Rivista Anarchica Online
Il prisma femminista
di Claudia Vio
All'interno del movimento femminista la parola "separatismo" ha assunto significati diversi, perché
diverse sono le tendenze e le prospettive politiche presenti nel movimento: questo fatto genera
confusione. Personalmente penso che "separatismo" non si identifichi con "femminismo". Prima di
spiegare quali, secondo me, sono le diverse tendenze politiche presenti nel movimento, credo che
sia utile riassumere (anche ripetendo nozioni molto note) le caratteristiche che il neo-femminismo
manifesta, ricercando fra queste, prima di tutto quelle unificanti.
La caratteristica prima del neo-femminismo è il riconoscimento (la famosa "presa di coscienza")
che esiste una "condizione femminile"; una condizione femminile che viene definita "specifica",
perché presenta situazioni di sfruttamento e di subordinazione diverse da quelle identificate
tradizionalmente come tali dalla sinistra (questo, sottolineo, è il punto di vista femminista).
Secondo il neo-femminismo, per essere più precisi, la condizione della donna è resa specifica dal
fatto che:
1) essa vive all'interno della casa (e quindi non solo nelle fabbriche e nelle istituzioni sociali) la
propria principale condizione di sfruttamento; il suo lavoro, il lavoro di casalinga, serve a
riprodurre (nelle sue varie accezioni) la forza-lavoro maschile. Si tratta di un "servizio" non
pagato, non qualificato e funzionale al sistema capitalistico. Per di più, di un lavoro che costringe
la donna ad una condizione di subordinazione nei confronti dell'uomo.
2) la donna subisce una emarginazione che non si realizza solo nel campo economico, ma si
estende anche a quello della cosiddetta sovrastruttura: la donna, dice il neo-femminismo, viene
considerata un essere inferiore (e trattata come tale) a causa di modelli culturali che sono stati
prodotti dal maschio per il maschio. Questi modelli culturali maschili sono negativi non solo
perché subordinano la donna nel rapporto uomo-donna, ma anche perché organizzano, in modo
discriminatorio, l'intero sistema culturale dell'attuale società. Una società che è dunque ingiusta,
"negativa" e carica di "valori negativi".
3) sia la "casa" che il "rapporto uomo-donna" si iscrivono nella sfera del "privato". Questo
"privato" ha, però, un'origine "sociale". Questa "coscienza della specificità" è ciò che distingue il
neo-femminismo (cioè il movimento femminista nato nel '69-'70) dal femminismo storico (che si
limitava alla contestazione di una generica condizione di inferiorità della donna rispetto all'uomo).
Questa "coscienza" è anche l'elemento che accomuna tutte le donne che si riconoscono nel neo-femminismo (movimento che, d'altronde, raccoglie anche quelle donne che, pur ignorando nei
dettagli l'analisi sulla condizione femminile, sentono comunque l'esigenza di superare il loro stato
di emarginazione).
Si tratta di un'analisi (quella relativa alla specificità femminile, svolta dal neo-femminismo) che
genericamente può essere definita, e si autodefinisce, di sinistra: la necessità dell'attacco al
capitalismo, la ovvia interpretazione dei modelli culturali come prodotti e funzioni sociali ecc.,
sono tutte convinzioni "classiche" della sinistra.
Tuttavia, quando si entra nel campo dell'elaborazione ideologica vera e propria,
dell'identificazione dell'"alternativa" possibile e di quali soggetti sociali possano essere riconosciuti
come sfruttati ed emarginati (sempre restando, è ovvio, nell'area femminile) qui le tendenze si
diversificano e interessano, naturalmente, anche il problema del soggetto rivoluzionario. E
toccano quello del separatismo.
Le diverse tendenze presenti nel neo-femminismo mi pare si possano ricondurre, brutalmente, a
due: una, che tende a riferirsi in modo esplicito e rigoroso al progetto rivoluzionario marxista; e
un'altra che mira a fondare un progetto rivoluzionario proprio.
