I miei primi Primo Maggio
I. Noi ragazzi, seguendo l’esempio dei nostri padri, eravamo anticlericali sin dall’infanzia... Eravamo ancora bambini e già cantavamo canzoni di ribellione e facevamo arrabbiare il vecchio maestro Giacomo Iacchini perché rifiutavamo di andare in chiesa alla domenica. Mio padre gestiva un caffè e un’osteria nel corso Garibaldi (la via Emilia), frequentati abitualmente da gente di partito che faceva polemiche e discussioni politiche. In tale ambiente dovevamo crescere anche noi con lo spirito dei rinnovatori.
Ricordo, sebbene allora fossi appena un bambino, i commenti che si facevano sulle conferenze di Pietro Gori, Umberto Brunelli, Armando Borghi e di altri oratori che venivano spesso a Castello.
Ricordo anche i miei Primo Maggio, quando gran parte dei castellani andava nelle campagne con banda e bandiere; io e mio fratello accompagnati da ragazzi più grandicelli, seguivamo la banda, in cui suonava mio padre, e in quelle dolci primavere si faceva merenda, si ascoltava musica, dell’Inno dei lavoratori e del Primo Maggio e, infine, le conferenze degli oratori dei diversi partiti. Fervevano allora le discussioni fra coloro che volevano fare del Primo Maggio un giorno di rivendicazione sociale ed i riformisti che volevano ricordarlo solamente come un giorno di festa, “la festa del lavoro”.
Il Primo Maggio più memorabile per me fu nell’anno in cui la polizia non accordò il permesso di riunione; ma la manifestazione si fece ugualmente e con più entusiasmo che negli anni precedenti. Anche in quel frangente mia madre non c’impedì di andare coi manifestanti in campagna. Ci diede in consegna ad un giovanotto amico, Sassinè, ci disse di stare sempre vicini a mio padre e c’incamminammo così entusiasti per i campi primaverili. Non vi era polizia, la musica intonò gli inni, tutti cantavano sotto le bandiere rosse e nere e furono fatti i rituali discorsi prima del ritorno. Ritornammo in corteo per la via Pascoli (oggi via Lughese), quando ad un tratto il pubblico vide che numerosissimi carabinieri correvano, nel non lontano viale della stazione, verso il paese; naturalmente per sciogliere il corteo. Mi ricordo bene come tutti si radunarono per prendere decisioni. Risolvettero di fronteggiare la forza pubblica con le bandiere e di passare uniti in corteo in mezzo al paese. Vi fu nel Castello un momento di panico, soprattutto per le donne che avevano i mariti e i figli nella manifestazione. Ad ogni colonna dei portici del corso vi erano, armati, due carabinieri col delegato ad attendere il corteo; ma di fronte all’audacia dei manifestanti che entravano nel paese, il delegato fu prudente e fece ritornare i carabinieri in caserma.
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Nello Garavini a Castel Bolognese nel 1921
[N.B.: sul retro
dell’originale “16 maggio 1921”] |
Il famoso Malatesta
VIII. 1914: Malatesta a Castello. Rivedo i manifesti di carta verde con lettere a grandi caratteri: “Questa sera Errico Malatesta parlerà nella sala Garibaldi alle ore 21 sul Nostro Programma – È permesso il contraddittorio”.
Sebbene fosse una giornata d’inverno, prima delle 21 la vastissima sala Garibaldi era gremita di cittadini; alla tavola dell’oratore alcune sedie erano occupate da compagni; e seduto in sala c’era pure il delegato di Pubblica Sicurezza (il signor Farinacci, padre del famoso Ras, capostazione a Cremona). Il delegato si rivolse a Bosca: “Desidero far la conoscenza del Malatesta, essendo lui mio compaesano”. Malatesta gli stringe la mano e benevolmente gli dice: “Almeno non mi metta le manette!”. “Credo non sia necessario. Si attenga al programma”, risponde il delegato.
