Rivista Anarchica Online
"Le tesi del manifesto" UN MANIFESTO
IMBROGLIO
di Guido Montana
Hanno dovuto elaborare e redigere ben 200 paragrafi (oltre cinquanta
pagine della rivista "Il Manifesto")
per giungere alla conclusione che il rilancio della politica rivoluzionaria "passa oggi per una crisi del PCI
e una rifondazione politica, non per un suo spostamento". Ma l'affermazione di Natoli,
Rossanda e C., per noi resta piuttosto contorta e sospetta, soprattutto in
quel riferimento alla "rifondazione politica". Lo stesso termine "rifondazione", d'estrazione colta e
filosofica, tradisce il vizio intellettuale d'origine degli autori. Senza tale crisi, sarebbe
dunque impensabile la costituzione di una forza rivoluzionaria. Il "Manifesto"
precisa inoltre i motivi per cui la crisi del PCI "si è sviluppata finora in modo negativo".
Ciò sarebbe
dovuto al fatto che non vi è stato finora "un punto di riferimento politico-organizzativo
alternativo
sufficientemente credibile". Da qui a porre la candidatura per colmare tale deplorevole lacuna il passo
è brevissimo. A conclusione della logorroica stesura delle cosidette tesi, la rivista lancia infatti
un
appello a "militanti e quadri comunisti, militanti e quadri dell'area socialista, militanti e quadri di
formazione cattolica per l'unificazione di tutte le forze della sinistra rivoluzionaria". Il nuovo partito guida
è bello e pronto, con il suo politburò in testa, svisceratamente
rivoluzionario e unitario. "Unificazione" è termine che fa sempre
un certo effetto, soprattutto se associato al concetto di
"rivoluzione". Ma a questo punto, da persone disincantate, come in effetti siamo, avvertiamo la
necessità di andare in fondo al problema posto dal "Manifesto". Innanzitutto la
crisi del PCI. Evidentemente tale "crisi" non riguarderebbe il partito in
quanto partito, cioè in quanto struttura
abnorme, autoritaria, ecc., ma semplicemente, diciamo banalmente, la funzione che oggi il PCI svolge
(o che, secondo le "tesi", il PCI non svolge). Affinché si ritorni alla reale funzione
di partito rivoluzionario,
non ci sarebbe secondo il "Manifesto" che un mezzo: affrettare la "crisi" di un partito
comunista
"inesistente" in quanto tale, svuotarlo all'interno e nei suoi rapporti esterni, per poter costituire una vera
ipotesi partitica, cioè un vero partito guida.
Il partito contro i Consigli
Per Natoli, Rossanda e C., la politica realmente rivoluzionaria che si dovrebbe seguire è
incentrata su
due fattori: i Consigli - che però non dovrebbero avere funzioni di autogestione e di autogoverno
- e il
Partito, quale centro propulsivo e guida. Dovevano aspettare oltre cinquant'anni per ripresentarci, ripulita
a nuovo, la vecchia tesi bolscevica di Lenin, con cui l'autonomia rivoluzionaria dei Consigli (i Soviet)
veniva nei infatti drasticamente annullata, precisamente dal fattore Partito, quello strumento
cioè che
avrebbe dovuto garantire il trionfo della rivoluzione e che invece condusse alla controrivoluzione che
sappiamo. Dunque, Consigli e Partito. Ora, come viene giustificata la priorità del
Partito? Nel modo seguente: "...
