A proposito di economia partecipativa
Vorrei intervenire nel merito della proposta di”economia partecipativa”, come formulata da Marco Gastoni su “A” 349. Preciso, per correttezza verso Gastoni ma anche dei lettori, che non ho potuto consultare, per motivi di tempo, i siti di “Parecon” da lui citati, che sicuramente esemplificano la riflessione che Gastoni svolge nel saggio breve (ché di questo si tratta) qui contenuto. Preciso che mi sento particolarmente in sintonia con la proposta formulata, in quanto rappresenta indubbiamente una proposta alternativa, da parte della sinistra libertaria, per fuoriuscire dal capitalismo, senza tornare in vecchi schemi marxisti-statalisti, ma neppure nella fiacca riproposizione di formule di stampo malatestiano, nobili quanto sterili nella loro inapplicabilità.
Questa non è una excusatio non petita, ossia non chiedo scusa a priori per critiche da formulare, ma gli appunti che seguono sono veramente riflessioni ad alta voce e segnate a margine (letteralmente, non metaforicamente), riflessioni che attendono completamento e chiarimento (sono stufo di “dibattiti”) da parte di Gastoni ma anche di ogni possibile lettore-lettrice di”A”, di chiunque voglia intervenire:
- L’idea partecipativa, che certo non si realizza – qui, sì, c’è polemica – nelle primarie unidirezionali del PD o in qualunque altra “assise” partitocratica, è fondamentale e qui nelle proposte di “Parecon” e di Gastoni viene riproposta con forza, il che è già un elemento di forza della loro proposta. L’articolazione concreta, che coinvolge economia e politica (senza separazione reciproca) è estremamente importante, come appunto il fatto che non si parli di e in politichese, gergo non incomprensibile ma distante dai problemi reali;
- “Parecon” propone di remunerare l’impegno e il sacrificio spesi per un lavoro utile alla società“ (testo citato, in “A” 349, pag. 82). Scompare da questa formulazione il concetto fourierista di piacere nel lavoro, anche nella fatica (Charles Fourier faceva anche l’esempio, un po’ maleodorante, di chi ama trasportare deiezioni umane e simili, ma anche esempi molto più consoni alla “comune concezione” del piacere), mentre sembra dominarvi il retaggio biblico (nella Genesi) della condanna comminata da Jahwe ad Adamo ed Eva dopo che ebbero mangiato un frutto dell’ “albero della conoscenza”. Nella Bibbia, però, comunque si giudichi il testo, storicamente e culturalmente condizionato (i libri storici del’Antico Testamento, anche se meno del Nuovo Testamento, sono soggetti a revisioni, a tre scritture e riscritture della “parola di Dio”), il lavoro come sacrificio e condanna è appunto inteso come punizione, non come elemento di riscatto. Ma assumere il “sacrificio” (non solo l’impegno) come metro per la stessa retribuzione rischia di essere un elemento “regressivo” rispetto a quanto ci si aspetterebbe, in un’ottica libertaria e di alternativa all’esistente;
- L’idea che ci siano esenzioni dal lavoro non piacevole (malattie, altri problemi particolari, anche nella formulazione di Gastoni), che sarebbe comunque da svolgere rimanda comunque agli”esperti”. Ma gli esperti, poi, sono da controllare, come il Parecon sostiene giustamente. Ciò porterebbe a un gioco di rimbalzi continui. In altri termini: chi decide, in ultima istanza, la comunità o gli “esperti”? Una querelle potenzialmente interminabile, comunque fondamentale;
- Più in generale, l’idea che più ore di lavoro o ore di lavoro aggiuntive corrispondano a una retribuzione maggiore rimandano all’idea fatalmente legata al peggio del capitalismo produttivista, quella esemplificata dagli ”straordinaria”. Esistono poi attività in cui non è il “tempo di lavoro” inteso aritmeticamente (come sommatoria di ore, cioè) a comportare una maggiore, anzi migliore qualità di lavoro. Penso, in particolare all’attività intellettuale e alle professioni d’aiuto (l’educatrice o lo psicologo, l’assistente sociale, il pedagogista clinico, il consulente tecnico di parte nei processi etc.), ma spesso è il caso anche di professioni”artigianali”.;
