Rivista Anarchica Online
La falsa scelta
di R. Brosio
L'appuntamento non è nelle cabine elettorali Con l'ingresso dei "rivoluzionari" nella competizione elettorale il sistema ha acquistato nuova
credibilità - Solo la lotta, non la scheda, può innescare il processo rivoluzionario e abolire lo
sfruttamento.
Ancora una volta, elezioni. Ancora una volta, anticipate e comunque, secondo quella che ormai è
divenuta la regola, presentate come un avvenimento eccezionale. Vuoi che siano considerate l'ultima
occasione per arginare l'avanzata comunista, l'ultima battaglia della guerra contro l'asservimento a
Mosca, vuoi che vengano viste come il passo decisivo verso quel "cambio di guardia" di cui il paese,
si dice, ha bisogno, il discorso è sempre lo stesso. Cambia la valutazione, ma l'appuntamento del 20
giugno è reputato storico da tutti. Dal Movimento Sociale alle liste della sinistra finora (e fors'anche
dopo) extra-parlamentare, al dil là delle sfumature e delle motivazioni, tutti sono unanimi nel
drammatizzare il significato della prossima votazione, nell'attribuire alla scelta di ognuno tutto il peso
di un cambiamento imminente.
Ma, anche se parzialmente ammantato di qualche nuovo contenuto, il discorso è vecchio. L'abbiamo
sentito fare alle ultime amministrative, subito prima in occasione del referendum sul divorzio, e alle
politiche (anticipate) che l'hanno preceduto. L'abbiamo sentito ventilare anche molto recentemente,
quando il referendum sull'aborto sembrava inevitabile, prima che la "prudenza" della classe politica
preferisse ad esso il ricorso (solo in apparenza più drastico) all'attuale consultazione. Abbiamo sentito
dire, ogni volta, che col voto c'era la possibilità di "modificare le cose", e non abbiamo visto cambiare
alcunchè. Almeno nel senso che noi, che non abbiamo mai votato, auspichiamo, e che molti, che hanno
meditatamente barrato la scheda, si sono illusi di determinare.
Il discorso è vecchio, ma necessario. Che sarebbe, infatti, un'elezione dove i votanti non fossero convinti
di avere nelle mani il futuro del paese? Sarebbe ciò che realmente è, il rito religioso di riconoscimento
di un potere già ampiamente detenuto di fatto, e solo in parte delegato per l'occasione. Ecco allora il
giochino di attribuire ad ogni scadenza elettorale un carattere di eccezionalità, da "ultima spiaggia", che
conservare al rito quel minimo di credibilità democratica senza la quale perderebbe la sua ragion
d'essere, la partecipazione di massa. Per consolare i delusi, stimolare i tiepidi, riconquistare gli scettici.
È significativo notare, a tal proposito, che a questa manovra illusionistica partecipano direttamente
anche coloro che in Parlamento non ci sono ancora e, ostentando in par misura realismo e buona fede,
chiedono di essere scelti per andare, di lassù, a mettere in crisi gli intrighi dei potenti. Parliamo, è chiaro,
degli extraparlamentari ed in particolare della lista di Democrazia Proletaria, dove si sono riuniti, tra
polemiche e gelosia, il PdUP, Avanguardia Operaia e Lotta Continua. Non si sentono, costoro, che
cercano di dimostrare come ormai basti una scheda per innescare la rivoluzione, corresponsabili di
questa farsa attraverso la quale si perpetua il sistema che dicono di voler distruggere? Dove sono andati
i tempi di una volta, quando era "solo la lotta" a decidere? Oggi la lotta non decide più. Al suo posto
c'è una lista unica, faticosamente composta e internamente divisa, utile solo a recuperare un maggior
numero di voti, per avere qualche probabilità in più di salire le scale del potere. Parliamo anche dei
radicali, che si apprestano a salire le stesse scale reggendo la bandiera dei diritti civili. Pannella digiuna
per consentire "a tutti" di usufruire in egual modo della televisione di Stato, ma è improbabile che non
si renda conto che una lotta siffatta serve soprattutto al sistema (oltre che alla propaganda radicale,
perché contribuisce a diffondere l'idea che esso, con opportune modifiche, possa diventare veramente
equo e rappresentativo. Anche Pannella, quindi, è responsabile del giochino elettorale, anch'egli vende
l'illusione che il voto, almeno in questa occasione, sia un'arma in mano al popolo. Della buona fede di
una tal convinzione, d'altronde, sembra lecito aver più di un dubbio, se a presentare liste completamente
autonome il Partito Radicale è arrivato solo dopo che i socialisti hanno rifiutato di inserirne alcuni
candidati nelle proprie. Cos'è più importante, compagno Pannella, la lotta per le libertà civili o l'essere
eletto? Ma l'elezione, si risponderà, è solo un mezzo, uno strumento per realizzare, eccetera eccetera.
Benissimo. Ecco il giochino elettorale che continua.
Si è detto, poco fa, che nulla è cambiato, dopo i precedenti "storici" appuntamenti elettorali.