Dal famoso Malatesta tutti si attendevano una grande orazione; invece l’oratore parla in forma semplice ed elementare ma con parole piene di concretezza, parole che entusiasmano il numeroso pubblico, il quale interrompe il discorso con continui applausi. In sostanza, Malatesta spiega che tutti i beni della terra e della industria sono prodotti dai lavoratori del braccio e del pensiero e sarebbe logico e giusto che questi ricevessero il frutto del proprio lavoro. Invece che succede? Una piccola minoranza accumula tutto in un immenso giardino, chiuso da alte mura e da grossi cancelli, dove stanno di guardia le forze pubbliche che non lasciano entrare i lavoratori. I lavoratori restano fuori dal giardino e a godere la ricchezza sono solamente i signori. Occorre dunque fare la rivoluzione e appropriarsi di quello che è dentro al giardino per goderlo di comune accordo”. Il delegato interrompe dicendo che non può lasciarlo parlare a quel modo. Malatesta continua spiegando come si fa la rivoluzione ed il delegato interrompe una seconda volta. Malatesta dice che le guardie sono armate e per entrare nel giardino occorre usare la forza.
“Basta!”, grida il delegato, “Non posso lasciarla continuare, si attenga al programma”.
“Questo è il nostro programma e non posso spiegare il programma diversamente”.
“Queste sono cose che sappiamo, e la prego di parlare differentemente”.
“Signor delegato, è vero che noi le sappiamo; io, lei ed i miei compagni; ma molti non le sanno e in particolare le donne le ascoltano forse per la prima volta”.
Le donne applaudono freneticamente ed invitano ad alta voce l’oratore a continuare. Malatesta riprende a parlare e tiene avvinto l’uditorio per ben due ore. La conferenza ebbe un gran successo e tutti, amici ed avversari, ammisero che mai avevano sentito parlare con tanta semplicità e ricchezza di argomenti. Malatesta rimase soddisfatto dell’attenzione dell’uditorio e promise che sarebbe ritornato presto a Castel Bolognese per una nuova conferenza.
In quelle settimane Errico Malatesta fece un giro di conferenze nei paesi di Romagna. Una sera parlò a Lugo, dove predominavano i repubblicani. Accorsero a Lugo personalità di molte località per ascoltare il nostro compagno e alcuni anche da Castel Bolognese. Mi raccontava il caro amico libertario Aurelio Villa, che era andato a Lugo in bicicletta, con alcuni castellani: “Malatesta parlò al teatro Comunale, gremito di popolo, e alla fine del suo discorso fu salutato con scroscianti ed interminabili applausi. Terminata la conferenza Malatesta si rivolse al commissario di P.S. che l’aveva interrotto durante il suo dire varie volte: ‘Oh, caro amico La Polla, tu non ci daresti il permesso di fare la rivoluzione, ma sta pur tranquillo che la faremo lo stesso’. Fu poi circondato da numerosi amici e compagni e con essi si recò all’albergo S. Marco dove si svolse una specie di dibattito. Diversi politici presero la parola tentando di confutare il nostro compagno. L’avvocato Cantalamessa apprezzato nel foro e dai politici di Romagna, si rivolse ai suoi amici: ‘Egregi colleghi, Malatesta ci ha fucilato tutti senza fucile”.
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Emma Neri e Nello Garavini
a Rio de Janeiro negli anni ‘40
[in Avenida Rio Branco] |
IX. Il 18 marzo, nell’anniversario della Comune di Parigi, gli anarchici di Castel Bolognese tradizionalmente festeggiavano la memorabile data. Al mattino la gente sorrideva guardando centinaia di bandierine di carta multicolore appiccicate sulle facciate delle case, dei palazzi e nello stesso orologio della torre che dominava la piazza. Le bandierine erano incollate in una pagliuzza a un’estremità e l’altra estremità era presa in un pugno di argilla; una volta lanciate in alto, contro i muri delle case, rimanevano attaccate alle facciate, sventolando. Era cosa molto bella a vedersi e credo fosse una caratteristica del nostro paese.
