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Anarchia
Una volta al giudice che gli chiedeva di definire in poche parole il suo ideale politico, un anarchico rispose con spirito biblico che, per lui l’anarchia era l’arca di Noè senza Noè. Ma un altro anarchico subito protestò che quello era riformismo e che semmai l’anarchia era il diluvio universale e senza l’arca. In questo scontro di battute si fronteggiano le due anime dell’anarchismo, quella ottimista e razionale e quella romantica e nihilista, le siècle des lumières e lo Sturm und Drang.
Le due concezioni coesistono nel movimento, nelle polemiche interne e nei comportamenti, dalle origini ai nostri giorni. La stessa parola «anarchia» contiene i due significati: quello negativo della distruzione e quello positivo della ricerca, della costruzione di una nuova società. In Bakunin si alternano continuamente i due momenti, dallo scatenamento delle «passioni popolari» alla organizzazione delle masse operaie e contadine, dalla tabula rasa istituzionale prospettata nel famoso «affiche rouge» a Lione durante l’insurrezione del 1870, ai programmi di emancipazione sociale libertaria. Francesco Saverio Merlino colpiva l’equivoco nella sua polemica con Paul Reclus, fautore di un anarchismo terrorista: «Togliete, al vostro anarchico la dinamite e dategli il fulmine ed egli sarà un Giove, un Jeova o altro tiranno celeste. Prestategli un breviario e una croce e sarà un inquisitore che farà bruciare i nemici della fede. Dategli invece sempre della dinamite, legioni di sbirri e sarà lo czar di tutte le Russie».
Malatesta, nel primo dopoguerra, a qualcuno che chiedeva forche per i nemici del popolo sulle piazze, rispondeva che «se per vincere dovessi innalzare delle forche, preferirei perdere». Tutto il pensiero anarchico vibra fra questi due poli: l’individualismo e la solidarietà, l’irrazionale e il richiamo della ragione, l’apocalisse e la salvezza. Anche i colori nei quali gli anarchici amano riconoscersi sembrano riflettere questi contrastanti stati d’animo: rosso speranza e nero disperazione. Lo diceva anche Pietro Gori, salutando l’anno 1905: «Che, i proscritti d’ogni patria... di questa idea rossa come l’aurora invincibile, e di questo sudario, nero come la sciagura umana, sappiano farsi la simbolica bandiera della liberazione».
Era l’anno della prima rivoluzione russa, alla quale gli anarchici di quel paese dettero il loro contributo e il movimento internazionale la propria solidarietà. E così fu per la seconda rivoluzione russa del 1917. Ma proprio questa esperienza fece emergere e mise a nudo nei fatti la contraddizione profonda dell’anarchismo e della sua rivoluzione libertaria. Se c’è un atto assolutamente autoritario, senza alcun vincolo legale, questo è appunto la rivoluzione che di quel vincolo rappresenta la rottura. Non potete fare la rivoluzione senza la violenza, senza l’impiego di mezzi di guerra. Non solo trincee e barricate, ma anche far prigionieri (e costruire prigioni dove rinchiuderli), assoldare spie per conoscere i piani del nemico, esercitare rappresaglie su innocenti: tutte cose che hanno ben poco a che fare con l’etica libertaria.
Ora davanti agli sviluppi della rivoluzione russa gli anarchici si trovarono per la prima volta a fare i conti con la storia. Da una parte essi vedevano lucidamente gli sbocchi liberticidi e dittatoriali del bolscevismo vittorioso ma dall’altra gli spianavano la strada con la loro lotta ad oltranza contro la democrazia «borghese» uscita dalla rivoluzione di febbraio. Per la storia fu un anarchico, il marinaio Anatoli Zhelezniakov che comandava il reparto di guardia alla sede dell’Assemblea Costituente, a interrompere l’ultima seduta dell’Assemblea e a mandare a casa i costituenti con la frase rimasta famosa: «Gli uomini sono stanchi. Avete parlato fin troppo. Andatevene!». (Poi i bolscevichi si appropriarono anche del povero Zhelezniakov, che, rimasto ferito durante la guerra civile contro i bianchi, sul letto di morte si sarebbe convertito al leninismo!).
