Rivista Anarchica Online
Lo scontento diffuso
di L. L.
"Due anni fa c'è stata la rivolta dei colonnelli, oggi siamo a quella dei sergenti", mi dice con un
certo sconforto un compagno della S.I.P. raffrontando l'assemblea tenutasi al Lirico nell'aprile
1977 con quella in corso oggi 10 febbraio.
Siamo alle prime battute del convegno dell'opposizione operaia e già si sono delineate le direttive
su cui si muoverà per un giorno e mezzo la sfilata dei "rivoluzionari in fabbrica". Non mi
aspettavo molto, ma la stanca rivisitazione dei luoghi comuni, dei resoconti cronachistici, degli
appelli all'unità, dei buoni propositi e anche delle fantasie dei collettivi inesistenti, mi lascia più che
deluso.
A smuovere l'apatia è un messaggio di alcuni "poliziotti democratici". Ingenuamente spero in una
sollevazione della platea, una piccola rissa, niente. Qualche fischio isolato, prontamente zittito,
non riesce a interrompere la lettura del documento dei questurini che vogliono "ricercare cosa
significa la funzione di tutori dell'ordine". Applauso finale e prende la parola un aderente al
Collettivo di lotta del Centro Direzionale di Milano per sottolineare l'interesse che bisogna avere
verso la posizione di quei poliziotti democratici.
Ma al di là del particolare piccante, cosa ha espresso questa "conta" delle "realtà di fabbrica" di
quasi tutta Italia? Poco. Molto poco, soprattutto se teniamo conto del fatto che i presenti (poco
più di mille) erano tutti militanti di gruppi e organizzazioni di estrema sinistra: da D.P. fino agli
autonomi e a pochi anarchici e libertari, di operai tout-court praticamente nessuno.
Da quasi tutti gli interventi traspare, con una certa evidenza, l'imbarazzo nell'utilizzare formule
scontate (organismi di massa, avanguardie di fabbrica, ecc.)che oltre a non esprimere realtà
effettive (oggi come ieri) hanno perso quel carattere galvanizzante anche per gli amanti della
"rivoluzione verbale". Il tono, nella sostanza, è dimesso (anche se non mancano i visionari
dell'ultima ora) ma non esce dalla logica di sempre. Solo per un adeguamento ai tempi non si parla
più della "giusta linea vincente", ma è chiara la volontà di ritornarvi non appena possibile. E al
momento la possibilità è lontana: "Il dissenso c'è, ma non si concretizza in azioni coscienti", "il
quarto sindacato... forse... ma non ci sono le forze", "chi ci sta di fronte sono gli operai più
combattivi e sono iscritti al P.C.I.", "se ti muovi dicono che sei un fiancheggiatore delle B.R.",
"il terrorismo ci incula perché ci mette sulla difensiva".
L'assemblea si chiude con un appello redatto dalla presidenza in cui si rileva che l'opposizione
operaia agisce sia all'interno sia all'esterno dei sindacati per costruire gli organismi di massa di
opposizione. Il terrorismo viene condannato perché estraneo alla logica dell'opposizione operaia,
così come viene condannata la strumentalizzazione del terrorismo per criminalizzare il movimento
di opposizione, mentre viene ribadita la rottura con la pratica della sinistra sindacale, definita
fallimentare. L'assemblea ha mostrato - sempre secondo la presidenza - l'impossibilità di soluzioni
strategiche, anche se esistono le premesse per arrivarci visti gli elementi comuni in molte realtà. In
pratica - viene detto - a Milano si è aperto un dibattito che deve continuare nei luoghi di lavoro.
Tutto qui!
L'impressione che se ne ricava è che questo tardivo embrassons-nous sia l'unione di una coppia
sterile e per di più incapace di amarsi. D'altro canto la realtà è quella che è: risulta sempre più
difficile illudersi o creare "rappresentazioni della realtà" nelle quali cullare i sogni della
"rivoluzione domani".
I vertici sindacali stanno dando un altro giro di vite, il controllo si fa più serrato. Emblematico è il
caso della F.L.M. milanese che si vedrà quanto prima sottoposta a una gestione commissariale con
l'invio di Luigi Viviani, segretario nazionale della FIM-CISL, che sovrintenderà all'opera di
Piergiorgio Tiboni, reo di aver lasciato troppo spazio a dirigenti sindacali provenienti dalla nuova
sinistra. Ma fatto ancor più significativo, e nel contempo preoccupante, ad appoggiare l'azione dei
vertici è stata una larga maggioranza degli scritti di base che non era d'accordo con la linea
"rivoluzionaria" dei suoi dirigenti locali. Un fatto che deve far riflettere e che denota quanto siano
stretti gli spazi di azione all'interno delle fabbriche.
Certo ci sono altri esempi di segno contrario, ma nel complesso la crisi, pur generando uno
scontento diffuso, ha giocato sfavorevolmente nei confronti di un processo aggregativo del
dissenso e quando questo si è manifestato in modo attivo è stato il classico "fuoco di paglia".
Questo sembrerebbe confermare che la crisi l'hanno voluta i padroni, come recita un ormai
consunto slogan tanto caro ai rivoluzionari. Ma purtroppo non è neanche vero e dovremmo
smetterla di dire cose false, credendo di operare una semplificazione della realtà. È certo, invece,
che la crisi, se i padroni non l'hanno voluta, sicuramente l'hanno ingigantita e l'hanno gestita,
insieme ai sindacati, molto bene soprattutto nella riqualificazione del controllo della forza-lavoro.
Ad accrescere l'immagine sconfortante sta il fatto che la crisi economica si è prodotta in
concomitanza della crisi di contenuti del movimento rivoluzionario, tanto che le due crisi,
sovrapponendosi, hanno generato un ibrido connubio sfociato poi nei fenomeni di riflusso di cui
travoltismo e fonzismo sono solo gli aspetti più appariscenti. Il lato più drammatico di tutta la
faccenda è che l'esperienza accumulata in questo periodo non si è tradotta in conoscenza. Vale a
dire che i fatti non ci hanno insegnato quali sono i meccanismi sociali su cui operare: in molti
compagni l'atteggiamento prevalente è "dopo che sarà passato il riflusso, ricominceremo", dove
per ricominciare si deve intendere la riapplicazione pedissequa di quanto avevamo fatto prima.
Tanto che nel dibattito sulla ricostituzione dell'U.S.I. (il sindacato libertario) molti si accalorano
intorno al problema della "centralità operaia" con tutte le implicazioni teorico-pratiche che ne
derivano. È mai possibile nella realtà attuale utilizzare un'impostazione strategica che molto
probabilmente era fuorviante anche cinquant'anni fa?
Oggi stiamo uscendo (forse) da una crisi che ha modificato, e profondamente, la composizione del
dissenso e dell'opposizione: nuove figure si trovano ai livelli inferiori della società ed esprimono
una dinamica ed un atteggiamento psicologico difficilmente inquadrabili nei nostri schemini
"formuletta per la rivoluzione".
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