- L’idea di una riduzione del lavoro (non solo “lavorare meno, lavorare tutti/e”, che è mero slogan), pur autorevolmente documentata in un testo neanche poi antico (l’edizione francese originale è del 1980, l’edizione italiana di due anni successiva) come quello di André Gorz “Adieux au prolétariat”, “Addio al proletariato” (in italiano, Roma, edizioni Lavoro), che certo non era “La Bibbia” (cfr. anche sopra) ma conteneva elementi interessanti e documentati, sembra sparire dall’orizzonte di Parecon. Non sarà un’ impropria resa alla logica del “lavora-consuma-crepa”, ora fomentata dalla “crisi”? Direi di no, dati gli assunti di fondo del Parecon e di Gastoni, ma...;
- Vedo il pericolo (ma qui rimando a quanto detto sopra: mi manca totalmente la conoscenza di ulteriori testi di Parecon, dunque...) di un ‘imposizione di una quota di lavori manuali (quelli meno piacevoli) a chi svolge professione intellettuale e/o d’aiuto. Certo, non sarà un’imposizone pesante, di tipo pol-pottiano o da “Rivoluzione culturale cinese”, ma il rischio c’è, anzi meglio (essendo comunque la proposta del Parecon comunque solo proposta, purtroppo, per nulla realtà) ci sarebbe...
Come si vede, sono annotazioni, in forma di domanda, che però una lettura approfondita del testo di Gastoni mi ha suggerito, e che, come dicevo all’inizio, vorrebbero essere completatate-integrate da riflessioni altre e di altri, a iniziare (ma non è detto) da quelle di Gastoni e di chiunque si confronti con”A”, con queste tematiche, con i problemi sollevati da Gastoni e, in modo confuso, sporadico, “rapsodico“ da chi scrive questa nota.
Eugen Galasso
(Firenze)
Sono una giovane studentessa
Gentile redazione di “A”,
sono una giovane studentessa di storia dell’arte, appassionata per lo studio e vorrei portare all’attenzione questo problema per me importante.
Affrontando discorsi in ambito universitario, avevo un atteggiamento di sopravvalutazione del mio interlocutore, inteso come ‘potenziale detentore di cultura superiore alla mia’. Questo culto-per-la-cultura e di conseguenza per quella che io stessa sto cercando di costruire per me, mi ha portato all’equazione studioso/studente= dotato di senso critico in quanto detentore di conoscenza. Anch’io sono vittima di questa formula frutto di antichi retaggi, che identifica la conoscenza come un bene. È possibile che questo punto di vista morale abbia una sua validità, ma il punto centrale è: quale conoscenza è bene? È necessario che conoscere sia un bene?
Lascio questi interrogativi a chi ha mezzi per rispondervi.
Tutto questo preambolo per giungere al nucleo centrale del mio discorso: ho sempre creduto che lo studio permettesse la formazione di un pensiero critico, per lo meno lo ritenevo un allenamento indispensabile. Tuttavia non ritengo che lo ‘studiare in senso istituzionale’ porti a questo obiettivo. Premetto che frequento una piccola università della ricca provincia del nord-est, ma testimonianze provenienti da altri centri non hanno contraddetto quanto sto per dire.
L’università sta formando un esercito di pappagalli molto bravi nell’immagazzinare dati preconfezionati e poco inclini a comprenderli. Pare una formula trita e ritrita, ma quanto mai vera. Mi è capitato di assistere a lezioni (di storia contemporanea) che finalmente prevedevano un dibattito sull’attualità, e le posizioni degli studenti, allineate prima con quelle del professore (definibile in maniera semplicistica di ‘sinistra’) grazie ad un mirabile silenzio/assenso, appena acquistata un po’ di sicurezza nel prender parola, si sono trasformate in un bieco ragionare da ottuso frequentatore del bar sport. Non sia mai di venir tacciata di snobismo, ma per lo meno su argomenti quali l’immigrazione e il crocifisso in classe, avrei auspicato un qualcosa di più rispetto a formule quali: “gli islamici ci obbligano nei loro paesi a sottostare alle loro leggi, poi vengono qui e si approfittano della nostra democrazia”, oppure “il crocifisso non dà fastidio a nessuno”.
