Rivista Anarchica Online
Teoria del valore/lavoro e crisi del marxismo
a cura della Redazione
Se il documento di Craxi ha avuto tanta risonanza, una delle motivazioni del suo successo è da
ricercare anche nella crisi del marxismo. Dopo molte crisi oggi il marxismo è veramente alle
corde, molti dei suoi fondamenti sono miseramente caduti, perché contraddetti dalla realtà.
Certo il marxismo, come tutte le religioni non fa appello alla razionalità anche se si presenta
come il socialismo scientifico e nulla ha impedito che pur essendo da sempre in crisi, sia sempre
risorto, ora alleandosi con qualche filosofia (positivismo, strutturalismo, ecc.) ora cercando di
far rientrare nel suo dominio le varie scienze particolari. Ma la sua pretesa attualità in che cosa
consiste? Non tende esso a porsi sempre in una sfera dell'aldilà apparentemente vera perché mai
verificabile? Sulla crisi del marxismo e dei suoi fondamenti di analisi economica abbiamo intervistato
Roberto Marchionatti, un giovane economista, allievo di Claudio Napoleoni, che ha partecipato
al convegno sui "Nuovi Padroni" dello scorso anno. Egli è, tra l'altro, autore del volume "Il
dibattito economico di oggi" (Loescher Editore) in cui si affrontano alcuni aspetti del marxismo
contemporaneo.
Da qualche tempo sulle pagine di molte riviste si riparla insistentemente della teoria di Marx e
della sua crisi.
La discussione su Marx ha attraversato dai primi anni Sessanta fino ad oggi fasi alterne,
caratterizzandosi ora per il suo concentrarsi sugli aspetti economici, ora su quelli filosofici, ora su
quelli politici. Se per molto tempo l'aspetto economico è stato dominante nel dibattito,
ultimamente è diventato prevalente quello filosofico. I temi centrali in discussione sono stati la
teoria del valore e dei prezzi, la compatibilità o incompatibilità tra Marx e Sraffa, il ruolo della
dialettica come metodo d'indagine, l'esistenza o meno di un'ontologia di Marx.
Parlaci degli aspetti economici.
Dobbiamo partire da Sraffa. Nel 1960 si pubblicò, contemporaneamente in inglese e in italiano, un
libro dal titolo Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa appunto, un economista
italiano che nei primi anni Venti si trasferì a Cambridge, in Inghilterra. Questo libro, benché edito
nel 1960, non rappresenta che la continuazione di una impostazione che proprio negli anni Venti
aveva visto la luce. Allora Sraffa divenne famoso per un articolo pubblicato sull'Economic
Journal del 1926, in cui si dimostrava che la teoria del valore (1) di Alfred Marshall (2), il più
illustre rappresentante della scuola marginalista in Inghilterra, teoria fondata sull'agire delle leggi
della domanda e dell'offerta, non poteva "essere interpretata in modo da darle una coerenza logica
interna, ed in pari tempo da metterla d'accordo con i fatti che si propone di spiegare" ed andava
perciò abbandonata. Tale critica fu più tardi definita da Keynes "distruttiva".
In effetti l'operazione di Sraffa implicava una svolta nella scienza economica, poiché da un lato
rompeva l'involucro nel quale la teoria marshalliana tentava di ridurre la realtà economica (e
Sraffa otteneva questo dimostrando l'inconsistenza logica del tentativo marginalista), dall'altro lato
recuperava aspetti dell'economia classica (di Smith e di Ricardo) abbandonati dai marginalisti,
mostrando come gli strumenti di questi economisti del passato avessero più capacità interpretative
di quelli moderni.
