Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 1 nr. 7
ottobre 1971


Rivista Anarchica Online

Ipotesi per l'anarcosindacalismo
di Paolo Orsini

PREMESSA: Dobbiamo fare i conti con le tendenze odierne della produzione. I marxisti-leninisti parlano di fase monopolistica. Tuttalpiù di identificazione di stato e capitalismo: è questa un'espressione erronea, più chiaramente e scientificamente, la tendenza dominante è la pianificazione di stato, ormai in atto.
Questo cambiamento della realtà materiale ci porta a rivedere alcune posizioni teoriche. Nel capitalismo classico, concorrenziale e ottocentesco, aveva ancora senso la distinzione tra lotta economica e lotta politica: l'attacco operaio ed economico contro il capitalista si rifletteva solo indirettamente e lontanamente contro il potere politico, così come l'attacco politico non si identificava con la lotta al padrone; questo perché capitalismo e stato rimanevano distinti anche se in funzione reciproca.
Oggi invece la gestione dell'economia da parte dello stato (tecnoburocrazia al potere), identifica totalmente potere economico e politico, quindi lotta economica e politica.
In questa situazione, il sindacalismo ha ancora un senso? A nostro avviso sì!
Nelle lotte del lavoratore manuale possiamo distinguere due tendenze:
1) Valorizzare se stesso come lavoratore manuale;
2) Negarsi come lavoratore manuale.
Chiarito questo, l'anarcosindacalismo oggi non ha, per quello che si è già detto, la funzione di sviluppare la lotta economica semplicemente come in passato, ma quella di valorizzare il lavoratore manuale in quanto tale.
A prima vista sembrerebbe che queste due tendenze degli sfruttati facciano a pugni fra di loro, in realtà si completano e si danno un significato rivoluzionario, o almeno esiste questa possibilità oggettiva.
Non possiamo assolutamente ignorare la tendenza del lavoratore manuale a valorizzarsi, tacciando questa prassi proletaria di riformismo; una posizione del genere ci terrebbe per sempre lontani dagli sfruttati. Il problema è diverso: si tratta di dare un senso rivoluzionario a ciò che gli sfruttati portano avanti, cioè alle lotte che si fanno.
Facciamo una semplice constatazione sulle lotte proletarie, le quali strumentalizzate o no conservano dei punti in comune.
Osserviamo lotte di due tipi: 1) per l'aumento del salario o per obiettivi equivalenti; 2) per la riduzione dell'orario di lavoro o per obiettivi equivalenti.
Questa prassi mostra che la figura sociale del lavoratore manuale è contraddittoria, e tale è la sua lotta (lo sfruttato che vuole negarsi e valorizzarsi nello stesso tempo).
Oggettivamente, possiamo affermare che in sé la valorizzazione del lavoratore manuale è uno sforzo patetico: sforzo che però trascina con sé delle implicazioni rivoluzionarie.
Non è a caso che le lotte per la valorizzazione hanno creato l'esigenza padronale di istituzioni atte ad impedire lo sviluppo completo di tali lotte (sindacati, e partiti riformisti) ed è così importante contenere queste lotte che oggi queste istituzioni (sindacati e partiti riformisti) un tempo semplici organismi di mediazione, di pompieraggio, scalzano i vecchi padroni dal potere che non possono oggettivamente controllare certi tipi di lotta.
La valorizzazione è rivoluzionaria proprio perché è impossibile: ed è compito dei rivoluzionari spingere questo processo fino alle estreme conseguenze. Solo quando avrà percorso questa strada l'operaio accentuerà la sua seconda tendenza, quella di negarsi (rifiuto del lavoro, più in particolare della funzione).
Ricordiamo che queste tendenze non sono momenti separati in questo preciso momento (prima luna, dopo l'altra): l'esperienza insegna che esse vanno di pari passo molto spesso, e ciò è significativo di un certo livello di coscienza rivoluzionaria già raggiunto.

Rifiuto della funzione, crisi produttiva e ristrutturazione
Nella prospettiva del rifiuto totale della funzione, la distruzione di macchinari ecc. assume un significato preciso al di là della semplice esplosione della rabbia operaia: infatti le attuali strutture produttive, fondamento dello sfruttamento hanno bisogno, per produrre, della divisione del lavoro; inoltre molti prodotti della società autoritaria non servono in una società comunista libertaria.
Nella misura in cui l'emancipazione è impossibile sulle attuali strutture, l'unica soluzione rivoluzionaria è distruggerle.
La lotta dura che danneggia la produzione e le strutture produttive della divisione del lavoro si materializza quindi come lotta antistatale nell'economia statale: è la crisi economico politica.
È in questo contesto di attacco proletario alla produzione, e quindi di crisi, che si attua in tutta l'Italia la ristrutturazione statale tecnocratica delle aziende che porta alla disoccupazione di massa decentrando la concentrazione operaia e isolando i gruppi più combattivi: la ristrutturazione economica si mostra nello stesso tempo come rafforzamento politico della tecnocrazia ed è in questa delicata situazione che dobbiamo innestare la nostra azione.
Se la ristrutturazione passa, la lotta di fabbrica diventa nulla e lo scontro si sposta sui quartieri, fra i disoccupati emarginati dal nuovo aspetto aziendale.
È questa l'eventualità di una prima vittoria del potere: ma noi dobbiamo cercare di arrestare e di impedire la ristrutturazione.
Impedire la ristrutturazione, oggi, significa distruggere il potere tecnoburocratico e legarsi concretamente alle lotte delle masse proletarie, unificate di fatto come classi di lavoratori manuali. Questo perché il filo conduttore che oggi lega gli sfruttati dovunque (fabbrica, quartieri, campagna) è la lotta contro la ristrutturazione e questo è il nostro riferimento per rafforzare l'autonomia e l'unità proletaria. Legare lotte che fino ad oggi sono state pressocché distanziate tra loro, significa passare ad una fase di scontro generale contro lo stato.

Paolo Orsini