Rivista Anarchica Online
Ridurre il prezzo del potere
a cura della Redazione
Intervista a Luciano Pellicani
Da più parti viene definito il "nuovo filosofo" del P.S.I., l'ispiratore del documento politico di
Craxi: si tratta di Luciano Pellicani, un giovane sociologo che molti compagni ricorderanno per
averlo ascoltato al Convegno di Studi Bakuniniani e a quello sui "Nuovi Padroni". Un onesto
riformista, buon conoscitore del pensiero anarchico e libertario. Egli sovente usa, per avallare
le sue analisi, le intuizioni e le elaborazioni dei maggiori pensatori anarchici. Nonostante questo
è evidente che il suo socialismo è molto diverso dal nostro. Troppi aspetti fondamentali ci
dividono e dall'intervista che segue risultano con evidenza. Nelle pagine successive compare
un'intervista a Massimo Salvadori, altro teorico dell'area socialista che ha mostrato di non
gradire la svolta verificatasi nel P.S.I..
Il documento di Craxi ha sollevato grande scalpore perché esce dalle consuetudini della sinistra
marxista sviluppando un attacco al leninismo che è anche un attacco al marxismo. Mi sembra
però che in questo tentativo di rivalutare un filone di pensiero socialista non marxista e nel
ricercare altri "padri del socialismo", si mettano in rilievo gli aspetti del pensiero di Proudhon
più dichiaratamente riformisti che, è vero, esistono, ma che non ne costituiscono il "tronco
principale" poiché esso è sostanzialmente federativo, autogestionario e per la soppressione dello
stato.
Per quanto riguarda il primo punto è evidente che l'intervento di Craxi ha rovesciato
completamente quello che è lo stile tradizionale del dibattito nella sinistra che, diciamolo pure, era
uno stile basato sull'ipocrisia, in altri termini pur sapendo tutti che le divergenze di principio tra
comunisti e socialisti sono profondissime, si faceva finta che queste divergenze non ci fossero.
Posso ricordare ad esempio quello che diceva Duverger a proposito del rapporto comunisti-socialisti in Francia e cioè che i socialisti hanno finto che i comunisti francesi fossero dei liberali.
Quindi in un certo senso Craxi si è comportato come Errico Malatesta negli anni venti quando,
pur dicendosi per l'unione delle sinistre contro il fascismo, insisteva nel sottolineare le differenze
di principio esistenti tra anarchici e comunisti. Diciamo appunto che Craxi, proprio perché esiste
questa unità delle sinistre che non è stata messa in discussione da nessuno e che non è pensabile
che possa essere messa in discussione (unità legata alla emergenza) ha voluto sottolineare le
questioni di principio.
Bisogna dire subito che questo intervento ha avuto vari scopi: uno era quello di depurare il partito
socialista di quell'odore di leninismo che circola ancora dentro il partito stesso; come Berlinguer
ha cercato di rassicurare la sua base che il partito comunista era un partito ancora leninista, Craxi
ha fatto l'operazione inversa, ha cioè ribadito che il partito socialista non è un partito leninista e
che il leninismo non ha alcun diritto di cittadinanza nel partito socialista stesso. Perché questo
problema? Perché in effetti il partito socialista è stato culturalmente colonizzato a partire dal
dopoguerra sino ad un paio di anni fa, è cioè rimasto succube dell'egemonia culturale del partito
comunista. Ora invece siamo in una fase in cui è il partito socialista che prende l'iniziativa, incalza
i comunisti e pone le domande. Soprattutto, come primo obiettivo, il partito socialista si pone
nell'ottica di eliminare qualsiasi traccia di leninismo dal partito e, in tempi più lunghi, dalla cultura
italiana.