L'ampia portata della critica di Sraffa venne poco o nulla compresa negli ambienti economici
dell'epoca, prima perché essa fu vista come l'ispiratrice delle teorie delle forme di mercato, poi
perché i grandi problemi che la crisi mondiale (3) di qualche anno dopo poneva, spostarono
l'attenzione sulla macroeconomia (4) (le relazioni tra reddito nazionale, investimenti globali,
consumi e occupazione) e sulla politica economica, sulle analisi di Keynes, (5) senza occuparsi e
forse accorgersi dell'omogeneità dell'attacco che Keynes e Sraffa portavano alla teoria
marginalista. La "rivoluzione" di Sraffa sarà maggiormente compresa solo negli anni Sessanta,
quando si pubblica Produzione di merci a mezzo di merci, la cui base è quell'"abbozzo di
proposizioni" che Sraffa già aveva scritto nel 1928, traducendo positivamente la sua critica a
Marshall. Il libro analizza la relazione esistente, in un sistema economico semplificato, tra prezzi,
salario e profitto. Il sistema viene descritto come un processo circolare in cui, secondo una
tecnologia data, si combinano certe merci (mezzi di produzione e lavoratori) con cui si ottengono
altre merci che a loro volta serviranno a riiniziare il processo economico. Se la produzione è
superiore alla quantità di merci-mezzi di produzione, si dice che si è prodotto un sovrappiù che va
distribuito. Si dimostra che, se il salario è alle sussistenze (uguale a zero nel modello), prezzi e
profitto vanno determinati simultaneamente, se il salario è superiore il sistema diventa determinato
solo se si dà esogenamente (cioè fuori dal sistema esaminato) il salario o il profitto. Ora questo
rappresenta un mutamento sostanziale nella teoria della distribuzione: i marginalisti infatti
ritenevano che profitto e salario fossero la retribuzione di un particolare contributo alla
produzione. Sraffa mostra che non vi è nessuna legge distributiva all'interno del sistema, che altre
sono le forze che determinano le forme di reddito. Ora, accennato il rapporto critico tra Sraffa ed
il marginalismo, trascurando i problemi di rapporto tra Sraffa e la teoria classica (ricordiamo en
passant che Sraffa curò l'edizione completa delle opere di Ricardo e ne scrisse un'introduzione nel
1951, che rappresenta una premessa ed una chiave di lettura del libro, e viceversa, cioè il libro è a
sua volta una chiave di lettura dell'introduzione del 1951), possiamo passare ad esaminare come si
pone il rapporto tra Sraffa e Marx. Per far ciò, bisogna fare innanzitutto riferimento al problema
della trasformazione dei valori in prezzi. Esso consiste in questo: nel primo libro del Capitale
Marx formula il principio secondo cui il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro
necessario alla sua produzione. Nel terzo libro egli cerca di spiegare come, attraverso la
formazione del saggio medio del profitto in presenza di diverse composizioni di capitale, i valori si
trasformino in prezzi di produzione cioè prezzi che pur coerenti con la teoria del valore-lavoro
singolarmente, normalmente ne divergono. Marx formalizzò parzialmente il processo, e accennò
ai problemi che si ponevano. La questione venne subito posta al centro dell'interesse dei critici di
Marx. Ma fu Bortkievicz, un economista, matematico e statistico polacco, che nei primi del
Novecento lo affrontò in modo sistematico. Nella soluzione che egli diede la teoria del valore-lavoro veniva a perdere ogni ruolo nella determinazione dei prezzi, la quale avviene
simultaneamente a quella del saggio di profitto; Bortkievicz limita l'utilità della teoria valore-lavoro alla spiegazione dell'origine del profitto.
La poca chiarezza di certe affermazioni di Bortkievicz ed alcune ipotesi limitative presenti nella
soluzione da lui data, alimentarono un'inutile discussione, il cosiddetto problema della
trasformazione, alla soluzione del quale si cimentarono molti economisti. Alcuni di essi videro
nella teoria dei prezzi di Sraffa la soluzione generale tanto cercata.
A ben vedere quella di Sraffa più che una soluzione è una negazione del problema marxiano, in
quanto in essa le quantità di lavoro, necessario per Marx per giungere alla determinazione dei
prezzi, non hanno alcun ruolo.
Quindi, più in generale, cosa si può dire del rapporto Sraffa-Marx?
L'approccio di Sraffa è profondamente diverso da quello di Marx. Marx aveva cercato, attraverso
la critica dell'economia politica classica, di individuare i rapporti sociali che il modo di produzione
capitalistico implica ed il loro modo feticistico, alienato, di presentarsi. La teoria del valore-lavoro
doveva permettere questa dimostrazione. A partire da essa Marx costruisce un modello di
connessioni causali che tende ad inglobare in sè la realtà: la realtà diventa il modello. In questo
ambito anche la spiegazione dei prezzi diventa necessaria per la validità del modello.
Sraffa al contrario costruisce come soluzione rigorosa del problema dei prezzi uno schema logico
che definisce le relazioni non casuali ma simultanee che esistono tra alcune categorie economiche.
In lui la realtà è ben altra cosa del modello.
Come i marxisti hanno risposto alle critiche di Sraffa?
Alcuni hanno visto in lui un risolutore di un problema quantitativo presente in Marx, e di loro ho
già detto. Altri hanno privilegiato l'analisi delle categorie ed il metodo di Marx (lavoro alienato,
lavoro astratto, dialettica) evidenziando ed esaltando l'alterità di Marx rispetto all'economia
classica. In questo modo si qualificava il campo dell'analisi di Marx nella critica dell'economia
politica e della società borghese capitalistica. Ma anche in questo ambito nascevano dei problemi.