questa crescita esige la presenza, nel movimento e fuori di esso, di una forza politica: cioè di una
teoria
e di una organizzazione, prodotto di tutta la storia della classe e della sua dimensione mondiale,
memoria delle masse, strumento di coordinamento delle lotte". Mescolando Marx, Lenin
e Jung ("memoria delle masse"), il "Manifesto" crede di aver dato una
giustificazione soddisfacente e soprattutto moderna, aggiornata. Innanzitutto confonde, tra
auto-coscienza, e quindi autentica esperienza, "memoria" delle masse, e semplice suggestione
mediata di
tipo repressivo. In realtà il Partito, come guida teorica e organizzata, è qualcosa di
completamente
estraneo alle autentiche origini del movimento operaio, che è nato come "lega" di
solidarietà, di lotta
e di mutuo soccorso come presa di coscienza diretta dello sfruttamento capitalistico e della
iniquità,
dell'inutilità del potere. Quando il "Manifesto" parla del Partito come "prodotto
di tutta la storia della
classe", evidentemente si riferisce alla storia di due tradimenti: quello socialdemocratico e quello
bolscevico. In realtà le masse hanno dovuto subire il Partito, cioè una
guida teorica e organizzata che ha sempre
avuto la pretesa di sovrapporsi all'obiettiva creatività rivoluzionaria dei lavoratori. Esempi storici
non
mancano: la rivoluzione d'Ottobre, la guerra civile spagnola e la stessa rivoluzione culturale cinese,
quando il Partito, il Potere, il Pensiero di Mao Tse-Tung, hanno assunto dall'alto la direzione della lotta
"teleguidata" dei giovani. Quando il "Manifesto" parla di "dimensione mondiale" fa certo
riferimento alle
posizioni di potere che il Partito ha realizzate nel mondo. Posizioni di potere, aggiungiamo, che sono
comunque una sovrapposizione ai reali interessi delle masse, come la cosiddetta "dittatura del
proletariato" è sempre una dittatura sul
proletariato. Ma Natoli, Rossanda e C. fingono di non accorgersi dell'incongruenza e, a
un certo punto,
solennemente dichiarano: "Il comunismo... non è lo Stato giusto, ma alla fine dello Stato; non
è una
gerarchia... ma la fine della gerarchia e il pieno sviluppo di tutti; non è la riduzione del lavoro,
ma la fine
del lavoro in quanto attività estranea all'uomo e puro strumento". Si tratta, come si vede, di
sfrenata
demagogia, che avrebbe fatto invidia persino al Lenin più euforico dell'aprile del
diciassette. Il "Manifesto" evita furbescamente di dare una definizione della
struttura organizzativa del futuro partito
di classe. Sa infatti che una conferma pura e semplice del cosiddetto "centralismo democratico"
solleverebbe non poche obiezioni, se non altro perché tutti sanno che la radiazione dal PCI di
Natoli,
Rossanda e C., è avvenuta proprio in virtù di quel principio. Per questo si limitano a dire
che la struttura
organizzativa non può essere definita astrattamente "perché situazioni diverse richiedono
istituzioni
diverse e una stessa struttura assume significati diversi in diverse situazioni". Come dire: non vi diamo
alcuna garanzia di come domani saranno, o meglio vorremmo che siano le
strutture di partito. Ora, a parte il fatto che tale "spiegazione" corrisponde esattamente al
pensiero, o meglio allo spirito di
adattamento dei Gesuiti, di cui Pascal ci ha dato pagine memorabili, non è credibile che si possa
essere
tranquillamente elusivi a strutture, che dovrebbero essere guida teorica e organizzata dell'intera
società,
guida per la "costruzione del socialismo". È infatti puramente inutile assegnare ai Consigli dei
lavoratori
un compito rivoluzionario essenziale, quando poi a guida della rivoluzione si pone una struttura partitica
antitetica, che proprio perché basata sul famigerato "centralismo democratico" toglie
inevitabilmente
ai Consigli stessi ogni autonomia. Al paragrafo 98, il rapporto tra gruppo sociale (espresso
dai Consigli) e Partito (espressione della
"coscienza rivoluzionaria") appare precisato molto disinvoltamente. Compito dei Consigli sarebbe di
impedire, o meglio di ostacolare la degenerazione del Partito; compito del Partito sarebbe invece quello
di impedire "il ripiegamento corporativo" delle masse. A un lettore disattento tutto ciò
può fare un certo
effetto: si tratterebbe infatti di una specie di compensazione, di equilibrio e quindi di una reale garanzia.
Ma il "Manifesto", poco prima, si era preoccupato di spiegarci che i "Consigli non possono
essere organi
di autogestione delle singole attività produttive" e che la "produzione deve essere coordinata da
un
piano e il comportamento degli individui e dei gruppi condizionato da elementi ancora in parte
coercitivi".
Per conseguenza logica il supposto equilibrio e la millantata "garanzia" sono in effetti
totalmente
dipendenti dalla cosiddetta "forza soggettiva unificante" e cioè dal Partito. Partito, si badi bene,
che
usufruirebbe di strumenti "ancora in parte coercitivi", perché il "Manifesto" dopo
aver demagogicamente
parlato della estinzione e della fine dello Stato, dichiara candidamente di voler fondare il potere statale
(sic!) sui consigli, ecc. Come dire, con umorismo certo involontario, che lo Stato dovrebbe
essere
fondato sui Consigli, affinché i Consigli stessi vengano poi affondati (affossati)
dallo Stato, dallo Stato
di partito. Niente di diverso è accaduto in URSS. Direi di più: l'affossamento dei Soviet
avvenne in
Russia seguendo la stessa liturgia politica di cui oggi si serve il "Manifesto"; direi con le
stesse parole.