Per quanto riguarda il problema di Proudhon bisogna fare una precisazione: è chiaro che il partito
socialista non può che fare una lettura in chiave riformista di Proudhon né d'altro canto ci siamo
mai sognati di dire che Proudhon fosse riformista. D'altronde il suo pensiero è talmente composito
(per alcune cose ha detto una cosa e il suo contrario) da permettere diversi piani di lettura o
meglio una lettura selettiva. Con questo non è che il partito socialista abbia sostituito il profeta
Marx con il profeta Proudhon. Questa sarebbe una grossa sciocchezza perché significherebbe
sostituire una ortodossia con un'altra e saremmo punto e daccapo, poiché non esistono ortodossie
buone e cattive. È il principio stesso di ortodossia che è cattivo perché significa la rinuncia al
pensiero. È chiaro che in questo tentativo di rivisitare tutta la teoria socialista noi apriamo le
finestre a tutti i contributi che fanno parte della grande tradizione socialista (e quindi anche a
quelli libertari o anarchici) e non chiudiamo le finestre ai contributi liberali. Questo è ovvio, nel
senso che il partito socialista deve essere un partito poroso che deve fare i conti con la società
presente, con il futuro e quindi deve prendere tutti gli elementi che sono in armonia con il suo
progetto di base che è un progetto di democratizzazione delle strutture della società italiana.
Bisogna però precisare che non è vero che Proudhon è stato letto e presentato come un
riformista: è che molti hanno fatto dire a Craxi cose che non aveva detto. In quell'intervento Craxi
aveva messo le mani avanti dicendo che non è vero che il gulag è una degenerazione ma che è la
conseguenza logica del principio collettivistico e che già l'aveva detto Proudhon più di cento anni
fa con largo anticipo rispetto all'esperimento. In Bakunin poi questo concetto è ancora più chiaro,
più esplicito e ribadito in polemica diretta con Marx.
Il termine autogestione, che viene largamente usato nel documento di Craxi, è un termine
sempre più ambiguo perché con esso si indicano sistemi di produzione estremamente diversi. La
proposta dei socialisti mi pare in definitiva una versione allargata della partecipazione operaia
o cogestione, mentre viene trascurato, e non a caso, il problema del potere determinato dalle
conoscenze e dal posto occupato nel processo produttivo e il problema della divisione del lavoro
in manuale e intellettuale.
Bisogna precisare che il partito socialista italiano autogestionario non è mai stato, anche se a
latere alcuni pensatori hanno ragionato in termini autogestionari: ad esempio Bruno Rizzi, che
pure non ha mai avuto rapporti organici con il partito socialista ma che in qualche maniera non
poteva non avere nel partito socialista uno dei suoi interlocutori. Un altro è Carlo Rosselli che non
è mai stato iscritto al partito socialista e che ha fondato un partito suo, ma che si è mosso nella
grande area del riformismo. Si è parlato di autogestione all'interno del partito socialista, Morandi
ne parlò subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, e ne hanno parlato i "carristi" anche se
in modo strumentale come ha riconosciuto lo stesso Libertini un anno e mezzo fa a un convegno
dei sindacati a Torino.
Quindi la domanda che tu ti poni è una domanda pertinente, ma la verità è che il partito socialista
non ha ancora una idea dell'autogestione, anche se alcuni suoi intellettuali incominciano a
ragionare in termini di autogestione, come Covatta oppure Guiducci in cui ritroviamo anche la
tematica del lavoro manuale ed intellettuale. Questo quindi conferma che c'è un rimescolamento
delle carte. Il partito sta cercando di modificare le sue categorie tradizionali che in definitiva erano
marxiste. Nella tua prima domanda mi chiedevi se la critica craxiana al leninismo coinvolge anche
il marxismo. Esplicitamente no, posso dire che Craxi in qualche maniera si considera marxista,
però il marxismo di Craxi è quello di Mondolfo, cioè un marxismo depurato di tutti gli elementi
giacobini ma è anche chiaro che un certo tipo di critica al leninismo coinvolge inevitabilmente il
marxismo. Quando si passa dal modello collettivistico al modello autogestionario è chiaro che si
abbandona la sponda marxista e si va verso un altro orizzonte. Non esiste quindi ancora una teoria
del partito socialista sull'autogestione anche se ci siamo assunti l'impegno di lavorare per definirla.
