Rivista Anarchica Online
Ma il mio Marx non muore
a cura della Redazione
Intervista a Massimo Salvadori
Pur appartenendo all'area socialista, nel dibattito in corso su Proudhon tu hai assunto una
posizione diversa da quella di Craxi-Pellicani, proponendo, invece che una rivalutazione in
chiave riformista, una critica sostanziale del pensiero proudhoniano. In particolare su
Panorama (n.649 del 26 settembre) parli della necessità di rifiutare le contrapposizioni acritiche
di profeti, per evitare la sostituzione di un ipse-dixit (quello di Marx-Lenin, nel caso) con un
altro (Proudhon, o Rosselli). Non può sembrare sospetto, o comunque tardivo, nell'ambito della
sinistra istituzionale, questo bisogno di "indipendenza critica", dopo decenni di asservimento a
Marx, dopo che tutta la cultura italiana si è (e continua ad essere) impregnata di marxismo?
Non è forse un modo per far rientrare Marx dalla finestra, fingendo di cacciarlo dalla porta?
Far rientrare Marx dalla finestra, fingendo di cacciarlo dalla porta.... Credo che con un'espressione
di questo genere si rischi di eludere il problema principale che è rappresentato, a mio avviso, dalla
continua verifica critica che la sinistra oggi deve stabilire nei confronti del patrimonio ideologico
del movimento operaio italiano e internazionale. So bene che il riferimento al termine "critico"
può sembrare una scappatoia, un modo di rendere vago il discorso. Per maggiore chiarezza, dirò
che le tradizioni ideologiche possono essere immediatamente "attive" nei confronti di una
situazione pratica presente, se nel presente si possono adottare le soluzioni che tali tradizioni
hanno proposto. Ora, io sono convinto che la situazione attuale sia caratterizzata dal fatto che
nessuna delle grandi tradizioni ideologiche (marxiste ed altre correnti del movimento operaio)
possa offrire oggi soluzioni di questo tipo. Perché? Perché la società ha subito dei cambiamenti
tali da non consentire l'utilizzazione immediata di queste tradizioni. Non si può ignorare che la
funzione del pensiero è sempre legata alla situazione specifica che il pensiero, in qualche modo, ha
subito. Sarebbe perfino strano se le analisi che sono state condotte agli inizi del processo di
modernizzazione dell'Europa, si potessero conservare tali quali oggi.
Naturalmente il discorso può essere approfondito, per chiarire perché esiste (se esiste) un ritardo
nell'elaborazione ideologica. Per quanto riguarda il mio modo di vedere, io non penso affatto che
il problema sia di far rientrare Marx dalla finestra. Però parto da un presupposto (e sono
consapevole che ciò può anche essere rifiutato): in Marx esistono delle analisi più valide di quelle
di altri, e qui posso fare immediatamente il nome di Proudhon. A mio avviso, Marx si è misurato,
certamente più di Proudhon, con i problemi specifici posti dalla modernizzazione economica dello
stato.
Nell'articolo su La Repubblica ("Ma insomma chi era Proudhon?", 21 settembre 1978) presenti
Proudhon, e il suo antistatalismo, come espressione "radicale" di "correnti socialiste e borghesi
liberal-liberiste". Non ti sembra una forzatura, questo relegare in secondo piano una figura
(Proudhon) e una tematica (l'antistatalismo) che hanno svolto un ruolo assai importante nella
storia del movimento operaio? Non dimentichiamo che la Prima Internazionale venne fondata
da Giurassiani di tendenza proudhoniana, mentre Marx, in una lettera ad Engels, dice di aver
assistito alla sua fondazione "da tacito spettatore".
Questa questione dell'antistatalismo, secondo me, va affrontata proprio alla luce di quelle
considerazioni che facevo prima. La questione non sta nello svalutare l'importanza storica che
l'antistatalismo ha avuto nel pensiero socialista, nel pensiero del movimento operaio (a tale
proposito ci sarebbe da citare non solo Proudhon... c'è "Stato e rivoluzione", per esempio...).