Si legga il passo seguente, delle cosidette tesi, e poi lo si confronti con quanto scrisse Lenin
in Stato
e Rivoluzione: lo stesso concetto, quasi le stesse parole! "Lo Stato rivoluzionario
può e deve essere dall'inizio... uno stato sui generis... cioè uno stato che
dal
primo momento comincia a deperire". (Come deperisse lo Stato fu poi "spiegato" dal partito bolscevico,
da Lenin, da Trotsky e soprattutto da Stalin; e poi da Kruscev e da Breznev, con oltre cinquant'anni di
gestione del potere!).
Lo stato siucida
Ma Natoli, Rossanda e C. raggiungono il vertice dell'"astuzia" al paragrafo 95. Astuzia per modo
di dire,
perché è così scoperta che vien voglia di pensare, invece, a una sorta di
infantilismo o analfabetismo
politico di ritorno. Scrive il "Manifesto" (udite! udite!): "Ciò non
vuol dire considerare superato il principio marxista-leninista della dittatura del proletariato (e
chi ne aveva mai dubitato? n.d.r.). Fino a quando la società comunista non è
costruita e una gestione
diretta da parte delle masse non è possibile, gli elementi di centralizzazione e di delega devono
progressivamente deperire ma continuano a prevalere nella costituzione politica". Quindi
lo Stato deve deperire... ma continua a prevalere. E perché mai
dovrebbe deperire, se intanto
prevale? Chi dovrebbe decidere del suo deperimento? La struttura statale che continua a
prevalere, il
Partito? Non è molto chiaro, anzi è tutto piuttosto ambiguo, soprattutto quando si
afferma che "la
gestione diretta da parte delle masse non è possibile" senza aver prima costruito la società
comunista.
In altri termini, lo Stato, il Partito, autorizzati a tale costruzione, decideranno se e quando dovranno
deperire. Qui andiamo oltre Lenin e giungiamo diritti a Stalin, che diceva né
più né meno queste cose,
giustificando la mancata estinzione dello Stato con l'"accerchiamento capitalistico". Oggi, il
"Manifesto",
che non può parlare di "accerchiamento" perché viviamo in epoca di coesistenza
pacifica, si limita a dire:
deve deperire... Deve. Per ripetere tali sciocchezze hanno riempito un intero fascicolo,
sperando di far
credere a cose inedite e mirabolanti. Non varrebbe la pena di confutare tutto ciò, che si confuta
da sé,
se non fosse stato scritto da noti "teorici" ed esponenti della sinistra extraparlamentare, che tra l'altro
credono nel parlamento fino al punto di condurvi tragicomiche "battaglie". Insomma,
torniamo a chiedere, chi dovrebbe far deperire lo Stato? Poiché lo Stato non potrà mai
deperire da sé, non resterebbero che i lavoratori organizzati, riuniti nei Consigli, le masse, il
popolo.
Precisamente quelle forze popolari che sono interessate alla estinzione, alla distruzione dello Stato. Ma
i lavoratori, per implicita ammissione del "Manifesto", non possono farlo, dal momento
che sono
dichiarati incapaci di autogestione. Chi darebbe loro il potere di estinguere
lo Stato, dal momento che Stato e Partito - secondo le tesi -
permangono appunto in quanto non è possibile l'autogoverno dei lavoratori e dei
Consigli? Non ci sono dubbi: lo Stato potrebbe deperire solo per volontà (con il
beneplacito) di coloro che si
pongono già da ora al vertice del potere, cioè di coloro di cui lo Stato stesso diverrebbe
espressione,
e cioè l'élite politica di professione e i burocrati. Ma s'è mai dato il caso di una
burocrazia di stato o di
un partito che volontariamente decidesse di estinguersi? Del resto, come dovrebbero
andare le cose
su questo punto, ce lo spiega in chiare lettere il "Manifesto", quando dice: "... il processo
rivoluzionario
può procedere fino in fondo solo se... il potere politico resta nelle mani di coloro il cui interesse
materiale
è la soppressione dello sfruttamento fino in fondo". Dunque, il proletariato garantirebbe il
processo
rivoluzionario, avendo nelle mani il potere. Dove si vede la sovrana mala fede intellettuale
di chi finge di
dare ai lavoratori un potere, nello stesso momento in cui li dichiara incapaci di esercitarlo.
Lenin camaleonte
In un ambito puramente verbale il "Manifesto" si sbizzarrisce nel saccheggio di tesi
libertarie, come del
resto è costume di ogni buon bolscevico (o presunto tale). Prendiamo il problema della divisione
del
lavoro. Al paragrafo 79: "... lotta contro la divisione, e il concetto capitalistico, del lavoro... rotazione di
tutti i membri della società nelle mansioni lavorative più estraniate e subalterne". Ma
anche qui niente
di nuovo, perché nella primavera del 1917 Lenin diceva quasi le stesse cose. Anche Lenin - allora
- parlava da... anarchico (almeno su questo punto), salvo poi rimangiarsi tutto dopo aver preso il potere.