Alla sera era organizzato un gran ballo a cui intervenivano anche i socialisti e i repubblicani; si facevano dopo la mezzanotte discorsi sulla Comune di Parigi ed il ricavato della festa (toltone le spese) era mandato ai giornali anarchici. Il 18 marzo 1914 erano presenti Errico Malatesta, Luigi Fabbri, Armando Borghi con le due sorelle ed il sindacalista Ettore Cuzzani. Intervenne pure l’onorevole Umberto Brunelli. La festa incominciò con grande entusiasmo alle nove di sera. Malatesta ballava con vivacità con una ballerina giovane e svelta, Teresa Grazioli; anche oggi, quando la vedo, le ricordo, con suo grande piacere, che ha avuto l’onore di danzare con una delle più belle figure della I Internazionale. Dopo la mezzanotte Malatesta parlò e si fece un gran silenzio nella sala Garibaldi. La festa era in forma privata e questa volta poteva parlare liberamente senza le interruzioni del delegato di P.S. Il nostro compagno parlò della guerra libica e delle sue tragiche conseguenze; guerra voluta da un governo inetto, inumano e senza scrupoli; parlò poi a lungo delle compagnie di disciplina dove era stato mandato il fiore della gioventù che si rifiutava di uccidere i fratelli; ricordò, con vivo entusiasmo del pubblico, Augusto Masetti che tanto scalpore aveva suscitato nel paese e si augurò che tutti i partiti uniti si agitassero per farlo liberare dal manicomio, perché Augusto Masetti non era pazzo, ma sano di mente e di cuore. “Tutto il popolo, tutti i partiti d’Italia, sono stanchi di questo governo imbelle. I lavoratori socialisti, repubblicani, sindacalisti e anarchici sono pronti e ingagliarditi per abbattere questa monarchia sabauda che tanti dolori ha dato al popolo italiano. Bisogna abbattere la monarchia e fare una repubblica libera che soddisfi le aspirazioni di tutti i partiti”. Concluse il lungo discorso sempre ascoltato con ammirazione: “Cari compagni e cari amici, gli eventi incalzano precipitosi; cercate di essere pronti, dimenticate i vecchi rancori, affratellatevi fra voi uomini di ogni partito e siate audaci nel gran giorno della rivendicazione che non è lontano. Ricordatevi che il governo è ben armato e che nessuna pietà ha per chi tenta di distruggere il suo potere; armatevi voi pure perché senza armi sareste annientati e distrutti. Vi prego per l’ultima volta di essere ben preparati con molte armi ed un’infinità di cartucce, perché senza le cartucce le armi perdono tutto il loro valore”.
Malatesta era ben certo che un movimento insurrezionale non sarebbe stato lontano. Il pubblico andò in delirio ed io ed i miei amici ascoltammo ragionamenti che in vita nostra mai più ascoltammo. Solamente nel 1924, durante l’epoca fascista, dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti, Amadeo Bordiga, al Castello Sforzesco di Milano, ebbe l’ardire di “bombardare” parole che avevo ascoltato solo da Errico Malatesta in quel 18 marzo 1914. Disse fra l’altro Bordiga, nel 1924: “Il fascismo ha vinto perché era ben armato, le parole ed i discorsi valgono molto meno delle armi. Se vogliamo la rivendicazione contro il fascismo occorrono armi di tutti i tipi, altrimenti continueremo ad essere soggiogati”. Bordiga aveva ragione; dopo il fatto Matteotti, se i parlamentari invece di cullarsi tra le chiacchiere, aspettando che Mussolini si dimettesse dal governo, avessero chiamato il popolo alla riscossa, il fascismo in quel momento sarebbe stato vinto. Invece...