L’esperienza della rivoluzione russa e della dittatura comunista, con il completo annientamento del movimento anarchico in Russia, indusse gli anarchici pensanti a riflettere seriamente sul tema della violenza rivoluzionaria. Sopravvenne l’esperienza spagnola, nella quale gli anarchici parteciparono con onore alla lotta armata dopo la prima vittoriosa risposta di piazza e di strada alla sedizione dei militari, si capì che quella non era proprio la loro vocazione ritrovandosi davanti al dilemma di sempre: o spingere a fondo il processo rivoluzionario, forzandolo col rischio di provocare il black-out sociale così utile all’instaurazione di dittature di destra (Franco) o di sinistra (Stalin) e di perdere quindi quei piani di libertà, faticosamente conquistati e difesi; oppure prendere coscienza della gradualità che è nella storia e nella vita, presidiando, senza rinunce, le istituzioni dello Stato di diritto (che altro non è che il potere limitato dalla legge, il meno Stato e il più diritto).
Il problema della legge è appunto centrale all’anarchismo che la rifiuta al proprio interno come un inutile orpello formale. E fa benissimo. Ma all’esterno? Gli individualisti vorrebbero tutti i cittadini eroi, vendicatori; e giustizieri, tutti autogestori. Ma chi pensa al povero di spirito, al vecchio inerme, al fanciullo indifeso se non la legge? Chi impedisce a che, nel vuoto lasciato da uno Stato di diritto in ritirata, si instaurino, come sta avvenendo, nuovi «stati» selvaggi cioè le cosche mafiose, i monopoli economici, i clans dei politici, le organizzazioni private di rapina del potere e della ricchezza?
Sono interrogativi che lentamente si sono fatti strada anche nella mente degli anarchici. Già nel 1968 Paul Goodman affermava: «Il nostro obiettivo deve essere quello di aprire aree di libertà e di difenderle. Nelle società moderne complesse il modo migliore di farlo consiste probabilmente nell’agire grado per grado, evitando cosi il caos che tende a favorire la dittatura». Il numero della rivista italiana Volontà, uscito in questi giorni, porta un contributo di Thom Holterman (1), redattore della rivista libertaria olandese De As e ricercatore presso l’Università Erasmus di Rotterdam, nel quale viene spregiudicatamente affrontato questo tema della legge, su una linea di fedeltà interpretativa alla tradizione (Godwin) ma anche di approccio critico-positivo ai valori politici, giuridici e morali che la legge rappresenta. Questo non significa che gli anarchici siano diventati dei legalitari – saremmo fra i primi a dolercene – ma che hanno preso coscienza del rapporto che nella strategia della libertà lega l’anarchismo alla democrazia militante.
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Pier Carlo Masini al Convegno di studi su Armando Borghi
(Castel Bolognese – Ra, 17-18 dicembre 1988) |
Trasformismo
È una parola tipicamente italiana, come la pizza, la tombola, la mafia, ma che, a differenza di questi prodotti impostisi nella nomenclatura internazionale, è rimasta circoscritta al vocabolario politico interno. Quando parliamo di «trasformismo» lo straniero non capisce e bisogna spiegarglielo.
Nel vocabolo sono contenuti e talvolta confusi due significati, due situazioni diverse: una pratica di governo rivolta a disgregare partiti e schieramenti tradizionali, associandone i monconi a maggioranza parlamentari avventizie, con un’opera spregiudicata di assimilazione (o, secondo gli avversari, di corruzione); il costume di mutare, per opportunismo, bandiera o partito, al modo di Girella vecchia maschera politica italiana e universale, o di Fregoli che questo genere tradusse con successo in tecnica di mimo e arte del travestimento. Due fenomeni, come si vede, quasi complementari fra loro: l’attivo e il passivo, chi trasforma e chi è trasformato.
Credo che quando, nel famoso discorso di Stradella (1876), Agostino Depretis parlò per la prima volta di «feconda trasformazione dei partiti» nel senso di una «unificazione delle parti liberali della Camera», consapevolmente o no, egli mutuasse la parola e il concetto da un altro «trasformismo» che allora era nell’aria ed aveva grande successo nella cultura scientifica e nella più vasta opinione popolare. Mi riferisco alle teorie di Darwin universalmente note con quella definizione – alle quali era una sciccheria intellettuale riferirsi, quasi che anche in politica si dovesse seguire l’evoluzionismo (altra parola allora in voga) scoperto dagli scienziati nella vita naturale. È vero che Agostino Depretis, tanto abile facitore di maggioranze quanto mediocre scrittore e oratore, non era uomo da ricorrere a queste finezze, ma l’immediata fortuna che la parola ebbe va messa in rapporto alla cultura positivista che per prima sul piano scientifico l’aveva lanciata.
