Rivista Anarchica Online
Il mercato delle idee
di S. Parane
I "nuovi filosofi" francesi sono ormai diventati delle "vedettes" anche in Italia. Ma le idee che
essi esprimono sono veramente originali e derivano da una profonda analisi della realtà o sono
solo esercitazioni intellettuali e formali?
La maggior parte dei dibattiti sull'Università evitano di mettere l'accento sull'essenziale, cioè fingono di
ignorare che l'insegnamento superiore è determinato dai preventivi economici compatibili al sistema. Le
grandi discussioni sui libri, le scuole di pensiero, i classici e i moderni dimenticano spesso, o fingono di
dimenticare, che la editoria è innanzitutto un'industria. Come del resto le polemiche sulla validità delle
trasmissioni radiofoniche o televisive non menzionano che incidentalmente l'importanza dei fondi di cui
dispongono i servizi, pubblici o privati che siano.
Per proteggere il cliché del ricercatore puro, dell'uomo di cultura slegato dalle contingenze materiali,
dell'informatore disinteressato, il danaro non viene evocato che raramente benché esso sia, insieme al
potere e alla vanità, la molla dei comportamenti. Ora, nell'ambiente dei professori e degli studenti, degli
editori e distributori e dei commentatori (appartengano essi alla stampa o ai mezzi audio-visivi), la
complicità è costante. Essa si manifesta a tutti i livelli, dal cronista del settimanale letterario all'équipe
di insegnanti raccolti intorno a un maestro di pensiero, desiderosa di fortificare la supposizione con una
"uscita" nell'opinione pubblica.
Così si vede sorgere, ogni anno o quasi, un tema che nutrirà le bocche culturali e soddisferà i bisogni di
tipografie, case di distribuzione stampa, programmi per il piccolo schermo, saggi di erudizione nelle
riviste, seminari internazionali e succosi copyrights per le pubblicazioni nella stampa straniera. Si tratta
di una certa vita parigina, della sua fiera permanente e dei suoi riflessi madrileni, belgi o romani. Uno
spettacolo che sembra a volte aver preso le mosse dal "cancan francese" della Belle Epoque.
Uno spettacolo in cui si affermano e abbondano l'intelligenza, il sapere, il talento, riconosciamolo, ma
anche in cui regnano l'esibizionismo, la vanità e gli orpelli, con un certo disprezzo per chi non sta al
gioco e non si inchina davanti alle "vedettes" del giorno. Uno spettacolo, un supermarket di capacità,
di bestsellers, di mass-media, che sostituisce troppo spesso, oppure la trucca, una realtà decisamente
molto più ricca. Al punto che le verità che scivolano o scoppiano sotto i fuochi della pubblicità assumono
lo stesso aspetto di "strass" delle peggiori menzogne. Situate in una comune vetrina "intellettuale", la
loro separazione diviene difficile.
Le idee, i concetti, le formule, prendono il posto dei fatti, rugosi e complicati. Il linguaggio autorizza
immagini che non riflettono o riflettono poco la complicità di situazioni. Troppo spesso si ripete il caso
di George Sorel preso per il teorico del sindacalismo rivoluzionario mentre non ne fu che un osservatore,
appassionato e appassionante, ma estraneo, e i cui testi finirono per esistere come una realtà a se stante,
a usi multipli, nel mondo delle speculazioni e delle giustificazioni. Un mondo tutto risplendente di luci,
ma astratto.
Così, dopo le epoche esistenzialiste, strutturaliste, dopo le mode Lucan, Althusser, Focault, Tel Quel,
ecco i "nuovi filosofi" presenti nelle librerie, alla televisione, alla radio, nei periodici, intervistati,
sollecitati, criticati. Sono i vincitori della "Hit-parade" stagione 1977.
Tracciato il quadro, vediamo quello che dicono, o più precisamente, quello che dice uno dei loro capifila,
Bernard-Henri Lévi, nel suo libro "La barbarie dal volto umano".
Un libro discontinuo, buttato giù in fretta e furia, in cui si enunciano clamorosamente cose evidenti che
solo i partiti e la propaganda tacciono, ma che costituiscono l'intima convinzione di centinaia di migliaia
di esseri; i compendi brillanti ma futili; le interpretazioni di alto livello in cui i concetti filosofici, politici
o letterari sono spazzati via o mantenuti a piacimento di una scienza tutta universitaria, senza riferimenti
precisi a esperienze o ad osservazioni dirette. Il tutto espresso in un linguaggio da iniziati, con strizzate
d'occhi o occhiate ad amici ed avversari, ringraziamenti, graffiate e saluti a tutti quanti.
È sempre piacevole sentire dire che il re è nudo, oggi che l'idea del progresso tecnico viene confusa con
quella di felicità, oggi che per le scuole socialiste la nuova promessa è contenuta nel passato aborrito,
che le repubbliche di sapienti sono altrettanto odiose dei regimi militari, che il "marxismo" è divenuto
una religione, che la maggior parte delle scuole rivoluzionarie non sono che le eredi volontarie degli
ordini stabiliti, che esigono ancora più ordine. Tutte constatazioni di cui si troverà l'annuncio o la
previsione in mille scritti pubblicati durante gli ultimi cento anni. Che tutto ciò sia riscoperto o ripetuto
è "bel et bon". Si desidererebbe soltanto che fosse detto più semplicemente. Ad esempio, per parlare
della tendenza all'universalità della "lingua" marxista, come riflesso del generale cammino verso il
totalitarismo, perché usare uno stile roboante? ("... noi non usciremo da questa lingua come si dice di
un recinto; che noi non guariremo da questo virus come si dice di una malattia; come i cosmologi
tolemaici noi siamo prigionieri in un campo chiuso, senza luogo e senza tempo, di cui il tridente della
critica potrebbe lacerare le pareti per puntare, al di là, verso i campi della felicità...").