Ma di cosa si discute? Di temi generali o particolari? Quando le loro ottuse posizioni para-fasciste crollano ad un’analisi logica un minimo accurata, vengono portate a loro sostegno, aneddoti successi ai loro cugini o altri familiari. Come dire che l’etichetta ‘mussulmano’ sia applicabile a “quel mussulmano lì, che mi ha rubato il portafoglio!”, che diventa poi paradigma per tutti gli altri. Il fatto di aver commesso un furto riguarda automaticamente la sua presunta fede e di conseguenza tutta la categoria ‘extracomunitario’. Inutile dire che si tratta di un’etichetta già presente nelle loro teste prima che avvenisse quell’episodio così significativo.
Così in questa confusione mentale totale, tutti questi laureandi non hanno nessuna esitazione a ripetere frasi identiche a quelle dei politici in televisione, in uno scontro alla battuta più efficace, magari parlando mentre lo sta facendo un altro. Cosa trarne? Sicuramente una povertà di ragionamenti, ma soprattutto indizi di un’università che è sempre più su misura della televisione. Se si pensa a come sono impostate gran parte delle lezioni e degli esami universitari, il loro svolgersi non richiede nulla di più attivo di quanto richiesto guardando l’isola dei famosi. Per carità, gli argomenti trattati hanno il loro spessore (almeno per le letture proposte e da un’ottica istituzionalizzata della cultura), ma non mi pare che sia richiesto per il buon esito di un esame, che si capisca quanto studiato. Ovviamente se per capire s’intende ‘saperlo ripetere con una certa coerenza’, allora sì, qui siamo di fronte ad una comprensione il più delle volte ottimale.
Ma se poi alla necessità di svolgere una propria riflessione, l’esito è riprodurre schemi di ottusità derivati da un’imprecisata opinione personale desunta da una flebile esperienza, allora la cultura ha fallito. Ha fallito perché si sta auto-rendendo inutile, armando persone di uno strumento sterile. Sterile nella sua dogmaticità, nella sua attualità con il vivere, nella sua autoreferenzialità, nel creare nuovi totem e guru. Tutto questo senza contrastare minimamente il totale analfabetismo critico che imperversa grazie ad una società sempre più allineata su posizioni di bieca difesa.
Ormai, barricati dietro slogan e proclami leghisti passati come buon senso, l’aggressività e lo sprezzo per l’interlocutore si accompagnano a cieco servilismo verso chi è in una posizione ‘superiore’(in questo caso il professore). Anche dove la cultura s’insegna (...) E dove il dibattito dovrebbe potersi svolgere in maniera franca, è accettato il meccanismo berlusconiano per il quale il benessere o l’opinione acquisita sono sempre dovuti ad un potente (supposto tale) che lo concede, ovviamente per sua grande magnanimità. Questo modo di pensare è talmente radicato nei giovani, che anche solo discutendo su temi attuali, s’incontra la medesima ottusità del fascista nel negare il dato palese, a favore di deboli assiomi basati come al solito sull’orgoglio d’appartenenza e nel riconoscersi in ‘ideali’/’valori’ (come loro li chiamano), quali ad esempio il vangelo, la famiglia e la vita. Il tutto ripetuto a scatola chiusa perché nessuno saprebbe definire in maniera chiara cosa intende per vita e famiglia. Ma tutti si schierano, s’immedesimano, tutti sanno di tutto. Tutti urlano e spiegano agli altri come vivere.
La massima socratica ‘so di non sapere’, è conosciuta da tutti, ma mai gli stessi notano la contraddizione con quell’atteggiamento aggressivo di cui sono portatori. Così mentre il processo di servilismo e livellamento procede ad armi impari grazie alla terapia mediaset, la risposta degli intellettuali è la stessa di quella dei loro padroni, ‘io sono a posto, che gli altri si fottano’. Allora di quale intelletto sono dotati? L’anarchismo mi ha sempre affascinato per la sua ‘ovvietà’ di posizioni, in quanto ritengo talmente semplice e naturale da accettare la sua carica e spinta all’autodeterminazione e non sopraffazione che rimango annichilita dal successo di questo conservatorismo spicciolo (non che ce ne sia uno più accettabile... Ma le declinazioni possono essere diverse).