Tronco così il ricordo sulla celebrazione della Comune, nel 18 marzo 1914 e su Malatesta, che rivedremo, dopo pochi mesi, nella settimana rossa.
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Nello e Giordana Garavini a Castel
Bolognese negli anni ‘60 |
Il rientro in Italia
I. Giungemmo in Italia in aereo, l’8 marzo 1947. Il clima di Roma era dolce, quello di Bologna, invece, rigidissimo. Decidemmo perciò di rimanere nella capitale una decina di giorni. Visitammo subito la redazione di “Umanità Nova”, dove incontrammo Gigi Damiani (allora direttore del giornale) e qualche altro compagno, fra i quali il mio compaesano Giovanni Forbicini. Forbicini fu la nostra compagnia di quei giorni romani. Egli ci presentò il simpaticissimo Trilussa e, con lui, trascorremmo belle giornate.
Si mangiava ogni giorno assieme ed il grande poeta dialettale dopo ogni pranzo ci declamava le sue migliori poesie libertarie e sociali. Non dimenticherò mai quei giorni trascorsi in tanta serenità. Finalmente, dopo ventun anni di assenza, posammo piede a Castel Bolognese. Sapevo che gli alleati, dai colli sul “Senio”, avevano distrutto il mio paese, ma non pensavo di trovare ancora tutte le case distrutte o senza tetto. In quegli inutili bombardamenti perdettero la vita quattrocento persone di Castello.
La mia casa era quasi tutta distrutta.
Quando giunsi in Romagna, stava terminando a Bologna il II Congresso della F.A.I. Era il 20 marzo. Feci in tempo a rivedere a Bologna il caro Armando Borghi col quale mi trattenni a parlare a lungo di vecchi e dolci ricordi. Parlai anche di tutto ciò che riguardava il nostro movimento; mi resi subito conto di non essere d’accordo sull’organizzazione, ma credetti fosse meglio lasciar correre. Le discussioni, quando si sa di non poter convincere il compagno, sono quasi sempre dannose. Il nostro Armando era ritornato con una mentalità americana, mentre io avrei preferito continuare, ora in Italia, sulla linea malatestiana di organizzazione anarchica e operaia. Ci salutammo, e come ho detto, senza intavolare oziose discussioni. Più tardi conobbi diversi giovani compagni fra i quali Pier Carlo Masini, Carlo Doglio, Antonio Carbonaro, Daino e altri; li valutai tutti attentamente e riposi tutta la mia fiducia in Masini. Molti giovani venivano a Castello a visitarmi, mandati dal caro compagno Pio Turroni di Cesena. Pio, pur non essendo un intellettuale, era un po’ l’anima del nostro movimento. Era un attivista, organizzava convegni e congressi, conferenze, comizi, faceva stampare giornali, manifesti, manifestini, pubblicava libri e opuscoli: era gerente responsabile della rivista “Volontà” diretta da Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria, gerente di “Umanità Nova” e fiduciario dei compagni “dell’Adunata” e dei compagni d’America. Presi in simpatia Pio Turroni e ne divenni amico, malgrado i nostri diversi caratteri.
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Emma Neri e Nello Garavini,
con il cane Kim, a Castel Bolognese
nel 1961 |
Pensavo, ricordando alcune frasi che Armando Borghi mi aveva detto nel nostro ultimo incontro a Bologna: “Il nostro movimento è ridotto a zero; bisogna ricominciare la propaganda da capo, così come nel secolo scorso; cinque lustri di educazione fascista con le sue guerre hanno fatto un popolo gretto, egoista, conformista, malgrado la decantata Resistenza”. Infatti i cittadini si erano inseriti in due grandi partiti di massa ognuno dei quali perdonava chi aveva commesso i peggiori misfatti; e prometteva grandi cose nell’avvenire a condizione d’iscriversi. E così tutti gli ex fascisti, gli avventurieri, i conformisti si iscrivevano a frotte nel partito comunista o nel clericale.
