Rivista Anarchica Online
AL CINEMA
a cura di Rozac
Apache di William A. Graham.
Come spesso accade per i film belli, questa pellicola non è stata affatto reclamizzata. Ma il pubblico
sta facendo giustizia dell'opera di disinformazione delle case di produzione, che relegano
sistematicamente i film di qualità in periodi morti per farli cadere immediatamente. Questa volta
l'operazione non è riuscita perché la pellicola, nella sua semplicità e linearità, appare realmente come
un prodotto alternativo molto più di tante pellicole di nomi famosi ma che sempre più rispondono alle
offerte della grande industria cinematografica americana. La storia del film è la storia di un bounty-killer (tiratori velocissimi che vivevano sfidando a duello e uccidendo, riscuotendone la taglia, noti
fuorilegge) e della storia d'amore con l'unica superstite di un gruppo di apaches barbaramente
trucidato da un drappello della cavalleria americana: come si vede una trama semplicissima, ma
portata con tali toni e affidata ad attori tanto bravi (quanto sconosciuti) da ergersi tra le migliori
pellicole del nuovo filone antiwestern, filone che da qualche anno sta rivisitando la storia della
repressione nordamericana nei confronti delle popolazioni indigene, vilmente sterminate per sete di
territorio.
Una fotografia che si rifà a quella delle pellicole degli anni cinquanta - leggermente tendente al verde
ed al blu - e che è stata affidata ad un maestro della statura di Haskell Wexler, dei paesaggi bellissimi
nella loro brullezza, un dialogo essenziale: tutto ciò contribuisce a rendere la pellicola tra le più
interessanti della stagione, anche perché la tematica che porta avanti appare sempre più fondata nella
realtà del passato degli Stati Uniti, questo paese "garante di tutte le libertà" (del mondo occidentale)
che ha sulla coscienza ben venticinque milioni di morti - tale era il numero degli indiani all'arrivo dei
primi insediamenti europei.
Un film da non perdere soprattutto considerata la scarsità di una valida produzione cinematografica
attuale e la mancanza di idee che permea quasi tutti i film in programmazione attualmente: questo è
un film che, affidando alle immagini gran parte delle emozioni che deve trasmettere, raggiunge una
delle più alte vette di anticolonialismo presentandoci anche un personaggio che appare molto vicino
alle nostre idee, con la sua sete di giustizia e il suo disprezzo per i soldati che si trova a fronteggiare.
Unica nota stonata una musichetta che fa da sottofondo all'amplesso tra il bounty-killer e la giovane
apache (sempre nuda).
Riconosciamo per primi le emozioni dateci da Ombre Rosse o Sentieri Selvaggi, ma la nostra mente
è cresciuta: non attendiamo più i "nostri" - a meno che essi non siano una banda di Apaches o Sioux -
quindi le musiche il regista poteva lasciarle per strada. Il film lo avremmo apprezzato sempre, forse
di più.
Salon Kitty di Tinto Brass.
Prima di iniziare un qualsiasi discorso su questo film occorre che esso sia presentato per quello che
realmente è, un film al quale sembra siano stati fatti ben sessanta tagli da una censura sempre più
ottusa e vuota, una censura intoccabile e disconoscitrice di ogni opera della cultura, anche se essa
potrebbe apparire discutibile. Fatta questa premessa occorre dire subito - mi ripeto - che tra le opere
di Tinto Brass, questa è di certo la più debole anche perché un regista dalle caratteristiche di Brass
male si trova a contatto con tanti soldi come si è trovato dinanzi per fare Salon Kitty. L'idea della casa
di piacere usata dalle autorità del Terzo Reich per carpire segreti e debolezze degli uomini che
facevano il regime, come idea non è affatto male ma quello che nuoce alla pellicola sembra essere
questa continua ostentazione di seni, natiche, vagine, rapporti anali, cunnilingus, fellatio e via dicendo
che riducono il film ad un compenso sessuale per nostalgici impotenti. Nulla da dire contro il sesso
se usato bene - splendida la scena dell'accoppiamento tra venti giovani SS e le aspiranti donne di
malaffare con una scenografia che ha curato minimamente l'aspetto coreografico del regime,
completando la scena con due gerarchi decisamente invertiti, una banda musicale tra le più
improbabili, un ufficiale che controlla le sue SS, un medico che ispeziona l'andamento dei vari tipi di
rapporti in corso e su tutto questo tre enormi bandiere naziste quasi a suggellare la bestialità di un
modo di operare e di intendere e vita e politica - ma quando esso prende il sopravvento ed il film
diviene la pedana di lancio di attricette che hanno solo vagine e natiche e seni da mostrare perché la
recitazione è di una carenza paurosa, allora la tematica del film cala e viene a galla un certo qual
intento pornografico e voyeristico che male si attaglia alla storia che si sta filmando. Né, in queste
condizioni, possono nulla le ottime musiche di Fiorenzo Carpi, la accuratissima fotografia di Silvano
Ippoliti, la splendida scenografia di Ken Adam e l'interpretazione di Ingrid Thulin: tutto naufraga nei
peli pubici e nei capezzoli che la fanno da padroni in una storia che avrebbe dovuto mostrare con
maggiore severità ed attenzione le nefandezze e la bassezza morale di uno dei regimi più tristi della
storia del mondo. In questa condanna vorremmo salvare l'operato di Tinto Brass che ha disconosciuto
il film per le modifiche apportatevi e vorremmo invece condannare Giulio Sbarigia, il produttore, che
per rientrare nelle spese sostenute ha messo sul mercato un qualcosa che non si può definire film
perché una pellicola che subisce tanti tagli non si può considerare un film: ancora una volta la logica
del denaro ha sconfitto l'intento artistico.
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