Natoli, Rossanda e C. sarebbero dunque più coerenti e adamantini di
Lenin? Scriveva Lenin: "Adozione immediata di misure idonee a consentire che
tutti adempiano alle funzioni
amministrative, che tutti diventino a turno dei "burocrati" e che, appunto per questo,
nessuno possa più
essere burocrate professionale... Ci confonderanno con gli anarchici", ma aggiungeva subito che non
si poteva negare "la somiglianza del marxismo con l'anarchismo, con Proudhon e anche con
Bakunin". Ciò, indubbiamente, era in contraddizione con la concezione leninista
della funzione del Partito. Solo
la pratica del potere risolse la contraddizione, e in modo tale che Lenin si pronunciò per un
ennesima
"variante" del marxismo, riguardo alla divisione del lavoro. La direzione collettiva, la rotazione degli
incarichi e lo stesso autogoverno delle masse, vennero considerati "malsane idee anarchiche" e come
tali ferocemente combattute. Difficile stabilire quale fosse il Lenin "vero", se quello del 1902 (del
Che
fare?), quello della primavera del diciassette, o quello successivo, che risolse a cannonate il
problema
dell'autogoverno dei lavoratori, a Kronstadt e altrove. Agli anarchici il quesito interessa relativamente.
I marxisti-leninisti-pseudomaoisti del "Manifesto" dovrebbero però spiegarcelo.
Direbbero così qualcosa
di più anche sulla loro attuale mistificazione ideologica, che concerne la divisione
del lavoro e altro. Innanzitutto bisogna dire che l'esistenza di una élite politica, di
cosiddetti "rivoluzionari di professione",
di uomini e di strutture burocratiche di partito, costituisce la prima e più grave divisione del
lavoro, la
prima è più grave fonte di ineguaglianza. E anche in questo Lenin - trascorsa l'euforia
"libertaria" - fu
drasticamente esplicito. Nella primavera del 1917 in sostanza diceva: tutti, a turno, devono fare i
"burocrati"; quindi non ci sarà di fatto nessun burocrate. Sosteneva in altri termini l'eliminazione
hic et
nunc del divario classista tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ma ora
ascoltiamolo: "Credete che si possa amministrare senza competenza, senza conoscenze
profonde, senza scienza
amministrativa? Sarebbe ridicolo... La direzione collegiale sarebbe inammissibile, per la semplice
ragione che abbiamo poche persone sperimentate... La dominazione della classe operaia è nella
costituzione, nel regime di proprietà e nel fatto che siamo noi a mettere le cose in marcia; ma
l'amministrazione è un'altra cosa, è una questione di capacità e di
abilità". La funzione creativa dell'autogoverno veniva, come si vede, dimenticata
e irrisa ("sarebbe ridicolo"). Gli
operai avrebbero dovuto accontentarsi di vedere riconosciuta la loro dominazione nella
carta
costituzionale "e nel fatto che siamo noi" (cioè loro) a dirigere. Ora,
le tesi del "Manifesto" sembrerebbe un incastro del Lenin "anarchico"
dell'aprile 1917 con quella
autoritario, successivo alla rivoluzione d'Ottobre. Da tale contraddittorio guazzabuglio ideologico il
"Manifesto" ha tratto la sua maggiore ispirazione di fondo, aggiungendovi solo
l'attualità tecnologica e
l'inevitabile maoismo. È infatti evidente che ieri, per Lenin, come
oggi per il "Manifesto", il regime di
proprietà collettiva, la "dittatura del proletariato", erano semplici riconoscimenti verbali, cartacei.
In altre
parole, il "Manifesto" evita di chiarire - come Lenin evitò di chiarirlo nel 1917 -
che la divisione classista
del lavoro non riguarda solo il problema delle classi al potere, ma il potere in sé, il quale
decide (o è
costretto a decidere dalla realtà dei fatti) su chi deve amministrare e
chi deve essere amministrato. In
altri termini, la questione di "essere a turno" amministratori e amministrati, è risolvibile nella
misura in
cui la tecnologia e la scienza dell'amministrazione cessino di essere strumenti del potere per divenire
dei servizi di fatto collettivi e senza potere. Ma tutto questo non
potrà essere certo realizzato con l'"ideologia" del "Manifesto" (come non poteva
realizzarlo Lenin), perché tale "ideologia" assegna alla classe operaia e alle masse popolari un
ruolo
subalterno e strumentale, quale forza di pressione, manovrabile per la strategia dei vertici, che sono
(o diverrebbero) di fatto i veri "amministratori" della cosiddetta rivoluzione
marxista-leninista.
Guido Montana
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