Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 8 nr. 69
ottobre 1978


Rivista Anarchica Online

I padroni della salute
di Stefania Orio/Enzo Ferraro

Pubblichiamo qui di seguito ampi stralci della relazione presentata dai compagni Stefania Orio ed Enzo Ferraro al Convegno internazionale di studi sui "nuovi padroni" (Venezia, 25-27 marzo 1978). Gli atti del Convegno usciranno fra breve per i tipi delle Edizioni Antistato.

La svolta significativa nella gestione dell'assistenza sanitaria avviene nel 1972. In quell'anno, infatti, l'assistenza venne decentrata alle Regioni, con la conseguenza che numerose amministrazioni di sinistra diventassero non più un momento di opposizione e di critica al sistema sanitario vigente, ma ne assumessero la diretta responsabilità, si trovassero a gestirne le contraddizioni. Queste sono numerose e di vario ordine: ne elenchiamo alcune:

1 - c'è nella popolazione una richiesta di ampliare e ammodernare le strutture sanitarie: ospedali, Centri e consultori. Questa richiesta si scontra con la mancanza di fondi. L'Ente Locale da un lato deve fare i conti con questa richiesta, dall'altro deve mantenere con il capitale (imprese di costruzione e manutenzione, ditte fornitrici di arredamento e apparecchiature sanitarie, ditte farmaceutiche, ecc.) rapporti che le permettono di mantenere il loro consenso, quindi di rinsaldare il potere;

2 - incomincia a diffondersi la coscienza che la qualità dell'assistenza medica può essere migliore, più efficiente ed organica. Questo avviene proprio quando i costi per un miglioramento qualitativo non sono più contenibili. Contemporaneamente infatti c'è anche una richiesta di aumento quantitativo dell'assistenza: la gente si abituata a risolvere con cure mediche ogni problema e a scaricare sul ricovero (in ospedale o nel cronicario) situazioni difficili o impossibili da risolvere nell'ambito della famiglia (ad esempio assistenza ai vecchi, ai minorati, ecc.). Infine, aumentano in questo stesso periodo le pressioni dei dipendenti perché si applichino gli accordi contrattuali, siano migliorati i salari e le condizioni di lavoro, sia facilitata la qualificazione: dipendenti che rivendicano, sì, una miglior qualità del servizio, ma a patto che questa non sia ottenuta con un aggravio di lavoro o con il blocco dei salari.;

3 - l'abitudine sempre più frequente di ricorrere al "dottore" indica nella professione medica un settore dove è ancora possibile occuparsi mentre altrove inizia la disoccupazione.

Come si vede, c'è una situazione complessa, ricca di possibili sviluppi come di interrogativi.

Le amministrazioni ospedaliere rispondono assumendo come avventizio numeroso personale non qualificato, con retribuzioni collocate nella fascia più bassa del contratto nazionale, personale che non può migliorare la situazione se non con lotte parziali e rivendicazioni interne, e quindi capace solo in parte di realizzare quell'unità fra proletari utenti del servizio sanitario e personale dipendente, che è la sola premessa possibile per intaccare a fondo la solidità del sistema sanitario attuale.

Per questa unità, ci sono molte premesse, ma gioca a suo sfavore l'impreparazione tecnica dei nuovi assunti, che diminuisce la loro capacità di proporre alternative ed intacca la lotta nei tempi lunghi, nonché la precarietà stessa del rapporto di lavoro (avventizio) ed una certa ambiguità delle organizzazioni sindacali, ambiguità che maschera ad alcuni lavoratori il loro ruolo frenante.

Vediamo infatti che cosa è successo: all'inizio dell'ultimo decennio ('68-'78) i sindacati sembrano condividere pienamente alcune lotte clamorose ("apertura" e distruzione dell'Ospedale Psichiatrico di Gorizia, assemblea aperta di Collegno, Convegno della Federazione Lavoratori Metalmeccanici sul rapporto salute-ambiente di lavoro). In queste lotte, le Organizzazioni Sindacali additano come nemici di classe le Amministrazioni degli Enti Locali o di Cliniche Private con partecipazione maggioritaria della Democrazia Cristiana, tentano di monopolizzare le richieste dei lavoratori e di incanalarle unicamente in pressioni perché si attui la riforma sanitaria e perché le varie istituzioni private siano gestite o almeno controllate da un ente pubblico. Dal 1970-72 in poi, però, la politica sindacale cambia rapidamente: il tentativo è di frenare, rallentare, neutralizzare ogni dissenso verso le nuove amministrazioni, soprattutto verso amministrazioni di sinistra.