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Il trasformismo, come si sa, fu fra le più vituperate formule della vita politica italiana, «Brutto vocabolo di più brutta cosa» lo definirono Carducci e Labriola. Il suo artefice, rappresentato in forme zoologiche repellenti – ragno, camaleonte, volpe, serpente incantatore – fece la gioia dei caricaturisti al punto che, quando morì, il Teja gli scrisse un necrologio per dire che quella morte toglieva anche a lui una ragione di vivere. Sul Fracassa apparve per anni una rubrica fissa dal titolo «Una al giorno» dove il giovane Vamba coglieva il Barbabianca (così chiamato in antitesi al Barbarossa, eroe e anti-eroe) in tutte le sue pose di vinattiere, strega, meretrice, mago, cuciniere, fabbricante di empiastri e di pastette.
In effetti il Depretis dette il nome ad una pratica comune a tutti i tempi e a tutti i governi (e in questo fu un po’ ingenuo, perché certe cose si fanno e non si dicono): dividere, indebolire e, se possibile, dissolvere l’opposizione, cioè il nemico, adescandone una parte con promesse di favori e di premi. Questa sarà, a un livello più alto, la politica di Giolitti e anche di Mussolini che avranno però minor fortuna di Depretis perché intanto i partiti si saranno fatti più forti, ideologicamente e disciplinarmente, in grado di resistere meglio alla manovra avvolgente delle lusinghe e dell’assorbimento.
È stato detto che tutta la storia della lotta politica in Italia è un seguito di trasformismi, dal «connubio» di Cavour e di Rattazzi, al «terzo tempo» di Moro e al «compromesso storico» di Berlinguer. In questo giudizio c’è del vero, nel senso che l’Italia, paese della rissa, è anche il paese del pateracchio. Ma vi sono grosse eccezioni, quando indomabili antagonismi morali o sociali non lasciano spazio alle metamorfosi e fanno saltare il giuoco dei potenti.
Ad esempio, i gerarchi fascisti che prepararono il colpo del 25 luglio pensavano ad una grande operazione trasformistica che, attraverso la liquidazione di Mussolini, avrebbe salvato il regime e le loro fortune. Ma vennero giuocati dal re, che in quel disegno che aveva innestato uno suo, più ampio e più ambizioso: svendere il regime (e l’alleato) pur di salvare la corona. Anche a lui andò male perché le forze messe in movimento erano ormai più forti di qualsiasi trucco di vertice.
Più recentemente, nella seconda metà degli anni Settanta, si è avuto in Italia un ritorno, una riedizione di trasformismo, che chiamerei neo-trasformismo per una sua intrinseca novità: che a promuoverlo non era più il solo governo ma anche l’opposizione, non più un partito ma tutti i partiti, salvo le frange estreme. Mi riferisco a quell’ipotesi di governo di unità nazionale che, dietro orpelli di Solidarietà e pretesti di Emergenza, si proponeva di superare i ruoli di maggioranza e di minoranza imbarcando, in un unico convoglio ministeriale tutti i gruppi politici (quello appunto che gli italiani, con una parola presa in prestito da moderni riti orgiastici, hanno chiamato l’ammucchiata).
Sul piano formale l’esperimento è durato poco, anche sé qua e là ne sono rimaste la nostalgia e la tentazione di ripeterlo. Ma nella prassi parlamentare, nei rapporti fra i partiti, nel sottogoverno, nelle coalizioni locali, nelle lottizzazioni, nei progetti di alternanze guidate, la tendenza rimane. Alla sua base stanno due processi degenerativi del sistema: uno politico e uno sociale. Politicamente ai partiti importano più poco le scelte programmatiche che ne giustificano l’esistenza e la diversità, i sì e i no ad alternativi indirizzi di politica economica o interna o internazionale e importa molto di più la partecipazione «purchessia» alla gestione del potere («purchessisti» li chiamava appunto un umorista italiano ai tempi di Depretis).
Socialmente – e questo è l’aspetto più grave – al di sopra dei confini fra partiti, sindacati, corpi separati, moli istituzionali, si è formata una solidarietà di casta, una consolidata rete di interessi e purtroppo anche di «affari» (grazie ai supporti dell’economia pubblica e di quella privata assistita) che costituisce la base sociale, corporativa di questo trasformismo oligarchico.
