Rivista Anarchica Online
Poesia e movimento
di Gabriele R.
Chissà perché si torna sempre a parlare di poesia come forma di comunicazione, nei momenti di
maggior tensione rivoluzionaria (da Maijakowskij al '68) o nei momenti opposti di riflusso, di
pseudo-ricerca interiore. Fatto sta che la poesia è sempre stata vista come una forma ideale di
linguaggio da chi ha sempre cercato di comunicare, con se stesso o con gli altri, la rivolta o le
proprie emozioni. Ma la poesia è una forma di linguaggio naturale o un privilegio di un'élite?
La poesia è la sola forma di comunicazione esistente o possibile? A questi e ad altri quesiti
abbiamo cercato di rispondere nei servizi che seguono, tra cui c'è un'intervista a Fernanda
Pivano, la cosiddetta "mamma dei beat" che da anni si è occupata di far conoscere in Italia la
realtà poetica, politica, sociale ed esistenziale della "beat-generation", con libri suoi o facendo
pubblicare i libri dei vari Ginsberg , Corso, Kérouack, ecc.. Un testimone importante, quindi, di
un'esperienza che ancora oggi influenza migliaia di giovani e di compagni.
"Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate, nude isteriche,
trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa...". Quando Allen Ginsberg
lesse questi versi, ormai mitici, davanti agli studenti di non so più quale università, probabilmente
un brivido, una "vibrazione" li percorse, entrò e uscì dalla loro carne, ne fece tremare i nervi,
come la fiammella di una candela. Poiché quelle parole erano loro stessi e loro stessi potevano
leggersi in esse. Allora si compì un capolavoro di comunicazione. Il suono, il ritmo, le immagini di
quelle parole erano l'immagine esatta della realtà. Ripulita da tutte le impurità. Quelle frasi che
trasudavano jazz, violenza, speranza, rabbia, esistenza olocausto bruciate come incenso, erano
realtà.
A distanza di 22 anni le stesse parole, gli stessi suoni, le stesse immagini sono solo l'involucro
secco che una cicala ha lasciato sul tronco dell'albero. La cicala se ne è andata ha cambiato pelle,
forma, sostanza. Eppure quasi tutti noi ci ostiniamo a riprenderle in mano, a muoverle come pezzi
di un rompicapo, sperando che il carillon suoni ancora. Ma il carillon "Urlo" ha esaurito la sua
carica quella sera, forse fredda, in quella università americana. Dunque la poesia esiste solo nel
momento della sua creazione? Forse no, ma la comunicazione certamente sì. Che senso ha
elaborare la forma delle mie parole adattarla al dogma di un ritmo (che può essere il non ritmo)
trasporre queste mie parole in scritto e far leggere il tutto dicendo: "È una poesia".
I poeti sono mostri con due teste. Una timida incapace di comunicare direttamente, ma desiderosa
di comunicare con tutti contemporaneamente, e l'altra narcisista, che vive in funzione dell'orgoglio
delle proprie creazioni, gelosa di esse, e così scioccamente vanitosa nel suo intimo da sembrare
ritrosa nel mostrarle agli altri. Il fatto è che i poeti in quanto tali non hanno senso di esistere. Non
ha senso "scrivere" poesie, anziché "parlarle" agli altri. Parlare agli altri attraverso la forma più
diretta di comunicazione utilizzando tutti i mezzi di espressione che lo strumento corpo mette a
disposizione. Bumm! Fatta la teoria manca la pratica. In realtà, chi riesce a comunicare realmente
se stesso agli altri quando non riesce a "comunicarsi" nemmeno a se stesso?
Attraverso mille filtri di paure, castrazioni, inibizioni, preconcetti, tabù, dogmi e regole, giungono
a noi i suoni distorti delle nostre emozioni, la voce del nostro essere. Solo il fatto che dobbiamo
usare un linguaggio complicatissimo per riuscire a comunicare cose semplicissime agli altri,
emozioni, bisogni, speranze, idee, ecc., ci dice come siamo legati alla paura di ciò che possono
leggere gli altri in noi. Allora costruiamo un linguaggio, un comportamento, un'etica, delle regole
di "convivenza", come ricci costretti a vivere in uno spazio angusto, con il desiderio bruciante di
comunicare negli occhi.