Tuttavia ancor più stucchevole è che la non richiesta di opinioni personali su quanto studiato, sia ritenuta una manna dal cielo per lo studente, che si ritiene sempre non abbastanza degno nei confronti del professore per paura di possibili figuracce. Inutile dire che qui il servilismo è mascherato dal rispetto, in quanto l’opinione generale che si ha dei professori in genere è che siano dei rimbambiti noiosi, ma la loro rispettabilità deriva esclusivamente dall’autorità che eserciteranno in sede d’esame. Questo meccanismo autoritario non infastidisce più di tanto nessuno, in quanto ripetizione di schemi che si presenteranno anche nei luoghi di lavoro e comunemente accettato.
In conclusione, il senso critico è una capacità innata? Chi ha la necessità dell’approfondimento è un miracolato o un genio romantico? Non voglio credere che si tratti di una facoltà di pochi eletti, credo piuttosto che sia ormai necessario un rivolgimento del sistema in cui siamo più o meno costretti a formarci... Forse trovando in queste esperienze punti su cui riflettere.
Grazie per l’attenzione,
Dalila Missero
(Udine)
Dibattito tricolore/Per smuovere le coscienze
Vorrei partecipare al dibattito sul tricolore iniziando a ricordare un episodio che mi accadde da bambino, che molti anni più tardi ha scoperto essere stato il mio primo incontro con l’anarchismo. Questo episodio riguarda mia nonna, la quale mai si sarebbe sognata di offendere il tricolore ma quantomeno si stupì nel leggere la notizia di qualcuno (un compagno) era stato arrestato per essersi soffiato il naso. Questo può dimostrare che forse è vero che, come scrive Gaia, un gesto dimostrativo può essere utile per smuovere le coscienze.
Detto ciò, potrei anche essere d’accordo con chi paventa il rispetto delle differenze, ma solo quando questo consentisse un rapporto dialettico di confronto paritario, ma questo non avviene quando sui valori che ci sono avversi si fonda un intero sistema che può schiacciarci in ogni modo. Infatti, il fatto che il tricolore sia stato usato dai partigiani è sintomatico di ciò che è stata l’Italia da dopoguerra in poi con l’egemonia democristiana (e senza dimenticare Togliatti!). Mille e più modi sono stati pensati e posti in essere in passato per cercare almeno di ridicolizzare la retorica nazional-patriottica; il mio auspicio è che altrettanti se ne possano scoprire in futuro.
Massimiliano Berto
(Alessandria)
Qualche nota a ‘Noterelle’
Innanzitutto ringrazio la redazione di “A” per aver raggruppato nel numero di aprile (“A” 352) tanti articoli che in un modo o nell’altro hanno trattato di anarchismo e religione (particolare curioso: sia Berti – “Torà e libertà”) che Battistutta – “Anarchismo religioso” – cominciano i loro articoli parlando di ‘ossimoro’…). Ma in modo speciale ringrazio Zelinda Carloni (“Noterelle sui dintorni di Dio”) per la sua lunga e bella lettera. Il suo intervento non solo è interessante, ma mi dà anche l’opportunità di scrivere, in risposta ma non solo, a proposito di qualche punto che mi sta particolarmente a cuore.
Dunque, ricapitoliamo: Zelinda parla di dio (e/o Dio), di sacro, di natura e di religione. In chiusura accenna anche a Gesù. Lasciamo stare quest’ultimo e concentriamoci sugli altri elementi. Se ho ben compreso: l’uomo ha in sé il senso del sacro, questo senso gli deriva da un suo contatto diretto con la natura, da questo rapporto (immanente) scaturisce in qualche modo anche una ‘percezione’ della divinità (trascendente) –anche se questo passaggio non è chiarissimo-, vissuta comunque anch’essa con ‘naturalità’. Poi, a causa della ‘socializzazione’ di questo equilibrio uomo-natura-dio, il bisogno (spontaneo/indotto/imposto) di sistematizzarne la prassi ha dato origine alla religione, la quale ha poi progressivamente ricondotto a sé il potere di ‘gestire’ il sacro. Questo non ha impedito, né impedisce, che il rapporto primigenio continui a essere naturale per l’uomo e connaturato ad esso; ai più sembra invece che l’unico modo per rapportarsi al sacro sia passare attraverso i dettami di una religione. Zelinda accetta, anzi afferma il primo, mentre rifiuta e condanna il secondo.