Mentre si smaschera così il ruolo burocratico-repressivo di queste organizzazioni, che tentano di ampliare e rinforzare il loro potere attraverso una serie di compromessi con i padroni, pubblici e privati, i lavoratori (utenti e dipendenti) che hanno creduto o acconsentito alle proposte sindacali si trovano con un pugno di mosche, dopo essersi lasciata sfuggire l'occasione di una lotta veramente incisiva, e dopo aver pagato prezzi altissimi solo per ottenere, nelle varie amministrazioni, un cambio della guardia.

Ora abbiamo quasi tutti padroni pubblici, e di sinistra. Indichiamo solo alcune delle molteplici tecniche con cui questi nuovi boss della salute cercano di incastrarci.

Quella più diffusa può essere riassunta nello slogan: "Ma questo è un servizio pubblico!", slogan ripetuto ai dipendenti in lotta dalle Amministrazioni, dalle Organizzazioni Sindacali, dalla stampa, ogni volta che esplode la protesta.

"Che cosa vuoi fare? Non puoi impadronirtene: è già tuo! Vuoi sabotarlo? Ma saboti così la collettività, i lavoratori. Vuoi scioperare? Attenzione! Lo sciopero è un'arma a doppio taglio, perché danneggia l'utente, cioè un tuo compagno, un lavoratore come te. Vuoi metterti contro i lavoratori?".

Le forme di lotta devono essere inventate tenendo conto di questo ostacolo. Alcune volte è stato fatto.

Al Policlinico di Roma e di Napoli per un po' si sono "portati dentro" a lavorare un certo numero di disoccupati, che avrebbero dovuto essere assunti per garantire il rapporto degenti-personale previsto dalla legge; in molti Ospedali i lavoratori hanno usato l'applicazione del mansionario: ogni lavoratore cioè ha svolto solo le mansioni pertinenti al ruolo per cui era assunto. Spiegando ai degenti il rischio che avrebbero corso ricevendo cure da incompetenti, gli ausiliari si sono limitati a fare le pulizie e gli infermieri generici a somministrare i farmaci e alla pulizia degli ammalati, e così via. In altri ospedali i dipendenti dei singoli reparti hanno smontato e allontanato dal reparto i letti in soprannumero, evitando così ricoveri troppo superiori alle possibilità del reparto e aumentando i minuti a disposizione per l'assistenza ai singoli malati.

Queste forme di lotta hanno consentito ai dipendenti di difendersi dalle accuse delle Organizzazioni Sindacali e delle Amministrazioni, di tutelare e talora migliorare le condizioni di lavoro senza rendersi odiosi all'utenza. Esse non sono però riuscite ad affrontare il grosso problema della gestione della salute: non hanno sconfitto la burocratizzazione della malattia.

Qualunque tentativo di migliorare la qualità del servizio è fallito, ad esclusione dell'"apertura" di alcuni ospedali psichiatrici e di alcuni cronicari.

Una delle cause che ci è sembrato di poter indicare è l'enorme potere del medico e del laureato specialista (psicologo, biologo) nelle strutture pubbliche, siano esse ospedaliere, territoriali o ambulatoriali, potere che non esiste nella clinica privata, dove l'unica competenza riconosciuta al laureato specializzato (quando non sia proprietario o comproprietario della clinica) è esclusivamente tecnica. Questo potere è inversamente proporzionale al controllo esercitato dagli utenti, notevole nella clinica privata, pressoché nullo nella struttura pubblica, dove il singolo utente è soppiantato dai partiti.

In una struttura pubblica è il laureato specialista che decide tutto al posto dell'utente. Ecco le funzioni che egli esplica e che il sistema sanitario gli delega:

1) decidere se l'utente è "davvero" ammalato;

2) diagnosticare la natura e l'entità della malattia (sociale, professionale, accidentale; grave, media, lieve) e, di conseguenza...

3) stabilire il luogo di cura (in ospedale, a domicilio, sul territorio, all'estero...);

4) stabilire le modifiche ambientali necessarie;

5) fissare la natura e la durata della terapia (climatica, farmacologica, alimentare, con o senza astensione dal lavoro);

6) controllare la correttezza delle diagnosi e della terapia;

7) formulare una prognosi;

8) definire la conclusione, la cronicizzazione o il peggioramento della malattia, decidere cioè se l'utente è, o non è, "tornato allo stato di salute";

9) stabilire se l'utente è divenuto, temporaneamente o stabilmente, "invalido", oppure "incapace di intendere e di volere", oppure "pericoloso a sè e agli altri", cioè, in termini più semplici, etichettare lo status dell'utente rispetto al lavoro, alla pensione, alla vita sociale, alla libertà.