L'affermazione merita forse qualche chiarimento. Infatti, che ci siano stati degli spostamenti negli
equilibri politici su cui è basata la gestione del potere nel nostro paese, è innegabile. L'avvicinamento
progressivo del Partito Comunista all'area governativa, il parallelo decadimento dell'egemonia
democristiana, sono infatti non contestabili e, a loro modo, "storici". Ma, primo (e sembra superfluo
farlo notare), non hanno prodotto alcun sensibile miglioramento delle condizioni di esistenza popolari,
nessun allargamento dell'area di libertà a disposizione di coloro che della classe dirigente non fanno
parte. Secondo (ed è ciò che più ci interessa in questa sede), non sono stati provocati dalle scelte degli
elettori, ma semplicemente sanciti a posteriori attraverso il rituale delle votazioni. La marcia verso il
potere del PCI è continuata assai prima del 15 giugno scorso, assai prima della stessa offerta di
compromesso storico alla DC, la cui crisi, peraltro, è da ricercare più nell'inefficienza intrallazzatrice
con cui ha gestito l'evoluzione economica che nella diminuzione dei voti. Gli elettori non hanno deciso
tutto ciò, si sono limitati a riconoscerlo.
L'attuale consultazione non ha nessun motivo per sfuggire a questa regola di "passività". Il voto del 20
giugno sarà il risultato dell'incontro (o scontro) di forze che stanno al di sopra del cittadino, dell'uomo
della strada, e ne condizionano la "libera" scelta. Questo non vuol dire che non ci saranno modificazioni
nell'assetto politico. Ma, ancora una volta, saranno quelle (e solo quelle) che l'equilibrio generale del
sistema consente.
Da una parte, è possibile prevedere un calo ulteriore della Democrazia Cristiana. Il processo di
"marcescenza" di questo partito continua ad un ritmo tale, da renderle sempre più problematico il
mantenimento dei consensi non legati al gioco delle cliente e dei favori. Basti pensare al tanto decantato
"rinnovamento" delle liste, voluto dall'amico Zac, che ha messo in moto il consueto, e pur sempre
immondo, spettacolo degli intrallazzi, delle faide, delle manovra e delle alchimie dei notabili preoccupati
di perdere le ambite poltrone. Tant'è che, in barba al rinnovamento, praticamente nessuno dei vecchi
(di nome e di fatto) sederi di pietra è stato escluso, nemmeno i più "chiacchierati" (Gava a Napoli, per
esempio). Il potere acceca. O, se preferite, la divinità fa impazzire chi vuol portare alla rovina. Gli
uomini della DC si stanno dimostrando così miopi (e "scomposti") nella corsa al privilegio, da non
rendersi conto che una delle cause della disaffezione dei votanti nei loro confronti sta proprio in queste
manifestazioni da jene fameliche, nell'impudica esposizione delle loro vergognose contese. A
controbilanciare, se pur parzialmente, questo stato di cose, c'è il fatto nuovo della candidatura di
Umberto Agnelli (che pure ha fornito qualche altra occasione di sputtanamento ai notabili che l'hanno
avversata, come Donat-Cattin). Presentata come una candidatura "progressista", in quanto Agnelli
rappresenta la parte più avanzata dell'imprenditorialità nostrana, la più intelligente nel gestire
l'evoluzione delle strutture economiche italiana, può servire parecchio alla DC. Sia per recuperare "a
destra", tra gli imprenditori e, in generale, tra gli amanti dell'efficienza produttiva che gli Agnelli
personificano, sia (per così dire) "a sinistra", tra l'elettorato spinto ad abbandonare i democristiani dalla
connotazione eccessivamente conservatrice e reazionaria che sono andati assumendo. Però, più ancora
che le "partecipazioni straordinarie" nell'elenco degli attori, è possibile che un aiuto maggiore, a frenare
l'emorragia di consensi, venga alla DC dall'altra parte dell'oceano. Non è un mistero che gli Stati Uniti
stanno impegnandosi a fondo per ipotecare il prossimo risultato elettorale, per impedire o quanto meno
contenere l'avanzata del Partito Comunista. A parte le dichiarazioni pubbliche di Ford o di Kissinger,
il precipitare della crisi economica, il calo pauroso della lira sul mercato internazionale, insieme alle non
celate responsabilità degli USA in tutto ciò, stanno a testimoniare quanto possa pesare sulla nostra
situazione interna lo sfavore dell'alleato amerikano. Sfavore che, di per sé, è già un deterrente notevole,
specialmente per quella parte dell'elettorato preoccupato dell'ordine e della stabilità, del quale verranno
così contenuti entro limiti accettabili gli spostamenti a sinistra.