A questo punto farei qualche considerazione, introducendo anche un paio di elementi nuovi.
Sono pienamente d’accordo sul rapporto originario uomo-natura: in qualche modo tutte le narrazioni delle varie ‘creazioni’ lo attestano. E sono d’accordo anche nel chiamare questo rapporto: ‘sacro’. Ma qui introdurrei il primo elemento nuovo: la legge. Infatti, nel momento in cui (praticamente subito…) l’uomo comincia a vivere in comunità, si determinano i suoi rapporti con gli altri uomini e con l’ambiente in cui, assieme, vivono. Anche se il discorso qui sarebbe piuttosto complesso (e io, sia chiaro, non ne sarei all’altezza), mantengo la prospettiva di Zelinda: immanente e trascendente si intersecano, si confondono l’uno nell’altro. Di conseguenza: se ‘sacro’ è il rapporto con la natura, se ‘sacro’ è il rapporto con gli altri, e se è la ‘legge’ che definisce, nella comunità, i modi dell’uno e dell’altro, e se questa definizione la chiamiamo ‘religione’, allora ne consegue che la religione sistematizza il sacro tramite la legge.
Ma il dio/Dio della legge della comunità è ancora il dio della natura dell’uomo? Sembra proprio di no. Non a caso, Zelinda a un certo punto dice: “ne fanno eccezione solo i mistici individualisti”. E qui introduco il secondo termine: il santo. Cosa è il ‘santo’? È ciò che rimane ‘al di là’. Il mistico ‘sente’ il santo perché al mistico non interessa il ‘qui’, l’adesso, ma crede che ‘oltre’ ci sia ‘qualcos’altro’, fosse anche un qualcos’altro che passa comunque attraverso manifestazioni materiali.
Quindi si crea una scissione, una divisione: mentre la religione agisce sul sacro tramite la legge, l’uomo come essere naturale ha come riferimento il santo. E dio dove sta? Sta un po’ di qua e un po’ di là: è il dio/Dio della religione che detta la legge e che esige ‘sacrifici’ ed è il dio della natura che si s-vela e si ri-vela negli elementi, un dio che si fa acqua, terra, aria, fuoco, ma anche un dio capace di ‘farsi presente’ in un uomo e in una donna.
Per cui io chiamo ‘sacro’ l’ambito delle relazioni vissute in comunità, e ‘sacri’ i rapporti che in essa si intessono; nel momento in cui tali rapporti, e di conseguenza l’ambiente in cui essi si svolgono, vengono determinati, allora il sacro si determina come religione, anche se alla fine poi è questa a definire quello, ovvero a decidere cosa è e cosa non è ‘sacro’. Tale decisione viene mantenuta tramite una legge: chi la rispetta rimane nel sacro, chi la vìola ne è respinto fuori. Qui si innesca un circolo vizioso, in cui non si capisce più se è Dio a dettare la legge tramite la religione o è la religione e i suoi rappresentanti che danno alla legge l’autorità di Dio.
Chiamo invece ‘santo’ non un dio ‘lontano e nascosto’, ma un dio sconosciuto eppure con tanti nomi, un dio al quale non è possibile dare aggettivi ma solo sostantivi, e anche questi validi e comprensibili solo per la breve durata del suono del nome. Questo dio quindi non può essere condiviso, legalizzato, ma solo ‘sentito’, vissuto personalmente. È il dio dei mistici, appunto.
Vale un po’ la proporzione: dio/santo=religione/sacro.
Qui fra l’altro viene a cadere, o meglio non si tratta nemmeno più di differenza fra immanenza e trascendenza: infatti il dio/Dio della religione è tanto mantenuto lontano dai ‘religiosi’ quanto quotidianamente presente nella legge degli uomini, e il dio ‘santo’ è tanto misterioso nel suo ‘Nome’ quanto afferrabile nelle sue ‘manifestazioni’.