«Siamo tutti in una barca» dicono con enfasi patriottica, ora che le cose non vanno, gli assertori della solidarietà nazionale, senza accorgersi che con quella frase indicano non il rimedio al male, ma il male medesimo.
Il sipario alzatosi accidentalmente sugli interni di una loggia massonica che era un po’ di tutto – club prive, governo parallelo, cassa mutua, ufficio di collocamento, telefono amico, banca dei dati, agenzia investigativa etc. etc. – e dove c’era / un po’ di tutto – atei e cattolici, fascisti e antifascisti, monarchici e repubblicani – ha rivelato fino a che avanzato stadio di integrazione fosse pervenuto l’interpartito (che poi non era tutto nella P2)
L’opinione pubblica, com’era giusto che avvenisse in una società viva, non ancora necrotizzata, ha avvertito più che non si creda il fenomeno e vi ha reagito, prendendo le distanze e negando partecipazione ad un metodo che ridurrebbe la lotta politica ad una recita, le elezioni ad una beffa.
I dirigenti dei partiti che davanti alle astensioni dal voto, alle critiche della partitocrazia, al riflusso, protestano l’indispensabilità dei partiti per la vita democratica, non hanno che da far onore a questo loro proposito ripristinando la dinamica. della contrapposizione, avanzando proposte innovatrici in materia istituzionale, elettorale, sindacale, amministrativa, dei servizi sociali (che, così come sono, gli stessi utenti rifiutano), mettendo fine alla politica delle reticenze e degli equivoci che sono appunto gli espedienti del trasformismo, in una parola restituendo ai partiti la loro precipua funzione entro il quadro democratico: che è quella di dividere e di misurarsi, non quella di unire e di confondersi.
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Pier Carlo Masini al Convegno si studi su Errico Malatesta
(Milano, 24-26 settembre 1982) accanto
a Giampietro “Nico” Berti |
Xenofobia
Nel quindicesimo canto del Paradiso, l’Alighieri, per bocca del trisavolo Cacciaguida, dice il rimpianto per l’antica Fiorenza, «sobria e pudica», ben diversa da quella del suo tempo, dove i fiorentini puri si son ridotti a un quinto della «cittadinanza, ch’è ora mista / di Campi, di Certaldo e di Fegghine. Convinto che «sempre la confusion delle persone / principia fa del mal della cittade», il profeta della monarchia universale volentieri avrebbe alzato al Galluzzo e a Trespiano, due casali fuori porta, una barriera contro l’inurbamento di forestieri e di villani.
Cosa penserebbe oggi Dante della sua città, anzi non più città ma conurbazione, come dicono gli esperti, che ha allungato il suo corpo lungo le sponde dell’Arno, fino a Campi e a Signa ed accolto fra le sue mura – si fa per dire! – uomini e schiatte di ben più varia e remota origine che non i Cerchi e i Buondelmonti? Probabilmente ne direbbe più bene che male, ammirando quella sua gente che ha saputo digerire, per secoli e generazioni, «il cibo che s’appone» fino a farne sangue del proprio sangue. Così è così è sempre stato per tutte le civiltà, formatesi più per mescolanza che per separazione.
Eppure nella reazione istintiva di Dante, in quel suo sentimento di nostalgia per la purezza degli antichi costumi e di difesa del genuino patrio, doveva esserci qualcosa di naturale e di autentico, se egli lo espresse con tanto calore e convinzione, lui che, da fuoruscito, aveva conosciuto il conforto dell’ospitalità in terra straniera.
Il problema, e antico. Nella Grecia dei tempi eroici, quando i capi delle città si rendevano visita, scrivevano il proprio nome su una tavoletta di avorio o di metallo che poi veniva spezzata: una parte andava all’ospite e l’altra restava al padrone di casa, pegno di amicizia e di vicendevole aiuto. Quella tavoletta si chiamava «xenia»: da qui, per estensione, la parola significò dono all’ospite o semplicemente ospitalità allo straniero; da qui anche xenolasìa, cioè allontanamento degli stranieri, una specie di «sforestieramento» praticato da quegli svizzeri dell’antichità che erano gli spartani.
