insegnante, l’esempio definitivo di come fare uno sforzo per venire incontro ai bisogni dei propri studenti.
Per l’uomo medio l’immagine stereotipica dell’anarchico è forse il russo dell’ottocento con bomba in mano o il giovane in maschera nera partecipando ad una manifestazione anti-capitalista. Colin non era nessuno dei due. Lui veniva da una tradizione differente dell’anarchismo, una che vedeva il cambio sociale emergere non dalla violenza e dalla rivoluzione, ma dall’espansione della cooperazione sociale e dell’aiuto reciproco nella vita di tutti giorni. I suoi scritti celebrano le cooperative degli operai, le associazioni degli inquilini, i coltivatori degli allotment, i parchi giochi per bambini, le Società di soccorso mutuo ed enti tipo la Royal National Lifeboat Institution [L’Istituzione Nazionale Reale dei la Battelli di Salvataggio]. È qui dove lui vedeva “l’anarchia in azione”: le persone organizzandosi su basi volontari, non-gerarchiche e decentrate – un modello sociale che riflette l’anarchismo di una delle influenze principali su Colin, lo scrittore e geografo russo Pietro Kropotkin. Colin credeva che una società anarchica non era un stato futuro immaginato, ma piuttosto qualcosa che esiste qui ed ora, tutt‘intorno a noi. Era una forza latente, “come un seme sotto la neve”, come diceva lui, che aveva il potere di spingere indietro i confini dello stato centralizzato e del sistema capitalista.
A Colin piaceva citare l’anarchico tedesco del primo novecento, Gustav Landauer, che scrisse:
“Lo stato non è qualcosa che si possa distruggere con una rivoluzione, ma è una condizione, un certo rapporto tra esseri umani, una modalità del comportamento umano: lo distruggiamo stabilendo nuove relazioni, comportandoci in modo diverso”.
Ecco l’idea che il cambio sociale non è una questione di leggi nuove, governi, o politiche, ma di creare una rivoluzione di relazioni umane dal basso verso l’alto, e di modificare il modo in cui l’uno trattava l’altro. Questo era un approccio che aveva un impatto profondo sul mio proprio pensare, allontanandomi dal mio primo interesse alle politiche dei partiti tradizionali e il potere dello stato (prima ero docente di politica all’università) verso lo sviluppo delle mie idee sull’empatia come forza per il cambio sociale. Gli scritti di Colin sulla filosofia sociale di Martin Buber nel suo libro Influences [Influenze] (1991) mi presentò un altro pensatore che ha plasmato profondamente le mie credenze sul potere di empatia.
Fuori dei circoli anarchici, Colin aveva un impatto notevole come storico sociale ed orale, conducendo i suoi lettori in panorami inaspettati per sentire voci che generalmente i storici tradizionali trascuravano. Il suo libro The Allotment: Its Landscape and Culture [L’Allotment: il suo paesaggio e la sua cultura] (scritto con David Crouch, 1988) mostrò come gli orticultori sono degli improvvisatori ingegnosi, mentre The Child in the City [trad. it. Il bambino e la città] (1978) rivelò la creatività straordinaria dei bambini che giocavano nei bassifondi urbani. Uno dei suoi ultimi libri, Cotters and Squatters [Contadini ed occupatori] (2002) che raccontava la storia dell’occupazione abusiva nella Gran Bretagna dal diciassettesimo secolo, era tipico della sua opera, portando alla vita un‘intera subcultura sociale sulla quale sono in poche le persone che ne sanno qualcosa. Ciò che rese così avvincenti i libri di Colin era non solo la straordinaria diversità e l’originalità dei suoi argomenti, ma anche il suo stile conversazionale e la sua prosa accessibile: era estremamente allergico al gergo teoretico ed accademico. Nonostante queste virtù, trovò difficile convincere gli editori della corrente principale di interessarsi dei suoi libri, e quindi trovava altrettanto difficile guadagnare da vivere come scrittore – anche se riuscì a crearsi un seguito di culto fra gli altri autori dell’underground inglese, tra i quali George Monbiot, Richard Mabey e Roger Deakin.
Il benessere dell’umanità
Colin aveva un disgusto estremo per il separatismo nazionalista, religioso o politico. Lui rifiutò le ideologie e i patriottismi semplicistici che hanno portato le persone ad uccidersi a vicenda. Nell’anno 1942, come sedicenne, durante i giorni più scuri della Seconda guerra mondiale, ebbe la cura di ricopiare nel suo quaderno le righe seguenti, scritte dal rubricista Bill Connor sul giornale The Daily Mirror:
“I nostri bambini sono protetti dal difterite da ciò che hanno fatto un giapponese e un tedesco. Sono salvati dal vaiolo dal lavoro di un inglese. Sono salvati dalla rabbia a causa di un francese. Dalla nascita fino alla morte sono circondati da un oste invisibile: gli spiriti degli uomini che non hanno mai servito una lealtà minore che il benessere dell’umanità.“
Colin curava teneramente questa citazione umanizzante come cardine della sua propria visione del mondo, ma con il tempo lui stesso venne gradualmente ad occupare le sue righe. Ora Colin Ward fa parte di quell’oste invisibile che circonda le nostre vite, di cui il lavoro continuerà a plasmare senza clamore il benessere umano e a creare la rivoluzione nelle relazioni umane di cui abbiamo così disperatamente bisogno.
Roman Krznaric |