In particolare è emerso quello riguardante il metodo dialettico (6), che si scopriva avere anche in
Marx affinità con la dialettica materialistica di engelsiana e poi sovietica memoria. In sostanza,
questa linea di difesa non ha dato risultati soddisfacenti.
Dicevi inizialmente che la discussione si è recentemente spostata sul piano filosofico. Cosa
intendi dire precisamente?
Intendo riferirmi a quella posizione, espressa recentemente (ad esempio) da Claudio Napoleoni,
secondo la quale, ammessa l'insufficienza della teoria del valore-lavoro come teoria dello scambio,
si sostiene che essa mantiene ancora un ruolo, cioè quello di svelare l'essenza della società
borghese: la teoria del valore sarebbe la teoria di una società stravolta, cioè quella società che è la
più lontana dalla realizzazione della natura umana, in cui gli uomini sono espropriati dal loro
lavoro, dalla loro umanità, da se stessi.
Col suo riferimento ad una teoria dell'essenza dell'uomo in Marx, questa posizione si ricollega a
quella di alcuni filosofi dei primi anni Venti che, nel comune riferimento al giovane Marx, nella
polemica antisocialdemocratica ed antiscientista, era patrimonio di gran parte dell'estrema sinistra
tedesca di allora. In particolare vorrei riferirmi ai primi scritti di Marcuse, a mio parere i più
interessanti in questo campo. Della posizione di Marcuse nei confronti del Marx dei Manoscritti
economico-filosofici del 1844 sono interessanti alcune proposizioni così riassumibili:
- la rilevazione del punto di partenza della "scienza della rivoluzione" nel concetto di lavoro;
- l'affermazione che il concetto di lavoro non è un concetto economico ma filosofico sulla cui base
si definisce un'idea dell'essenza dell'uomo. Il lavoro è l'espressione peculiare dell'essenza umana. A
questo proposito Marcuse afferma il carattere ontologico del concetto di lavoro;
- l'individuazione del compito della rivoluzione nella realizzazione dell'essenza umana.
Interpretazione influenzata dalla lettura di Heidegger, essa ripropone la necessità dell'ontologia.
Ma ci si deve chiedere se è davvero necessaria un'ontologia per l'interpretazione dei fatti reali.
Tu quale risposta dai a questo interrogativo?
Io penso che non sia necessaria. L'ontologia nasce dalla volontà di provare l'unità sostanziale
dell'uomo che è considerato come una sostanza semplice che esiste in se stessa e che si deve
conoscere in se stessa. Ma non è sufficiente concepire la sua unità come un'unità funzionale, senza
presupporre l'unità, ammettendone la molteplicità delle parti? Una filosofia critica (di origine e
prospettiva kantiana cioè) vede il problema in questi termini. Dice - a mio parere giustamente -
Cassirer che le varie forme della cultura non sono tenute insieme grazie ad una identità della loro
natura bensì dal loro convergere in un unico compito fondamentale, che è la progressiva
autoliberazione dell'uomo.
Cerchiamo di fare il punto sul marxismo e la sua ripresa in questi anni.
Mi limito ad alcune considerazioni non sistematiche. Sul piano economico, mi sembra chiaro che
dopo Sraffa la teoria marxiana non può più essere considerata una adeguata teoria dello scambio.
Per quanto riguarda l'ontologia ho già detto: non credo ve ne sia bisogno, anzi penso che se ne
debba fare a meno.
Vorrei invece accennare a qualche altra considerazione sul piano semplicemente antropologico.
Da questo punto di vista mi sembra che la prospettiva marxiana sia fortemente limitativa. L'uomo
non è soltanto il suo lavoro, come la storia della società non si fa soltanto attraverso la
produzione dei beni materiali. Il lavoro è insufficiente a definire l'uomo, anche se ne è un'attività
fondamentale. Se si estende il suo significato come sovente i marxisti fanno, esso diventa
genetico: ci si riferisce solo al lavoro manuale o anche a quello intellettuale? Anche l'arte è lavoro?
E il gioco? (7)
Insomma, la concezione dell'uomo e della storia, delle sue determinanti, è insufficiente. Il
marxismo afferma il primato dell'economico in tutta la storia. Esso vuole essere una teoria
generale della storia. Come tale dovrebbe applicarsi ad ogni società. In realtà non si applica a tutte
le epoche della storia: alle società primitive ad esempio, no. In tali società non è presente una
tendenza autonoma allo sviluppo economico e l'economico non sta affatto al centro della società.