Insomma, quello che vorrei dire è che, a mio parere, il sacro non è separabile da una religione che lo esprime, lo schematizza, lo legalizza. Dal momento in cui due uomini confrontano i propri ‘sensi del sacro’, dall’accordo fra essi su cosa tenere e cosa no, nasce una religione, con la quale gli uomini che seguiranno dovranno fare i conti.
Diversamente, ognuno dei due uomini si terrà il suo ‘senso del sacro’, ma quando questo dovrà confrontarsi con la religione che nel frattempo altri due uomini avranno ‘creato’, la decisione sarà fra far parte di essa o rimanerne fuori, isolati, senza legge, ognuno con il proprio ‘santo’.
Ma a questo punto è lecito chiedersi: cosa c’entra tutto questo ragionamento con l’anarchia?
Credo che Zelinda lo abbia già detto in buona parte; io mi limito ad aggiungere qualche nota.
Il sacro, la religione, il Dio della legge sono quelli che tutti ben conosciamo; come si è detto, sono elementi di un circolo vizioso che si sorregge su se stesso, avendo da tempo perso grandissima parte del suo legame con la realtà, sia quella materiale che quella spirituale. Non c’è bisogno che sia io a ripetere per l’ennesima volta che alla religione interessa solo se stessa: per lei la legge è pura funzione, Dio un nome scritto su un libro, il sacro un recinto da aprire e chiudere a piacimento.
Il dio del ‘santo’ è un’altra cosa. È un dio senza nome ma con tanti volti, un dio sconosciuto, che l’uomo può incontrare nella natura, nell’abisso di se stesso, nella gioia o nel dolore, nell’incontro con l’altro, nel sentirsi libero, ma che può anche non incontrare mai. È un dio –mi piace pensare– assolutamente anarchico.
Poi (visto e considerato che all’inizio lo avevamo messo da parte, ma anche Zelinda lo accenna) c’è la figura di Gesù. Non il Gesù della Chiesa, per carità! Io parlo del Gesù dei vangeli: l’uomo, non il Dio.
Ma andrei ‘fuori tema’, quindi ne parlerò un’altra volta.
Andrea Babini
(Forlì)
Grazie alla rivista, Rom a Maddaloni
Grazie Rivista A! Un saluto alla redazione e a tutti collaboratori di “A” Rivista Anarchica. Da tempo vi leggo e da più di un anno sono un vostro abbonato. Vi ringrazio particolarmente perché lo scorso numero (quello di Marzo) sono venuto a conoscenza grazie alla rivista della pubblicazione di un volume di Luca Bravi: Rom e Sinti Tra inclusione ed esclusione ed essendoci il contatto dell’autore l’ho contattato e con l’associazione Saxa Cuntaria (un associazione di volontariato storico-culturale) il 30 aprile presentiamo il libro qui a Maddaloni in provincia di Caserta con la presenza dell’autore.
Il mio affettuosissimo saluto alla redazione e a tutti i lettori. Un anarchico liberale.
Domenico Letizia
Maddaloni (Ce)
Bloccato a terra
Sono bloccato in una bella città della costa occidentale norvegese che si chiama Trondheim. Proprio di fronte all’Islanda.Avrei dovuto partire giovedì, e volare a Bologna dove c’era una riunione di Bologna città libera. Quella mattina invece mi telefonò la mia amica Jean per dirmi che stava accadendo qualcosa per cui tutti i voli erano cancellati, e dovevo partire il giorno dopo. Il giorno dopo vado all’aeroporto e mi dicono che dovevo aspettare il giorno dopo. Poi ho cominciato a riflettere. La cenere non ne andrà tanto presto. Rimarrà nel cielo europeo per giorni e per settimane. I giornali di qui lo dicono ormai a chiare lettere. Le compagnie aeree stanno cercando di immaginarsi quale sarà l’effetto sui loro affari già piuttosto provati dalla crisi finanziaria. Ma il punto non è qui. Il punto è che la classe dirigente europea è bloccata a terra. Non si possono muovere. Il gruppo dirigente polacco, omofobo e fascista, è stato annichilito dalla imprevedibilità del cielo. Adesso il cielo sta dichiarando semplicemente la fine di questa Unione europea basata sull’avarizia e sul razzismo.