Dell'opportunità di non inquietare lo zio Sam e quindi di non tirare troppo la corda, è ben conscio il
PCI. Berlinguer, infatti, ha per il momento abbandonato l'idea del compromesso storico per sostituirla
con la proposta di un "governo di tutti", aperto cioè a tutti i partiti escluso il Movimento Sociale (e,
chissà, fors'anche gli attuali extra-parlamentari, se verranno eletti). È evidente il significato strumentale
della proposta, che serve a non perdere il terreno guadagnato finora e contemporaneamente a diluire
in un contesto più ampio l'importanza "formale" della propria ammissione al potere. È evidente anche
che, in un caso del genere, qualunque risultato elettorale (quale che fosse) perderebbe il senso:
l'eventuale spostamento a sinistra dei voti avrebbe un significato meno preoccupante per gli Stati Uniti,
ma "l'espressione della volontà del paese" perderebbe più che mai ogni rilevanza decisionale. Una cosa,
comunque, è certa: il Partito Comunista non ha nessuna intenzione di cavalcare la tigre, di farsi
interprete, cioè, delle aspirazioni ad un rinnovamento sociale che potrebbero incarnarsi nell'aumento
dei suoi consensi. Lo dimostra, anche, la ferocia con cui, in questi giorni, l'Unità attacca i concorrenti
alla sinistra, quasi che i nemici delle classi popolari stiano, prima ancora che nelle file del Movimento
Sociale o della DC, tra gli aderenti a Democrazia Proletaria. Proprio questi signori si accorgeranno a
loro spese, dopo il 20 giugno, quanto sia fondata la speranza in un "voto rosso" che costringa il PCI
alla... rivoluzione. A meno che non inventino, per tempo, qualche altro ghirigoro dialettico per accodarsi
ancora una volta alle scelte di Berlinguer.
Un discorso simile, mutatis mutandis, può essere fatto per il PSI, l'altra forza che dovrebbe partecipare,
con l'aumento dei propri voti, allo spostamento a sinistra dell'asse elettorale. A differenza di Berlinguer,
De Martino non ama le proposte troppo precise, le indicazioni impegnative di formule politiche
risolutrici. Non intende cioè, fare la concorrenza al PCI sul piano delle connotazioni d'ordine, nel timore
di perdere credibilità riformatrice presso i suoi elettori più affezionati. Nel contempo, però, non può
accentuare la propria fisionomia "rivoluzionaria" (si fa per dire) sia per motivi paralleli a quelli dei
comunisti, sia per non chiudersi la possibilità d'intesa con gli altri partiti di centrosinistra. La
preoccupazione principale del PSI sembra quella di dare un "colpo al cerchioe uno alla botte"
(sintomatica la riluttanza con cui è arrivato a rifiutare l'offerta dei Radicali) per guadagnare quei voti
che gli consentono di stare meno stretto tra i due "fidanzati" desiderosi di abbracciarsi, DC e PCI.
Comunque, questo significa che anche dai socialisti c'è ben poco da aspettarsi, dal punto di vista delle
possibilità di rinnovamento che una loro crescita potrebbe esprimere.
In conclusione, i giochi, ormai, sono stati fatti. Se la nostra idea è giusta, assisteremo ad una conferma
della tendenza all'aumento dei voti di sinistra e al calo dei voti democristiani, ma non tanto rilevante (nei
due sensi) da poter diventare in sè un fattore di modificazione politica e sociale. Che è appunto, come
si diceva, quanto il sistema attuale può permettersi e, comunque, quanto desidera realizzare. È
significativo ricordare che, in quest'occasione che si vuole storica, i sindacati (ed in particolare la CGIL)
non hanno praticamente preso posizione, lasciando liberi i propri iscritti di votare "secondo coscienza".
Quasi non intendano usare la propria obiettiva influenza presso l'elettorato per orientare in un senso o
nell'altro le votazioni. Perchè ciò cui tende il sistema oggi (del quale anche i sindacati fanno parte) non
è, come non è mai stata, la realizzazione della volontà popolare, bensì la costruzione di situazioni
sufficientemente fluide, non nettamente orientate in un senso o nell'altro, che si prestino alla costituzione
di alleanze politiche e di gestione. Proprio una situazione del genere, se vediamo giusto, scaturirà dalle
elezioni del 20 giugno, cioè, grosso modo, quella che corrisponde agli attuali equilibri esistenti di fatto
tra vecchi, nuovi e futuri gestori dello stato.
I giochi, ripetiamo, sono fatti. Perchè votare quindi? In questo come negli altri casi, la scelta
astensionista, la scelta anarchica, è l'unica possibile per chi vuole la libertà e l'uguaglianza, e guarda in
faccia la realtà. L'appuntamento storico, quello vero, non è nelle cabine elettorali. È nelle fabbriche,
nelle piazze, nei quartieri, dovunque gli sfruttati lottano per prendere le redini del proprio destino, per
imparare a fare da sè. È questo il movimento cui dobbiamo partecipare, non quello che chiede di
realizzarsi andando al governo, Dopo ogni elezione, il fronte delle lotte è sempre un poco più arretrato,
la volontà di lotta appannata dalla speranza nei "nuovi" equilibri. E chi ci guadagna è sempre lo Stato.
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