Il fatto è che noi diamo un giudizio diverso a seconda che pensiamo che la prospettiva
antistatalista possa essere una prospettiva ancora oggi valida o meno. Io ho cercato di sottolineare
come il "recupero" del pensiero di Proudhon da parte di partiti del movimento operaio (che, nella
realtà dei fatti, devono muoversi in una prospettiva radicalmente diversa da quella proudhoniana)
se deve essere fatto, va fatto chiarendo le contraddizioni che ne derivano. Questo è un aspetto.
L'altro è vedere se la prospettiva antistatalista sia realistica, o piuttosto se non sia utopica. La
questione sta qui, non nello svalutare l'importanza che l'antistatalismo ha avuto nel passato del
movimento operaio. Questa indubbia importanza come va valutata, in termini di adesione o di
critica? Naturalmente, a questo punto, si apre il contrasto tra chi, in sostanza, ritiene utopica una
prospettiva antistatalista e chi è di parere contrario.
Sempre nel già citato articolo su La Repubblica, ridicolizzi le concezioni federaliste di Proudhon
e la sua sensibilità per il problema delle dimensioni delle entità produttive. Devi ammettere
però, che la tematica delle diseconomie di scala, del ridimensionamento aziendale, della piccola
dimensione come più "umana" e in definitiva più funzionale, è oggi al centro dell'attenzione del
pensiero socio-economico moderno. Ad essa non è insensibile neppure la grande industria, della
quale, secondo te, Proudhon non seppe comprendere le necessità. Eppure, già nel 1858,
nell'opera "Giustizia nella rivoluzione e nella Chiesa", Proudhon affronta il problema del
decentramento produttivo con specifico riferimento alla società industriale, anticipando molti
dei discorsi che oggi vanno per la maggiore. Non hai forse sottovalutato la modernità delle
istituzioni proudhoniane, al di là dei loro limiti ottocenteschi?
Il problema del decentramento, non solo "istituzionale" ma anche industriale, produttivo, è
certamente uno dei problemi centrali fra quelli che abbiamo davanti. Ma credo che non si debba
dimenticare che vi sono due modi profondamente diversi di porre questo problema. Anzitutto
vorrei correggere l'espressione "ridicolizzarre" che mi si attribuisce nella domanda. Non mi
sembra di averlo fatto. Però, bisogna vedere come si intende arrivare al decentramento, cioè se si
intende "immetterlo" all'interno di un tipo di organizzazione sociale sostanzialmente libertario,
oppure in un quadro di riferimento che, al centro, ha ancora le funzioni dello stato, cioè il
problema della pianificazione, anche centrale, dell'economia. Il problema, quindi, non è il
decentramento, non è il federalismo, piuttosto quale tipo di decentramento, quale tipo di
federalismo.
In questo senso il decentramento e il federalismo non sono caratteristici esclusivamente del
pensiero libertario, ma possono essere considerati anche nel quadro di una articolazione statale.
Per cui, non credo che la questione stia nel considerare da un lato lo statalismo burocratico e
dall'altro la validità della proposta di tipo proudhoniano. Si tratta invece di considerare
l'alternativa fra statalismo burocratico e decentramento, il quale (a sua volta) può essere concepito
in modo diverso. Io ritengo che nel pensiero di Proudhon manchino due riferimenti essenziali, e
cioè il problema dello stato moderno che a mio avviso non può essere eluso, e quello della
pianificazione economica. Quest'ultima, che in ultima analisi deve avvalersi, per poter funzionare,
di organi statali centralizzati, è oggi una delle basi costitutive, quale che sia il suo "indice di
gradimento", dell'organizzazione sociale.
Certo, il dibattito non termina qui, perché c'è chi continua a ritenere, in termini negativi, che lo
stato sia di per sé espressione del potere politico e non possa superare la caratteristica del
dominio sulla società.... È ovvio che, a questo punto, la scelta è una scelta in termini di valori
generali e quindi di lotta per la traduzione in termini pratici di questi valori. Non esiste nessuna
prova matematica che la società non possa fare a meno dello stato o della pianificazione
economica. Esiste però la prova storica che finora lo stato è rimasto il pilastro non superato
dell'organizzazione politica e sociale. Si apre allora la discussione, come dicevo, sulle prospettive
che sono oggetto di lotta pratica. Le scienze sociali non hanno, insomma, la prova del nove.
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