I partiti ed i movimenti di una certa moralità, come il nostro e il “Partito d’Azione” o gli uomini come Salvemini, Ernesto Rossi ed altri erano trascurati dal gran pubblico.
Il movimento anarchico, decimato di gran parte dei suoi uomini migliori, attraversava una delle più grandi crisi. A Castello, le centinaia di compagni e simpatizzanti si erano tutti eclissati; chi era deceduto, chi esiliato e senza ritorno, chi aveva cambiata residenza: erano rimasti appena una ventina di vecchi compagni. Con pochi altri organizzammo un circolo anarchico con biblioteca ed ogni sera ci trovavamo uniti più per la compagnia che per lo studio delle idee o per l’attività alla biblioteca. Se avessimo accettato nel circolo gli ex fascisti pentiti... saremmo aumentati numericamente, ma noi preferimmo essere pochi, amici leali e sinceri. Poi un giorno il maresciallo dei carabinieri mi chiamò e m’impose di chiudere nello stesso giorno il circolo, sotto pena di una grossa contravvenzione. Occorrevano alcune licenze, permessi, cento iscritti e denuncia ai carabinieri di tutti i componenti del circolo. Credemmo far bene chiudere il circolo. In fondo avevamo bisogno di giovani e non di anziani, che si riunivano a bere un bicchiere di vino; i giovani si disinteressavano di ideali politici e morali. Così a Castello come un po’ ovunque regnava un conformismo che oso chiamare ripugnante. Il nostro movimento non dava sensi di miglioramento. La situazione a Imola era peggiore di quella di Castello; il buon Primo Bassi non riusciva a fare seguaci, il compagno Resta di Faenza invecchiava e, nella cittadina di Serafino Mazzotti, si vendevano pochissimi nostri giornali. A Rimini, che fu sempre una roccaforte anarchica, vi erano disaccordi fra i compagni rimasti e si riscontrava una crisi maggiore che nelle altre località; e c’era crisi nei paesi e cittadine della Romagna e delle Marche. Erano ancora in vita Giuseppe Sartini, Alberto Meschi, Attilio Sassi, Giovannetti, Fantozzi, Mazzoni, Castrucci, Mosca, De Giovanni, Negro e moltissimi altri e si sarebbe potuto tentare di organizzare un movimento anarchico ed operaio che forse avrebbe dato risultati positivi; ma il nostro Armando Borghi diceva che il momento in Italia non era quello del 1919, e che tutto si doveva incominciare da capo.
Quale delle due correnti si doveva seguire? Venni a sapere anche che nel 1946 vi era una forte corrente libertaria, capeggiata da Porcelli e qualche altro compagno intellettuale, che voleva una vera organizzazione, ne avvenne una scissione nel nostro movimento.
Io credo che la fraternizzazione fra compagni, anche col rischio di qualche incoerenza ideale, fosse la più proficua.
Nello Garavini
(Si ringraziano per la collaborazione Gianpiero Landi e Claudio Mazzolani)
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Imola, Centro sociale Peace Maker, 10 ottobre 2004:
festa per l’80° compleanno di Giordana Garavini.
Nella foto, al centro, la festeggiata, circondata da una coppia
(anche nella vita, ma questi sono affari loro...)