Le analisi di Pierre Clastres sono illuminanti a proposito. Clastres dimostra che nelle società
primitive l'economia non è individuabile come campo autonomo. Esso lo diventa solo quando la
società e divisa in dominanti e dominati. "La principale divisione nella società, quella che fonda
tutte le altre, compresa la divisione del lavoro, è la disposizione verticale tra base e potere.... La
relazione politica di potere precede e fonda la relazione economica di sfruttamento. Prima di
essere economica, l'alienazione è politica, il potere è prima del lavoro, l'economico è un derivato
del politico. L'emergere dello Stato determina l'apparire delle classi". Il marxismo generalizza
all'intera storia ciò che tutt'al più è la caratteristica apparente del capitalismo, e, tra l'altro, dà con
questo un'analisi perlomeno insufficiente del concetto di potere e dello Stato.
Per concludere: Marx non deve essere ridotto a sistema filosofico. Egli va considerato come un
pensatore non sistematico, per quelle illuminanti analisi dell'economia capitalistica che ci ha dato
nelle opere della maturità. Non va considerato come filosofo dell'uomo e della storia. Di questo
possiamo e dobbiamo farne a meno. Il critico dei limiti analitici dell'economia politica classica:
questo è il Marx più valido. Con la consapevolezza però che oggi non si tratta più di criticare
l'economia politica di qualche altra scuola, ma di criticare l'economia, la motivazione economica
stessa.
Note
1) La teoria del valore rappresenta il principio da cui la scienza economica si svolge. Nella storia del pensiero economico il valore è stato definito in vari modi, che possono però
essere ridotti, in modo estremamente sintetico, a due: 1. Il valore è una categoria dell'economia di scambio, e di quella capitalistica in particolare. 2. Il valore è una categoria dell'attività economica in generale. La prima posizione è quella dell'economia classica (i cui esponenti principali sono Adam Smith
e David Ricardo) e di Karl Marx. La seconda è quella del pensiero che fu dominante, nelle sue
numerose varianti, dal 1870 circa al 1930 circa, e cioè il marginalismo (i cui esponenti
principali sono Léon Warlas, Alfred Marshall, Eugen Böhm-Bawerk, Stanley Jevons, Knut
Wicksell e Vilfredo Pareto). Queste scuole hanno perciò dato risposte diverse alla questione: da cosa dipende il valore di un
bene? I classici e Marx hanno risposto sostanzialmente che il valore dipende dal lavoro, i
marginalisti che esso dipende dall'utilità. Il problema del valore nella economia postmarginalista è al centro del dibattito sul pensiero di
Piero Sraffa.
2)
Alfred Marshall, inglese, è uno dei fondatori della teoria marginalista. I suoi Principi di
Economia pubblicati nel 1890 (e la cui ultima edizione è del 1920) costituirono per molti anni il
testo fondamentale di economia in lingue inglese. Il suo contributo principale è la "teoria degli
equilibri parziali": l'interesse di Marshall fu infatti lo studio delle singole unità di produzione
(l'impresa) in un dato mercato, e della singola impresa.
3) Si suole indicare con il 1929 - nel novembre del cui anno crollarono i titoli nella borsa di New
York - l'inizio della Grande Crisi, che coinvolse tra la fine degli anni Venti ed i primi anni
Trenta l'economia capitalistica mondiale.
4) La Macroeconomia è quella parte dell'analisi economica che si occupa di variabili aggregate,
globali, quali il reddito nazionale, il consumo, gli investimenti.
5) John M. Keynes è un economista inglese, forse il più noto del Novecento. Nella sua Teoria
generale dell'occupazione dell'interesse della moneta, pubblicata nel 1936, egli cercò di
dimostrare, contro i marginalisti, che non necessariamente il sistema economico arriva
spontaneamente alla piena occupazione, ma anzi esso si stabilizza normalmente, in una
economia matura, su un livello di non piena occupazione, cioè con una presenza più o meno
grande di disoccupazione. Soltanto l'intervento statale attivo di politica economica può
modificare tale situazione. Con Keynes dunque, si dimostra la necessità della politica
economica, per mantenere in efficienza, in vita potremmo dire, l'economia capitalistica. Molta analisi economica del '900 si dice keynesiana proprio per questa svolta che Keynes
impresse alla teoria ed alla pratica economica.
6)
Il riferimento è soprattutto alle critiche di Lucio Colletti (ma non soltanto sue; già Norberto
Bobbio le anticipò vari anni prima) nell'Intervista politico-filosofica, Laterza 1976.
7) Emblematico di queste difficoltà e ancora il saggio di Marcuse Sui fondamenti filosofici del
concetto di lavoro nella scienza economica, del 1933 (in H. Marcuse, Cultura e società,
Einaudi 1965).
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