L’unione europea, che non ha voluto e saputo affrontare la crisi greca, che non vuole e non sa affrontare la recessione con l’abbandono delle politiche neoliberiste che hanno provocato la recessione, adesso è segnata. Quel che sta accadendo nel cielo è una chiamata per l’azione, e per il pensiero. I cognitari e i poeti di tutta Europa dovrebbero cominciare a combattere per Europe02, per un nuovo concetto del processo che sia fondato sulla potenza del lavoro intellettuale non sul comando finanziario della Banca centrale.
Ma nessuno risponde alla chiamata. Gli intellettuali francesi sono morti, quelli che respirano e scrivono sui giornali sono vecchi maoisti pentiti del loro passato che leccano il culo del potere economico. Gli intellettuali italiani sono accecati dalle paillettes della dittatura del buffone. Dicono mantra in difesa della costituzione italiana (e fanno bene) ma non capiscono che l’infezione non sarà sradicata dal popolo italiano. Il popolo italiano non è stato capace di liberarsi da Mussolini nel 1939, hanno impiccato per i piedi il cadavere di un dittatore sconfitto dagli anglo americani. Mio padre era stato partigiano, ma non mi ha mai nascosto questa verità. Lo stesso accadrà adesso: Berlusconi non sarà mai sconfitto dagli italiani, sarà sconfitto dai nuovi europei. Qualche giorno fa, parlando in un’assemblea pubblica nella città di Stavanger, Norvegia, ho chiesto agli intellettuali norvegesi di entrare in Europa. Loro mi hanno risposto: perché dovremmo farlo? L’Europa esiste è capace solo di sfruttare il lavoro e spostare le energie e le risorse sociali verso i profitti delle banche. Noi norvegesi usiamo la ricchezza che proviene dal petrolio per il bene comune. In effetti gli operai norvegesi guadagnano salari di 50.000 euro all’anno e i servizi sociali sono molto migliori che in qualsiasi altro paese del continente neoliberista.
Perché dovrebbero rinunciare al loro petrolio in cambio del dispotismo avaro della Banca centrale europea?
Ma io gli ho risposto: vi capisco. Ma l’Europa di cui state parlando è destinata a morire presto. Una nuova Europa deve essere costruita, basata sull’amicizia e sulla creatività, non sull’avarizia la grettezza e il razzismo. Venite in Europa per aiutarci a distruggere la dittatura della banca centrale. Venite in Europa per aiutarci a distruggere il razzismo ignorante di Schengen.
Franco “Bifo” Berardi
(Trondheim – Norvegia)
Interessante il dossier vegano
Ho letto lo speciale sui vegani: molto interessante. Anche nel sottolineare
i luoghi comuni che girano intorno alla questione. Per non parlare delle condizioni
oscene dei poveri animali. Non sempre ce la faccio a guardare i video della
peta o simili. Mi piacerebbe intervistare quelli che ammazzano e torturano questi
animali, perché è una delle situazioni che non riesco proprio a capire.
Mi è venuta in mente la foto che vi allego (tra le vincitrici di un concorso recente, il fotografo è Tommaso Ausili: atroce no?).
Un abbraccio.
Chiara Lalli
(Roma)
Pedofilia/Anche i pedofili vittime?
Gentile redazione,
vi scrivo in merito all’articolo di Carlo Oliva sui preti pedofili – sullo scorso numero (“A” 353) – che peraltro condivido abbastanza, fino a quando leggo che i pedofili siano a loro volta vittime.
Non posso accettare un’affermazione del genere: solo in rarissimi casi chi molesta e stupra bambini è affetto da patologie psichiatriche, nella stramaggioranza dei casi è un maschio normale che lo fa perché lo può fare, perché crede di averne diritto (la nostra ‘moderna’ società non si è ancora liberata dal patriarcato che riconosce al maschio diritti su donne e bambini) e magari accusa i bambini di seduttività. È la solita storia dell’abuso di potere sui più deboli, aggravata dalla posizione, dal ruolo che un uomo di chiesa ricopre, dall’ulteriore soggezione che ne deriva da parte della piccola vittima.