di nostri collaboratori. Alla sua destra infatti c’è Cristina Valenti,
grande esperta e fine cultrice del teatro e del suo mondo;
alla sinistra di Giordana, Massimo Ortalli, vera e propria
colonna di questa rivista, tra i responsabili dell’Archivio storico
della Federazione Anarchica Italiana, nostro quasi-redattore
“in incognito”, all’occasione nascosto dietro un paio di baffi
alla Andrea Costa (anche lui imolese, ma – contrariamente
al Nostro – anarchico solo in gioventù) |
Un documento straordinario
di Massimo Ortalli
Alcuni numeri orsono (vd. “A” 350, febbraio 2010) avevamo pubblicato, anticipatamente, l’introduzione alle memorie che il vecchio anarchico Nello Garavini, di Castelbolognese, aveva scritto, per poi lasciarle nel cassetto, negli ormai lontani anni settanta. Oggi, finalmente, grazie all’impegno dei soci della Cooperativa Armando Borghi, che a Castelbolognese gestisce l’omonima biblioteca, le bellissime memorie di Nello vedono la luce, offrendo così, all’approfondimento non solo della storia del movimento anarchico, ma anche a quella, altrettanto complessa, della storia dell’Italia del Novecento, un documento davvero straordinario. Siamo sicuri che tale sarà anche il giudizio di chi avrà il piacere di leggerlo.
Un documento straordinario, dicevamo, non solo per gli avvenimenti, da quelli più conosciuti a quelli rimasti sostanzialmente ignoti, che troviamo in questa pagine, ma per la vivacità e la freschezza con la quale questi avvenimenti, che videro sempre la presenza del nostro Nello e dalla sua compagna Emma Neri, ci vengono trasmessi. Sono pagine, come si potrà vedere dalla piccola selezione che qui offriamo al lettore, nelle quali le fasi che hanno trasformato e segnato la vita di un secolo sono riportate con una sorta di understatement, un ché di consapevole e voluta modestia che era, siamo convinti, patrimonio comune a quella intera generazione di militanti che ha affrontato a viso aperto tutti i drammi e le grandezze del Novecento
Il comizio di Malatesta nell’affollatissima sala pubblica del paese, l’organizzazione della rete di disertori che rischiavano la fucilazione durante la Grande guerra, la lotta quotidiana con lo squadrismo fascista, tanto prepotente quanto vigliacco, la ricomposizione di una comunità di gente che aveva saputo mantenere la propria dignità nel lontano esilio sudamericano, queste e tutte le altre vicende che prese una per una basterebbero a segnare la vita di una persona, sono qui riportate con una naturalezza e una semplicità che, se paragonate alla prosopopea e alla miseria morale con le quali si propone l’attuale ceto politico, paiono davvero incredibili.
Del resto l’esperienza di vita di Nello ed Emma se è stata davvero unica, al tempo stesso è anche stata comune a quella di tanti altri anarchici e militanti del più vasto movimento sociale. Un paradosso solo apparente, perché tutti coloro che non piegarono la schiena e si mantennero fedeli alle idee di solidarietà e libertà, pur nella diversità delle singole esperienze, fecero parte di quello stesso comune sentire ed agire che caratterizzò, indelebilmente, le loro esistenze. C’è chi ha fatto l’esilio, chi il confino o il carcere, altri hanno affrontato a viso aperto le squadre fasciste o combattuto a fianco del popolo spagnolo, c’è chi ha fatto la Resistenza e la clandestinità, qualcuno, magari, queste esperienze le avrà vissute una per una, ma tutti hanno fatto parte, con la stesso impegno e la medesima tensione morale, di quel vasto movimento di uomini e di idee che ha saputo restituire dignità a un secolo imbrattato dai totalitarismi e dai crimini dell’imperialismo guerresco. È davvero un piacere, un grande piacere, ritrovare tutto ciò nelle semplici memorie di questo anarchico, partito da un piccolo paese del ravennate, per poi diventare un vero cittadino del mondo.
Nelle intenzioni di tutti i soci della Biblioteca Borghi questa pubblicazione non vuole essere solo l’adempimento di un impegno che non poteva più essere rimandato, ma anche, e non secondariamente, l’affettuoso regalo alla figlia di Nello ed Emma, la cara Giordana, senza la cui assidua e fondamentale presenza, la vita e l’attività della Biblioteca non sarebbero quelle che conosciamo e che condividiamo.
Massimo Ortalli |