Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 9 nr. 72
febbraio 1979 - marzo 1979


Rivista Anarchica Online

Il prisma femminista
di Claudia Vio

All'interno del movimento femminista la parola "separatismo" ha assunto significati diversi, perché diverse sono le tendenze e le prospettive politiche presenti nel movimento: questo fatto genera confusione. Personalmente penso che "separatismo" non si identifichi con "femminismo". Prima di spiegare quali, secondo me, sono le diverse tendenze politiche presenti nel movimento, credo che sia utile riassumere (anche ripetendo nozioni molto note) le caratteristiche che il neo-femminismo manifesta, ricercando fra queste, prima di tutto quelle unificanti.

La caratteristica prima del neo-femminismo è il riconoscimento (la famosa "presa di coscienza") che esiste una "condizione femminile"; una condizione femminile che viene definita "specifica", perché presenta situazioni di sfruttamento e di subordinazione diverse da quelle identificate tradizionalmente come tali dalla sinistra (questo, sottolineo, è il punto di vista femminista).

Secondo il neo-femminismo, per essere più precisi, la condizione della donna è resa specifica dal fatto che:

1) essa vive all'interno della casa (e quindi non solo nelle fabbriche e nelle istituzioni sociali) la propria principale condizione di sfruttamento; il suo lavoro, il lavoro di casalinga, serve a riprodurre (nelle sue varie accezioni) la forza-lavoro maschile. Si tratta di un "servizio" non pagato, non qualificato e funzionale al sistema capitalistico. Per di più, di un lavoro che costringe la donna ad una condizione di subordinazione nei confronti dell'uomo.

2) la donna subisce una emarginazione che non si realizza solo nel campo economico, ma si estende anche a quello della cosiddetta sovrastruttura: la donna, dice il neo-femminismo, viene considerata un essere inferiore (e trattata come tale) a causa di modelli culturali che sono stati prodotti dal maschio per il maschio. Questi modelli culturali maschili sono negativi non solo perché subordinano la donna nel rapporto uomo-donna, ma anche perché organizzano, in modo discriminatorio, l'intero sistema culturale dell'attuale società. Una società che è dunque ingiusta, "negativa" e carica di "valori negativi".

3) sia la "casa" che il "rapporto uomo-donna" si iscrivono nella sfera del "privato". Questo "privato" ha, però, un'origine "sociale". Questa "coscienza della specificità" è ciò che distingue il neo-femminismo (cioè il movimento femminista nato nel '69-'70) dal femminismo storico (che si limitava alla contestazione di una generica condizione di inferiorità della donna rispetto all'uomo).

Questa "coscienza" è anche l'elemento che accomuna tutte le donne che si riconoscono nel neo-femminismo (movimento che, d'altronde, raccoglie anche quelle donne che, pur ignorando nei dettagli l'analisi sulla condizione femminile, sentono comunque l'esigenza di superare il loro stato di emarginazione).

Si tratta di un'analisi (quella relativa alla specificità femminile, svolta dal neo-femminismo) che genericamente può essere definita, e si autodefinisce, di sinistra: la necessità dell'attacco al capitalismo, la ovvia interpretazione dei modelli culturali come prodotti e funzioni sociali ecc., sono tutte convinzioni "classiche" della sinistra.

Tuttavia, quando si entra nel campo dell'elaborazione ideologica vera e propria, dell'identificazione dell'"alternativa" possibile e di quali soggetti sociali possano essere riconosciuti come sfruttati ed emarginati (sempre restando, è ovvio, nell'area femminile) qui le tendenze si diversificano e interessano, naturalmente, anche il problema del soggetto rivoluzionario. E toccano quello del separatismo.

Le diverse tendenze presenti nel neo-femminismo mi pare si possano ricondurre, brutalmente, a due: una, che tende a riferirsi in modo esplicito e rigoroso al progetto rivoluzionario marxista; e un'altra che mira a fondare un progetto rivoluzionario proprio.