Solo pochissime di queste funzioni si giustificano con le conoscenze tecniche del laureato.

Non si capisce ad esempio come possa un medico, che non ha mai messo piede nell'abitazione di un utente e non conosce le persone con cui vive, stabilire che "il paziente può essere curato a domicilio", né come possa decidere una terapia alimentare per pazienti che non possono seguirla (si pensi alle diete necessarie per i fenilpiruvici o per i mucoviscidosi) né fissare l'idoneità a un lavoro che gli è del tutto sconosciuto, né lo stato di "invalidità" di una persona di cui ignora le capacità di compensazione.

Questo per non parlare di quelle decisioni così strettamente ed esclusivamente sociali, quali la capacità di intendere e la pericolosità, da non abbisognare di alcun commento.

Le decisioni relative all'utente non sono dunque prese in base alle sue caratteristiche, ai suoi bisogni, alle sue valutazioni soggettive, all'ambiente, ma in base a criteri indipendenti dalle sue esigenze. La capacità richiesta al medico non è dunque quella di fornire al malato elementi tecnici atti a mantenere o a ritrovare lo stato di salute, ma quella di assolvere con efficienza e rapidità alle funzioni cui è addetto, utilizzando nei suoi giudizi criteri che variano secondo la composizione del potere in quella specifica struttura pubblica, e inoltre secondo il principio del massimo profitto con la minima spesa. Alcune nostre esperienze ci hanno confortato nell'abbozzare questa analisi, anche se non siamo "tecnici della politica" e non disponiamo di strumenti sufficienti. Ci sembra opportuno riferirle perché altri, più esperti, ci indichino "letture" diverse da quelle da noi effettuate:

1° esempio: più volte abbiamo visto il medico decidere lo stato di malattia non in base all'oggettività clinica e al livello di sofferenza individuale, ma in base a due criteri estranei al concetto di malattia: il margine di tollerabilità consentito dal sociale e il profitto ricavabile. In alcuni quartieri di Milano, poveri e con condizioni abitative ed atmosferiche particolari, moltissimi soffrono di disturbi respiratori e/o di forme reumatiche, dolorose e fastidiose. Più volte medici di cliniche private hanno diagnosticato lo stato di malattia e prescritto il ricovero, mentre i medici scolastici si limitavano a constatare la presenza del disturbo "ma del resto è così comune.... E poi che cosa si potrebbe fare?"

In questo caso, la collocazione del medico e le possibilità di risposta ad una proposta di terapia ci sembra condizionino pesantemente la diagnosi.

2° esempio: in un suo sopralluogo, lo SMAC indica nell'inquinamento dell'ambiente di lavoro la probabile causa di cancri alla vescica. Il cancro non è riconosciuto ad alcuni lavoratori che fanno accertamenti in una clinica privata, mentre viene individuato successivamente in una clinica universitaria. La clinica privata ha potenti legami con varie industrie chimiche.

3° esempio: il periodo di degenza in ospedale degli anziani con disturbi cardiocircolatori o respiratori viene deciso in base alla disponibilità di letti, alla presenza o assenza in reparto di persone giovani con forme acute e gravi. È ovvio che in questo caso non si decide se il paziente "ha bisogno di" o "desidera" cinque oppure dieci giorni di degenza, si stabilisce invece che l'ospedale può offrigliene tre oppure venticinque. Non viene quasi mai chiesto al malato dove e per quanto tempo intende farsi curare, e comunque la soddisfazione della sua richiesta è sempre subordinata la disponibilità di strutture, mezzi, personale, posti-letto.

Quest'ultimo esempio tocca un nodo importante del problema della salute e mostra bene come al suo interno si siano stratificate due categorie di "nuovi padroni": i "tecnici della politica" da un lato (partiti e sindacati, annidiati negli Enti Locali, nei Consigli di Amministrazione degli Ospedali); i "politici della tecnica" dall'altro ("baroni" della medicina e della chimica, medici e tecnici laureati più o meno arrivisti).

I primi decidono come organizzare la rete sanitaria, apparentemente in nome della popolazione o addirittura, quando sono di sinistra, in nome della classe operaia, ma in realtà nell'interesse dei propri partiti, della propria autoconservazione; i secondi, mascherandosi come conoscitori dei "bisogni dell'utenza" e perfino "delle masse popolari", gestiscono il servizio sanitario in modo che si dilati sempre più il potere medico (economico e decisionale) e si riduca sempre più il controllo da parte del paziente. Per questa manovra sono usati concetti che possono essere fraintesi, quali "utenza", "classe operaia e suoi rappresentanti", "diagnosi oggettiva".