Trovo che considerare vittime gli abusatori (uso questo termine anche se non lo trovo corretto. Abuso indica un uso illecito; ma può esserci un ‘uso’ lecito di un qualsiasi essere vivente?), sia anche pericoloso: non possiamo dargli l’alibi della malattia, non possiamo giustificarlo, non possiamo fornire materiale a favore di avvocati difensori senza scrupoli. Non posso e non voglio fermarmi a riflettere su questo (come suggerisce l’autore dell’articolo), perché già so l’origine di questa piaga sociale.
Tranne rarissimi, ma proprio rarissimi casi, non sono malati, non sono incapaci di resistere alle proprie pulsioni sessuali; sanno benissimo chi e come colpire, sanno premeditare, sanno che molto probabilmente la faranno franca e non credo che loro stessi si considerino vittime, anzi, possono esercitare la loro sete di potere e di dominazione sul più debole. La solita triste storia dello squilibrio, dell’asimmetria di potere.
Vi ringrazio per avermi letta fin qui e vi saluto cordialmente, complimentandomi anche per il vostro lavoro (ho apprezzato davvero tanto il dossier vegano).
F.D.M.
(Belluno)
Veramente non parlavo di “malattia” né di “patologie psichiatriche”, né volevo, tantomeno, offrire un alibi a nessuno. Volevo solo sottolineare il fatto che anche i pedofili, che sono sicuramente maschi normali che lo fanno perché lo vogliono fare e verso i quali non mi sembra di aver raccomandato alcuna indulgenza (anche perché è vero, purtroppo, che in genere la fanno franca), sono portatori della cultura dominante di questa nostra società patriarcale e violenta, nella quale è così difficile sviluppare e vivere la propria sessualità e allignano tante dolorose distorsioni comportamentali.
Suggerivo, cioè (forse con troppa disinvoltura), che andassero considerati come tutti i devianti, come i violenti e gli assassini, gente che va sicuramente messa nell’impossibilità di nuocere e va, se vogliamo, “punita”, senza annettere alla punizione alcun valore assoluto, che mi sembra un residuo di atteggiamento religioso, ma che può, almeno in molti casi, asserire una propria condizione di “vittima”. In fondo siamo tutti, dialetticamente, vittime e responsabili del mondo in cui viviamo. Tutto qui.
Carlo Oliva
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Il Governatore e la rivist“A”
Milano, 25 aprile 2010 – Corteo per ricordare la
Liberazione. Il governatore della Puglia Nicki
Vendola con la nostra rivista in mano
(foto Roberto Gimmi) |
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni.
Daniele Ferro (Voghera – Pv) 20,00; Santi Rosa (Novara) 10,00; Roberto Perozzi (Roma) 50,00; Aurora e Paolo (Milano)ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Roberto Sigismondi (Choeto Scalo – Ch) 20,00; Umberto Lenzi (Roma) 10,00; Michele Tartaglia (Aquilonia – Av) 20,00; Tommaso Bressan (Forlì) ricordando Dario Bernardi, 50,00; Antonino Pennisi (Acireale – Ct) 20,00; uno (Anguillara Sabazia – Rm), 30,00; Valerio Strano (Cosenza) 20,00; Antonio Fusco (Napoli) 70,00; Mario Fossati (Milano) 40,00; Franco Bernarducci (Firenze) 30,00; Marina Veschi (Bari) 45,00; Nicola Scognamiglio (Montano Lucino – Co) 35,00; Piero Torelli (Sermoneta – Lt) 20,00; Pasquale Messina (Milano) “ricordando mio padre”, 100,00; Rosa Urru (Cagliari) 40,00; Pino Monini (Bari) 35,00; a/m Danilo Sidari, Associazione culturale “Cani Sciolti” (Sydney – Australia) 100,00; Danilo Sidari (Sydney – Australia) 100,00; Marco Bianchini (Milano) 29,00; Chiara Mottola (Frosinone) 15,00; Max Molteni (Bellinzona – Svizzera) 100,00; Gianpiero Perlasco (Ivrea – To) 20,00; Fabio Rosana (Fossano – Cn) ricordando Nanda Pivano, 30,00. Totale euro 1.546,00.
Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro
100,00). Marco Panzeri (Lecco); Angelo Tirrito (Palermo); Andrea Albertini (Merano
– Bz) 150,00; Roberto Tozzi (Mercatale Vernio – Po) 150,00; Sergio Guercio (Torino) 200,00.
Totale euro 700,00.
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