Il neo-femminismo marxista

La tendenza neo-femminista marxista sostiene la necessità della rivoluzione sociale purché vi sia "liberazione della donna": concorde con l'analisi marxista sul fatto che lo sfruttamento e l'oppressione hanno come causa prima il capitalismo, la rivoluzione (afferma questa corrente) deve necessariamente passare attraverso l'eliminazione del capitalismo stesso. Inoltre, se il capitalismo è non solo la causa prima dello sfruttamento e dell'oppressione (i mali sociali), ma ormai si identifica con essi, la negazione del capitalismo coincide con la fondazione di una "società positiva".

Il carattere "sociale" dell'alternativa proposta garantisce, secondo queste femministe, l'unità della lotta dell'uomo e della donna (confermando, tra l'altro, l'universalità del progetto rivoluzionario marxista). Soprattutto garantisce la possibilità di includere tra gli sfruttati (nel cosiddetto proletariato) anche la donna, a pieno titolo. Perché allora la scelta del separatismo da parte di queste femministe? E, d'altro canto, perché il rifiuto dei marxisti di accettare il femminismo?

La causa di questo rifiuto, credo, ruota intorno al concetto di "classe" e al problema delle dinamiche dello sfruttamento e della disuguaglianza. I marxisti infatti, con un certo sforzo, possono anche arrivare ad includere nel "proletariato" le donne sfruttate.

L'analisi femminista del lavoro casalingo, a questo proposito, non farebbe una grinza. Più problematico però, per i marxisti, è attribuire alle donne emarginate o subordinate socialmente, ma economicamente non appartenenti all'area delle sfruttate, il titolo appunto di "classe sfruttata". Gli schemi marxisti di interpretazione delle "ingiustizie sociali" escludono a priori la considerazione di quegli strati sociali non sfruttati dal sistema di produzione capitalistico (fondato sulla proprietà privata, la vendita della forza-lavoro ecc.) e però discriminati dall'esistenza, pura e semplice di un "potere".

L'interpretazione marxista li respinge; li esclude dal progetto di liberazione. E a questo punto il "separatismo" si presenta come una soluzione di compromesso: le femministe marxiste per prime si trovano in contraddizione fra una realtà di emarginazione della donna e l'impossibilità di spiegare questa emarginazione esclusivamente in termini di produzione capitalistica. Si rifiutano di venire sgroppate dalla rivoluzione e inchiodate nella sovrastruttura; arrivano anche a sfiorare, ma solo a sfiorare, il discorso sul "potere" e sulla gerarchia, affermando talvolta che questi hanno "preceduto il capitalismo"; e si condannano così ad una perpetua estraneità del pensiero marxista, senza, d'altro canto, formulare un progetto rivoluzionario valido.

Questo separatismo è dunque il frutto di una sconfitta teorica. Ma è anche il sintomo di una nuova breccia, aperta nel pensiero marxista, di cui si deve tener conto. Anche perché confermata da altri movimenti che, non trovando una soluzione al problema finiscono col lottare per i diritti civili e basta. Ed è un separatismo "tattico", un tentativo (perdente) di costringere la sinistra a riconoscere l'evidenza della questione femminile, nella sua realtà, nell'analisi che si fa di questa realtà, nelle buone intenzioni marxiste che la guidano.

Il neo-femminismo "classico"

Per quanto riguarda la tendenza neo-femminista, qui, il nemico da abbattere non è più il capitalismo (o almeno, non solo quello), ma il "patriarcato". Proprio il concetto di patriarcato è, secondo me, il fulcro del pensiero corrente. Soprattutto perché è nebuloso: da un lato infatti viene identificato, da queste femministe, nell'idea di "sistema di potere", dall'altro in quello di "sistema maschile".

Questa oscillazione fa sì che, nelle teorie di queste femministe, dichiarazioni esplicite di lotta al potere (ad ogni sistema di potere) si affianchino altre in cui l'alternativa, anziché essere, per lo meno, l'assenza di potere, l'alternativa, dicevo, prende una tinta particolare: viene definita "femminile".