Alcune formule mirano all'effetto più che alla conoscenza. Così, a proposito della tendenza alla
razionalità e alla perfetta organizzazione dei sistemi di stato, e del loro gusto per le società trasparenti,
facilmente controllabili, Lévy illustra: "... cosa fa Lenin quando arriva al potere? Elettrifica la Russia...".
Divertente gioco di parole per sottolineare l'importanza dei teorici di Lumiéres, ma...? A proposito del
maggio 1968 in Francia: "... bisogna finirla con il luogo comune secondo cui con il Maggio '68 si apre
un'era di disgelo intellettuale e di sovversione delle ortodossie". Si potrebbe dire il contrario o ripetere
l'affermazione e non sarebbe sciocco.
Vi è nel libro uno sforzo di fare tabula rasa, e questo è sempre sano e rinvigorente. Questo sforzo porta
a dire che la storia non esiste e che essa non ha alcun senso; che la concezione della società senza classi
è più sovente (e gli dice sempre) una visione e una volontà totalitaria; che ciò che è proprio
dell'evoluzione verso il totalitarismo - sia essa la via staliniana, fascista o tecnocratica - è l'eliminazione
di qualsiasi elemento marginale periferico. Fino a qui ancora niente di veramente nuovo, se non nelle
pretese dell'autore ("Io ho tentato, è vero, di porre le fondamenta di quello che ho chiamato il
"pessimismo in storia". "Foutre!").
La cosa più criticabile è l'importanza determinante accordata da questo "giovane filosofo" alle idee che
sembrano avere un'esistenza propria mentre gli avvenimenti non fanno che sottomettersi ad esse. Le sue
osservazioni sul proletariato divinizzato dagli intellettuali della sinistra e dell'estrema sinistra sono
pertinenti, ma una volta rigettata questa concezione messianica, non si tratta più di realtà della o delle
classi operaie. Quel poco che ci dice dopo proviene da una conoscenza libresca, per di più limitata ai
fenomeni delle società dell'Europa Occidentale. Lévy non deve conoscere i proletari in carne ed ossa che
per interposta persona. Parlando dei processi di Mosca le vecchie spiegazioni alla Koestler, ripetute da
London e da tanti altri, sono riprese: "... tra il Potere rosso e le sue vittime vi è almeno questo legame
comune, questa lingua di ferro e di granito che è l'adesione... allo stesso corpo di principi". Ed i milioni
di rinchiusi nei campi di concentramento, membri del PCUS o no, che non si sono prestati alla commedia
perché essi non vi erano stati invitati e non avevano dunque alcuna possibilità di salvare la loro pelle?
Peso, importanza delle idee o, innanzitutto, peso e importanza accordata ai portatori di idee, come
l'autore. Non è ridicolo sottolineare che l'avventura maoista era per lui "una delle più grandi pagine della
recente storia di Francia"?
Per filosofo, colto, erudito che sia, l'autore appare, come i suoi sostenitori, sensibile innanzitutto ai fatti
evidenti. Egli non scopre i grandi problemi che pone l'esperienza sovietica se non a partire da Solenicyn,
e non ammette futilità delle discussioni interne al campo marxista se non a partire da Althusser. Viene
allora spontaneo domandarsi se tutta questa intelligenza, reale, queste letture innominabili, queste
osservazioni frequentemente giudiziose, non facciano parte di un gioco che la società francese,
abbastanza ricca per essere liberale, accetta e assorbe. Se il caso di tanti oppositori non riproponga
l'immagine di quell'Emmanuel Berl che nel 1930 parlava di Bakunin "confondendo la fumata della sua
pipa con quella delle fabbriche", che si presentò candidato del Partito di Unità Proletaria, che scriveva
dei libri intitolati "Morte del pensiero borghese", "Morte della morale borghese", e che finì per scrivere
i discorsi del Maresciallo Pétain nel 1941.
Siamo forse troppo esigenti, troppo diffidenti? Non bisognerebbe salutare le prime verità portate avanti
dai giovani filosofi come un omaggio - a volte reso espressamente - alle verità libertarie? Può essere,
anche se l'ultima frase del libro di Bernard-Henri Lévy termina così, riesumando l'antagonismo tra la
tradizione di rivolta e ciò che rappresenta oggi il socialismo: "... Bisogna urgentemente decidersi a
cambiare parola".
Allora si ha la tendenza a credere ciò che dice Jacques Ranciére, collaboratore occasionale del Nouvel
Observateur a proposito dell'autore: "Passando dall'intellettuale-sapiente-rivoluzionario all'intellettuale-dissidente per professione, io non credo che si sia cambiato di sistema." Ed aggiunge che è necessario
uscire dal cerchio dei professionisti del sapere (ciò che lui stesso fa animando l'eccellente rivista di
ricerca di storia sociale Les Révoltes Logiques): "... essi avranno creato, incrociando la parola
universitaria e la parola politica, l'apparato di stato e il mercato, delle forme di potere destinate a
prosperare"... "Di fronte all'avvenire che si delinea è urgente che gli intellettuali che non si rassegnano
a prestare le loro voci ai discorsi dello stato o della merce, organizzino altre forze, altri luoghi di
espressione e di circolazione delle idee; che essi si diano, lontano dai banchi del potere intellettuale
e del pensiero mercantile, il tempo di studiare ciò di cui parlano con lo scopo di intendere le parole
venute da altrove; che essi si ricordino che il libero pensiero non è attributo della loro professione ma
il prodotto di tutti i fermenti che rompono l'ordine repressivo".
|