Nella critica all'intellighentsia leninista il documento di Craxi pone, giustamente, in rilievo il
ruolo negativo che esercitano i "rivoluzionari di professione" che instaurano il loro potere
personale in nome del popolo. La critica però si ferma soltanto alla intellighentsia leninista e
non viene portata fino in fondo anche ai "politici di professione" che in definitiva si
differenziano dai primi solo per le modalità di accesso al potere, gli uni attraverso un evento
rivoluzionario, gli altri attraverso il suffragio elettorale. Ma i meccanismi di esercizio del potere
non cambiano e soprattutto non cambia il ruolo di classe che svolgono, perché anche i politici di
professione sviluppano interessi particolari di classe che sono diversi e antagonistici da quelli di
chi li ha eletti.
La domanda è più che pertinente. Non a caso noi sentiamo anche questo problema per quanto non
crediamo che si possa dare una risposta anarchica. Infatti dal punto di vista della diagnosi gli
anarchici hanno perfettamente ragione, ma dal punto di vista della terapia non sono convincenti e
credo che questo sia uno dei punti deboli del pensiero anarchico.
Il problema quindi esiste e noi lo sentiamo, tanto è vero che intendiamo organizzare per il
prossimo anno un convegno sulla democrazia nei partiti. C'è da dire che negli ultimi anni si era
quasi spenta questa problematica perché la gente si era rassegnata a che i partiti fossero quello che
sono e che quindi non ci fosse quella democrazia che si auspica e si auspicava. Per quello che
riguarda la distinzione tra governanti e governati non c'è dubbio che la professionalizzazione nella
politica produce una serie di conseguenze negative tra cui la formazione di interessi specifici della
classe politica. E da questo punto di vista le analisi degli anarchici coincidono con quelle degli
élitisti e in particolare con Michels. D'altra parte, però, una soluzione vera al problema non esiste
e neppure gli anarchici la danno. Come è possibile eliminare questa distinzione? Se noi teniamo
presente come modello quello della società tribale, della piccola comunità dove la divisione del
lavoro quasi non esiste è evidente che non c'è professionalizzazione della politica, non c'è
burocrazia, non c'è stato, non ci sono classi, ecc. e i conflitti possono essere composti all'interno
della grande famiglia. Una volta che la società umana si differenzia perché c'è un boom
demografico nasce la divisione del lavoro, la società perde la sua omogeneità intellettuale e
morale. Questo è il dramma della società complessa, ma non abbiamo soluzioni finali, possiamo
solo cercare dei correttivi, cercare cioè forme organizzative, dei sistemi per minimizzare il
"prezzo" dell'esercizio del potere che pagano i dominati. Noi ci troviamo di fronte a una malattia
che può essere assimilata al cancro per cui non abbiamo ancora trovato una cura radicale ma solo
dei paliativi.
Per concludere potrei dire che l'unica soluzione che si è dimostrata efficace è quella liberale e
questo bisogna dirlo perché storicamente le cose stanno in questi termini. Non che essa abbia
risolto il problema alla radice, ma è riuscita ad individuare un correttivo che si è dimostrato
efficace nella realtà delle cose, non in riferimento a un modello ideale astratto. Il correttivo è stato
questo: la frantumazione del triplice monopolio: della violenza, delle risorse economiche, delle
idee che hanno sempre caratterizzato tutti gli stati. La soluzione liberale è riuscita a frantumare il
monopolio delle risorse e delle idee cioè a far circolare le merci in regime di concorrenza e a far
circolare le idee ma non è riuscita a frantumare, perché non poteva, il monopolio della violenza.
La soluzione anarchica sarebbe di eliminare anche questo monopolio per eliminare lo stato, ma è
proprio questo che è ineliminabile perché è questo che permette che le regole del gioco vengano
rispettate. Se infatti esistesse un consenso universale sulle regole tale che le regole non venissero
mai violate, è chiaro che potremmo fare a meno del monopolio della violenza cioè dello stato e
potremmo fare a meno dei carabinieri, dei poliziotti, dei magistrati, e così via.
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