Utenza è un termine interclassista: sono utenti del servizio sanitario sia Gianni Agnelli che un giovane disoccupato. È però assurdo ritenere che il potere di controllo di questi due utenti sia uguale.

Gianni Agnelli ha un potere di controllo reale, concreto, diretto. Reale perché può servirsi di numerosi consulenti, seguire rigorosamente le prescrizioni, verificare, soggettivamente e oggettivamente, il suo miglioramento, concreto, perché può attuare il suo controllo in modo da trarre vantaggio per sé e danno per chi lo ha curato male: abbandonare una clinica per un'altra, sospendere i fondi erogati in beneficenza, aumentare il costo delle forniture di autolettighe: diretto perché può fare tutto questo o in prima persona, o attraverso persone a lui subalterne, quindi obbedienti ai suoi ordini.

Il potere di controllo del giovane disoccupato diviene reale solo a certe condizioni (ad esempio che egli sia riuscito a saldarsi con altri utenti proletari, che possa disporre di consulenze "alternative", che abbia solidi legami con ausiliari e infermieri, ecc.), diviene concreto solo se, presenti queste condizioni, trova modi di esprimersi veloci e incisivi.

Inoltre, l'intervento e il controllo sono diretti solo se le azioni decise dagli alleati sono tempestive e perfettamente in accordo con le sue esigenze; oppure se il giovane inizia azioni personali (sciopero della fame, rappresaglia contro i responsabili della scorretta gestione) con grossi rischi sia individuali che di insuccesso politico. Se invece il nostro giovane sceglie i canali istituzionali per dar corpo al suo disagio, e si rivolge ai sindacati e/o ai partiti, aggiunge alla quasi sicurezza di tempi troppo lunghi per il suo problema di salute, anche il rischio che i contenuti da lui proposti non si accordino con quelli della dirigenza sindacale e politica e quindi non vengano avanti nemmeno nei tempi lunghi. Se si accetta il concetto di controllo sugli operatori e sulle strutture sanitarie, occorre allora abolire sia il concetto interclassista, quindi confusionario, di utenza, sia quello, quantomeno ambiguo, di rappresentanza istituzionalizzata.

Legato all'ambiguità del concetto di rappresentanza vi è il modo con cui si parla di classe operaia, intendendo sia i lavoratori in prima persona che le rappresentanze sindacali. Si dice così che la classe operaia, o che i lavoratori ospedalieri, hanno deciso la chiusura di un ambulatorio o firmato un contratto, anche quando queste decisioni sono state prese dal C.U.Z. o dalla F.L.O. contro il parere delle assemblee di base; si dice perfino che "i rappresentanti della classe lavoratrice" hanno deciso di mantenere in precariato gli avventizi, quando questa decisione è stata presa da un Consiglio di Amministrazione a maggioranza PCI-DC.

In altri casi vengono indicati come indirizzi forniti dalla classe operaia sul problema della salute i risultati di convegni sindacali in cui i rappresentanti dei lavoratori ratificano con scarsi apporti di base, quasi senza verifiche, senz'altro senza modifiche sostanziali, scelte politiche operate dalla loro dirigenza e spesso suggerite da baroni universitari della medicina, camuffatisi per l'occasione da esperti di sinistra.

Mentre il concetto di rappresentanza soffoca la voce degli sfruttati, quello di classe operaia fa apparire come loro scelte le scelte di chi li sfrutta. Sarebbe molto più efficace esigere che, a questo concetto fumoso, si sostituisse quello di assemblea dei lavoratori manuali, escludendo da questa categoria medici e primari. Questi ultimi infatti difendono perlopiù interessi di casta e non possono mischiarsi ai lavoratori, che ingannano con il mito dell'"oggettività della diagnosi", garantita dalla "neutralità" della scienza medica. Facciamo presente che, appena si esce dal rilievo di dati e si tenta una sintesi, non si può più essere oggettivi (né, quindi, neutrali). Ad esempio, su Petra Krause, era "oggettivo" il dato "peso kg 38". Diventava molto soggettivo, e quindi di parte, lo stabilire se questi 38 kg potevano considerarsi "normali", "al di sotto della norma", "pericolosamente al di sotto della norma".

Essere malati, ricordiamolo, ha sempre due dimensioni: l'una, è la sofferenza individuale, l'altra, la valutazione che la società attribuisce e la risposta che dà a tale sofferenza. È in questa seconda dimensione che i lavoratori della salute dovrebbero incidere, è di quest'area che i nuovi padroni si sono quasi totalmente appropriati.