Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 9 nr. 72
febbraio 1979 - marzo 1979


Rivista Anarchica Online

Lo scontento diffuso
di L. L.

"Due anni fa c'è stata la rivolta dei colonnelli, oggi siamo a quella dei sergenti", mi dice con un certo sconforto un compagno della S.I.P. raffrontando l'assemblea tenutasi al Lirico nell'aprile 1977 con quella in corso oggi 10 febbraio.

Siamo alle prime battute del convegno dell'opposizione operaia e già si sono delineate le direttive su cui si muoverà per un giorno e mezzo la sfilata dei "rivoluzionari in fabbrica". Non mi aspettavo molto, ma la stanca rivisitazione dei luoghi comuni, dei resoconti cronachistici, degli appelli all'unità, dei buoni propositi e anche delle fantasie dei collettivi inesistenti, mi lascia più che deluso.

A smuovere l'apatia è un messaggio di alcuni "poliziotti democratici". Ingenuamente spero in una sollevazione della platea, una piccola rissa, niente. Qualche fischio isolato, prontamente zittito, non riesce a interrompere la lettura del documento dei questurini che vogliono "ricercare cosa significa la funzione di tutori dell'ordine". Applauso finale e prende la parola un aderente al Collettivo di lotta del Centro Direzionale di Milano per sottolineare l'interesse che bisogna avere verso la posizione di quei poliziotti democratici.

Ma al di là del particolare piccante, cosa ha espresso questa "conta" delle "realtà di fabbrica" di quasi tutta Italia? Poco. Molto poco, soprattutto se teniamo conto del fatto che i presenti (poco più di mille) erano tutti militanti di gruppi e organizzazioni di estrema sinistra: da D.P. fino agli autonomi e a pochi anarchici e libertari, di operai tout-court praticamente nessuno.

Da quasi tutti gli interventi traspare, con una certa evidenza, l'imbarazzo nell'utilizzare formule scontate (organismi di massa, avanguardie di fabbrica, ecc.)che oltre a non esprimere realtà effettive (oggi come ieri) hanno perso quel carattere galvanizzante anche per gli amanti della "rivoluzione verbale". Il tono, nella sostanza, è dimesso (anche se non mancano i visionari dell'ultima ora) ma non esce dalla logica di sempre. Solo per un adeguamento ai tempi non si parla più della "giusta linea vincente", ma è chiara la volontà di ritornarvi non appena possibile. E al momento la possibilità è lontana: "Il dissenso c'è, ma non si concretizza in azioni coscienti", "il quarto sindacato... forse... ma non ci sono le forze", "chi ci sta di fronte sono gli operai più combattivi e sono iscritti al P.C.I.", "se ti muovi dicono che sei un fiancheggiatore delle B.R.", "il terrorismo ci incula perché ci mette sulla difensiva".

L'assemblea si chiude con un appello redatto dalla presidenza in cui si rileva che l'opposizione operaia agisce sia all'interno sia all'esterno dei sindacati per costruire gli organismi di massa di opposizione. Il terrorismo viene condannato perché estraneo alla logica dell'opposizione operaia, così come viene condannata la strumentalizzazione del terrorismo per criminalizzare il movimento di opposizione, mentre viene ribadita la rottura con la pratica della sinistra sindacale, definita fallimentare. L'assemblea ha mostrato - sempre secondo la presidenza - l'impossibilità di soluzioni strategiche, anche se esistono le premesse per arrivarci visti gli elementi comuni in molte realtà. In pratica - viene detto - a Milano si è aperto un dibattito che deve continuare nei luoghi di lavoro. Tutto qui!

L'impressione che se ne ricava è che questo tardivo embrassons-nous sia l'unione di una coppia sterile e per di più incapace di amarsi. D'altro canto la realtà è quella che è: risulta sempre più difficile illudersi o creare "rappresentazioni della realtà" nelle quali cullare i sogni della "rivoluzione domani".

I vertici sindacali stanno dando un altro giro di vite, il controllo si fa più serrato. Emblematico è il caso della F.L.M. milanese che si vedrà quanto prima sottoposta a una gestione commissariale con l'invio di Luigi Viviani, segretario nazionale della FIM-CISL, che sovrintenderà all'opera di Piergiorgio Tiboni, reo di aver lasciato troppo spazio a dirigenti sindacali provenienti dalla nuova sinistra. Ma fatto ancor più significativo, e nel contempo preoccupante, ad appoggiare l'azione dei vertici è stata una larga maggioranza degli scritti di base che non era d'accordo con la linea "rivoluzionaria" dei suoi dirigenti locali. Un fatto che deve far riflettere e che denota quanto siano stretti gli spazi di azione all'interno delle fabbriche.

Certo ci sono altri esempi di segno contrario, ma nel complesso la crisi, pur generando uno scontento diffuso, ha giocato sfavorevolmente nei confronti di un processo aggregativo del dissenso e quando questo si è manifestato in modo attivo è stato il classico "fuoco di paglia". Questo sembrerebbe confermare che la crisi l'hanno voluta i padroni, come recita un ormai consunto slogan tanto caro ai rivoluzionari. Ma purtroppo non è neanche vero e dovremmo smetterla di dire cose false, credendo di operare una semplificazione della realtà. È certo, invece, che la crisi, se i padroni non l'hanno voluta, sicuramente l'hanno ingigantita e l'hanno gestita, insieme ai sindacati, molto bene soprattutto nella riqualificazione del controllo della forza-lavoro.

Ad accrescere l'immagine sconfortante sta il fatto che la crisi economica si è prodotta in concomitanza della crisi di contenuti del movimento rivoluzionario, tanto che le due crisi, sovrapponendosi, hanno generato un ibrido connubio sfociato poi nei fenomeni di riflusso di cui travoltismo e fonzismo sono solo gli aspetti più appariscenti. Il lato più drammatico di tutta la faccenda è che l'esperienza accumulata in questo periodo non si è tradotta in conoscenza. Vale a dire che i fatti non ci hanno insegnato quali sono i meccanismi sociali su cui operare: in molti compagni l'atteggiamento prevalente è "dopo che sarà passato il riflusso, ricominceremo", dove per ricominciare si deve intendere la riapplicazione pedissequa di quanto avevamo fatto prima. Tanto che nel dibattito sulla ricostituzione dell'U.S.I. (il sindacato libertario) molti si accalorano intorno al problema della "centralità operaia" con tutte le implicazioni teorico-pratiche che ne derivano. È mai possibile nella realtà attuale utilizzare un'impostazione strategica che molto probabilmente era fuorviante anche cinquant'anni fa?

Oggi stiamo uscendo (forse) da una crisi che ha modificato, e profondamente, la composizione del dissenso e dell'opposizione: nuove figure si trovano ai livelli inferiori della società ed esprimono una dinamica ed un atteggiamento psicologico difficilmente inquadrabili nei nostri schemini "formuletta per la rivoluzione".