Può darsi che quella sera Allen Ginsberg sia passato come un ago nelle teste di chi lo ascoltava
riducendole con uno strattone violento in un unico nucleo di conoscenza. Ma quella sera egli non
era il poeta Allen Ginsberg, ma Allen Ginsberg e basta. Ora il suo "Urlo" resta solo a ricordo di
quel momento, ha valore nel tempo solo individualmente, al massimo potrà infilare una o due
perline, ma non otterrà probabilmente più una collana. Ed è giusto che sia così. Chi scoprirà la
parola magica che racchiude e sintetizza tutte le altre toglierà agli altri il piacere e il diritto di
tentare di dirla. Chi scrive per me le sue emozioni consapevole che sono le mie mi toglie il diritto
e il piacere di cercarmele da solo. Non è vero. Cioè sarebbe vero se io mi fossi liberato di tutto ciò
che mi impedisce di esprimermi. Ma non è neanche vero e giusto che esista qualcuno che crede di
saperlo fare.
I poeti non potranno mai scagliare la prima pietra, perché essi hanno mentito e mentono ogni
volta che "scrivono" una poesia, o meglio trascrivono una poesia, intervenendo sulla forma per
giustificare il contenuto. Eppure nessun poeta ammetterebbe mai che la "sua" forma è diversa dal
contenuto, che ne maschera il significato reale, che cerca di vendere egoismo, narcisismo e idee
come dogmi. Ed è vero. Un poeta non scrive le sue poesie in funzione degli altri, ma propone poi
agli altri il contenuto mascherandole dietro la forma, come un ciarlatano che vende merda come
elisir di lunga vita. O forse, in realtà un poeta è solo un disperato che cerca di comunicare in
qualche modo con gli altri, che si sbraccia, che piange, che ride, che si agita perché gli altri dicano
finalmente: "abbiamo capito, eccoti la risposta, la soluzione, l'amore o la solidarietà che chiedi".
Essi almeno tentano. Ginsberg scrive sinceramente della propria omosessualità, Corso scrive
realmente della propria paura della bomba. Nessuno dei due ha preso la paura o l'omosessualità di
altri per la propria gloria di poeta.
Ma Ginsberg quella sera non si sedette ad ascoltare la risposta degli studenti e forse non l'avrebbe
neppure avuta perché quella sera parlò per tutti e ci riuscì. In effetti il problema sta proprio in
questo nodo che si chiude su se stesso. La poesia non è altro che la comunicazione scevra da ogni
impurità quando essa nasce da una realtà comune o individuale che sia, è il ruolo del poeta che
distorce questa realtà. Il ruolo di colui a cui gli altri affidano la propria voce, a volte senza che lui
lo voglia. Ma nessun poeta è così umile o onesto da rifiutare questo ruolo. Ecco allora le poesie e
le canzoni parole d'ordine che racchiudono in sé realtà diventate dogmi.
Quale movimento, politico, sociale, culturale, esistenziale che si definisce rivoluzionario può
fermarsi a realtà sclerotizzate? E, badate bene, ogni realtà si sclerotizza nel momento in cui è
seguita dalla realtà successiva. Essa diventa storia, è passato, anche se noi eravamo i testimoni e
gli autori di essa. Ma i noi di allora non siamo in noi di adesso. A che serve allora cantare e
scrivere la storia e non la realtà, cioè il momento nell'istante in cui lo viviamo, nel momento in cui
riusciamo a comunicare a noi stessi e agli altri le nostre emozioni, le nostre idee di quell'istante: la
REALTÀ. Ecco che allora la poesia non sarà più la storia di un momento emozionale, creativo,
sociale, passato, ma comunicazione logica della realtà. Questo vuol dire che è sbagliato scrivere
poesie, leggerle agli altri, sperare di pubblicarle, mandarle alle riviste, ecc.? Sarebbe come dire che
è sbagliato fare un quadro, comporre musica, ecc.. Non è il mezzo espressivo che è sbagliato ma il
ruolo, che la mia falsa coscienza mi impone, che lo rende sterile, scindendolo dalla sua natura di
linguaggio, di mezzo di comunicazione.
Se realmente fossimo liberi e liberati da noi stessi credete forse che lo scrivere una poesia e il
leggerla agli altri e il sentire le loro reazioni, emotive, verbali, espressive, ecc. non sarebbe un
unico momento di una precisa realtà di conoscenza e comunicazione? Ma se veramente fossimo
liberi e liberati da noi stessi non ci sarebbe bisogno di scrivere una poesia, poiché la nostra vita
stessa, i nostri gesti, le nostre parole, le nostre azioni sarebbero un'unica poesia, cioè
comunicazione, cioè conoscenza, cioè anarchia.
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