Agli inizi di questo secolo, essendosi i nazionalisti cinesi, i boxers, rivoltati contro gli «ospiti» bianchi delle loro città, nacque e si diffuse in Occidente la parola «xenofobìa». Gli xenofobi erano ovviamente i cinesi e contro di loro le grandi potenze, Italia compresa, organizzarono una spedizione punitiva, posta agli ordini del tedesco von Waldersee, cui il Kaiser alla partenza raccomandò: «Niente prigionieri!».
Da allora il problema della xenofobia si è ingrossato e complicato non tanto a causa del colonialismo (i coloni, bon grè mal grè hanno restituito agli indigeni le loro terre, paghi degli affari fatti e di quelli da fare) quanto di altri due fattori intervenuti sulla scena mondiale in tempi abbastanza recenti, uno tecnico e uno economico: lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e soprattutto di trasporto e quindi l’avvento di un nuovo moderno nomadismo, l’ampliamento la mobilità del mercato e del lavoro. Due episodi di queste ultime settimane – i risultati del referendum svizzero sui lavoratori stagionali (2) e i disordini socio-razziali di Brixton, in Inghilterra (3) – ci ammoniscono che nelle viscere della società industriale si vanno accumulando i germi di imprevedute tensioni e di nuovi conflitti.
La situazione è problematica. Che cosa è progressista, che cosa è liberale? Se è progressista e liberale il rispetto delle culture minoritarie, la protesta contro il soffocamento delle piccole patrie, la difesa dell’identità nazionale o dialettale contro la snaturalizzazione, il principio vale anche per i grandi gruppi etnici che hanno pari titolo a salvaguardare la loro identità – la lingua, le tradizioni, il modo di vivere – dall’immigrazione selvaggia e di massa. Se invece è progressista e liberale il diritto all’insediamento e al lavoro comunque, dovunque e per chiunque, la libera circolazione delle persone come dei capitali e delle merci, la totale liberalizzazione degli scambi demografici, allora inevitabile che i primi a pagare per questo moto di circolarità permanente, i primi a essere sopraffatti o ad autodissolversi saranno i gruppi etnici minori. Si va insomma verso un mondo delle patrie, unito culturalmente, economicamente, forse anche politicamente, ma rigorosamente diviso nelle sue componenti nazionali, oppure si va verso il Grande Amalgama di cui gli Stati Uniti d’America ci presentano grandiosa anticipazione?
Probabilmente l’esperienza nord-americana, costume e teatro di imponenti flussi migratori interni, è un unicum irripetibile in altre parti del mondo. Ma in Europa nei prossimi decenni avremo problemi simili o quasi: e fortunati noi se riusciremo a risolverli con altrettanta spregiudicatezza.
Centoventi-trenta anni or sono Marx lanciava il suo storico messaggio «Proletari di tutto il mondo, unitevi!», fondava l’Internazionale e affidava alla talpa della rivoluzione il compito di scavare sotto le frontiere della vecchia Europa. Ma, per un’ironia della storia, il Capitale è andato più lesto del Lavoro, l’economia ha sopravanzato la politica e la dialettica del mercato ha funzionato meglio di quella della rivoluzione. È stato il mercato (di cui Marx stesso aveva intuito e studiato il dinamismo) ad attrarre nel centro d’Europa braccia da tutto il Mediterraneo, a sconvolgere la geografia umana di grandi città come Londra, Amsterdam, Torino, a richiamare italiani, spagnoli, jugoslavi, turchi nelle tranquille valli svizzere.
Ma il mercato non può essere un sovrano assoluto, deve adattarsi quanto meno alla monarchia costituzionale, accettare cioè dei limiti ai suoi poteri e alla sua forza. Una società sregolata è una fissazione ideologica funesta quanto la società regolata. Gli effetti che il moto migratorio può produrre su gli equilibri sociali, politici, etnici sono troppo importanti (anche per gli emigrati e per le loro regioni d’origine) per non esser tenuti sotto controllo.
La soluzione non sarà unilaterale e dovrà partire da una presa di coscienza delle contraddizioni di questo problema. Un’Europa anonima, privata delle sue peculiarità storiche ed etniche risulterebbe alla fine impoverita, anche ai fini dello scambio culturale col resto del mondo. Ma anche un’Europa autarchica si ridurrebbe ad una serra antropologica senza respiro e senza avvenire. E il discorso vale anche per le singole nazioni. Se Firenze avesse davvero eretto intorno a sé la cinta dantesca, due secoli dopo il Machiavelli – la cui gente veniva dalle parti di Montespertoli – non sarebbe nato fiorentino.