L'universo femminile viene contrapposto a quello maschile (e al tempo stesso, al potere). Al potere viene dunque attribuito un sesso: quello maschile. E questo, attenzione, non perché si voglia eliminare il maschio e con lui i suoi attributi sessuali; ma proprio perché si vuole eliminare la discriminazione sociale in base al sesso (negando che la gerarchia dei sessi possa avere un'origine naturale). Così, la corrente femminista che più radicalmente si pone contro il potere è anche quella che crea maggiori confusioni circa il problema del soggetto rivoluzionario. Scavalcando ed abbandonando le contraddizioni marxiste, identifica nel "femminile" il valore positivo, nel maschile quello negativo.

Infine, proietta questo valore (mitico, è evidente; per nulla storicizzato) sulla donna attuale: le conferisce potenzialità rivoluzionarie in quanto "femminile".

Forse il percorso teorico non è così esplicito come io l'ho tracciato, ma credo che sia proprio questo la causa, perfino, di un mutamento di slogans. Dal "non c'è liberazione senza rivoluzione" (e viceversa), si passa qui all'idea che l'unica liberazione, quella di portata universale, sia quella della donna (quella, per intenderci, capace di fondare o riscoprire i "valori femminili").

Il separatismo, in questo caso, vede sfumare i suoi contorni: diventa una totalità. Finisce per assorbire ogni problema di classe, di potere, di rivoluzione, annullando tutto nel femminile. In un certo senso, annullando anche la distanza tra il tempo reale, attuale, e quello dell'utopia.

Diventa, il separatismo, pratica di scoperta del "femminile", e si fonde con il concetto di "autonomia", ancor meno identificata in termini sociali di quanto avvenga nell'altra "corrente". Semmai, questa autonomia tende ad assimilarsi al concetto stesso di "potenzialità rivoluzionaria", di "vitalità rivoluzionaria".

È il frutto, in sostanza, di una radicale opposizione al "maschile"; ma è poco teorizzato (se non quando insiste sulla necessità di scoprire il femminile al di fuori dei condizionamenti culturali maschili).

Esiste, infine, anche un'ultima forma di separatismo, quella che non discende né anticipa alcuna "ideologia" femminista, ma è più che altro di tipo pragmatico. È la realtà dei "gruppi separati" di donne, che si formano all'interno dei vari movimenti e partiti di sinistra; per ragioni che, alla fin fine, si potrebbero ricondurre a "incompatibilità di carattere" con i compagni maschi. Questi gruppi trovano perfettamente coerente pensare da sé alla liberazione della donna, non trovando concordi, o considerando indifferenti, sul piano pratico, i loro compagni di strada. Armonizzati alle rispettive tendenze di partito o di movimento questi gruppi non sentono l'esigenza di fare del separatismo un problema (proprio perché non ne fanno una teoria) e il separatismo finisce così con l'identificarsi, ancora una volta, nell'autonomia: l'agire cioè, in prima persona, per la propria liberazione.

È quello che accade, mi pare, all'interno del movimento anarchico: il separatismo, se c'è, è soprattutto un impegno autonomo, che però ha come suo massimo orizzonte la lotta contro il potere, e che quindi non si trova in contraddizione con il pensiero libertario. In altri casi invece, questo stesso atteggiamento pragmatista, assunto da gruppi di donne appartenenti alla sinistra marxista, può dar luogo a rotture "inspiegabili" con i rispettivi movimenti o partiti di origine, e letteralmente costringere queste donne a confluire nel femminismo senza magari condividerlo completamente, e, a rovescio, ad accettare la settorialità delle soluzioni partitiche (tipo U.D.I.) o, ancora, possono spingere il movimento femminista verso posizioni ancora più confuse nei confronti dei partiti, delle istituzioni in genere, e dei vari momenti della vita politica istituzionale.

In conclusione, credo come ho detto all'inizio, che il separatismo femminista non possa essere identificato con il "femminismo". Né che il problema del separatismo femminista possa essere confuso con il separatismo presente (o che può presentarsi) nel movimento anarchico. (...)