Il neo-femminismo marxista
La tendenza neo-femminista marxista sostiene la necessità della rivoluzione sociale purché vi sia
"liberazione della donna": concorde con l'analisi marxista sul fatto che lo sfruttamento e
l'oppressione hanno come causa prima il capitalismo, la rivoluzione (afferma questa corrente) deve
necessariamente passare attraverso l'eliminazione del capitalismo stesso. Inoltre, se il capitalismo è
non solo la causa prima dello sfruttamento e dell'oppressione (i mali sociali), ma ormai si identifica
con essi, la negazione del capitalismo coincide con la fondazione di una "società positiva".
Il carattere "sociale" dell'alternativa proposta garantisce, secondo queste femministe, l'unità della
lotta dell'uomo e della donna (confermando, tra l'altro, l'universalità del progetto rivoluzionario
marxista). Soprattutto garantisce la possibilità di includere tra gli sfruttati (nel cosiddetto
proletariato) anche la donna, a pieno titolo. Perché allora la scelta del separatismo da parte di
queste femministe? E, d'altro canto, perché il rifiuto dei marxisti di accettare il femminismo?
La causa di questo rifiuto, credo, ruota intorno al concetto di "classe" e al problema delle
dinamiche dello sfruttamento e della disuguaglianza. I marxisti infatti, con un certo sforzo,
possono anche arrivare ad includere nel "proletariato" le donne sfruttate.
L'analisi femminista del lavoro casalingo, a questo proposito, non farebbe una grinza. Più
problematico però, per i marxisti, è attribuire alle donne emarginate o subordinate socialmente,
ma economicamente non appartenenti all'area delle sfruttate, il titolo appunto di "classe sfruttata".
Gli schemi marxisti di interpretazione delle "ingiustizie sociali" escludono a priori la
considerazione di quegli strati sociali non sfruttati dal sistema di produzione capitalistico (fondato
sulla proprietà privata, la vendita della forza-lavoro ecc.) e però discriminati dall'esistenza, pura e
semplice di un "potere".
L'interpretazione marxista li respinge; li esclude dal progetto di liberazione. E a questo punto il
"separatismo" si presenta come una soluzione di compromesso: le femministe marxiste per prime
si trovano in contraddizione fra una realtà di emarginazione della donna e l'impossibilità di
spiegare questa emarginazione esclusivamente in termini di produzione capitalistica. Si rifiutano di
venire sgroppate dalla rivoluzione e inchiodate nella sovrastruttura; arrivano anche a sfiorare, ma
solo a sfiorare, il discorso sul "potere" e sulla gerarchia, affermando talvolta che questi hanno
"preceduto il capitalismo"; e si condannano così ad una perpetua estraneità del pensiero marxista,
senza, d'altro canto, formulare un progetto rivoluzionario valido.
Questo separatismo è dunque il frutto di una sconfitta teorica. Ma è anche il sintomo di una nuova
breccia, aperta nel pensiero marxista, di cui si deve tener conto. Anche perché confermata da altri
movimenti che, non trovando una soluzione al problema finiscono col lottare per i diritti civili e
basta. Ed è un separatismo "tattico", un tentativo (perdente) di costringere la sinistra a
riconoscere l'evidenza della questione femminile, nella sua realtà, nell'analisi che si fa di questa
realtà, nelle buone intenzioni marxiste che la guidano.
Il neo-femminismo "classico"
Per quanto riguarda la tendenza neo-femminista, qui, il nemico da abbattere non è più il
capitalismo (o almeno, non solo quello), ma il "patriarcato". Proprio il concetto di patriarcato è,
secondo me, il fulcro del pensiero corrente. Soprattutto perché è nebuloso: da un lato infatti viene
identificato, da queste femministe, nell'idea di "sistema di potere", dall'altro in quello di "sistema
maschile".
Questa oscillazione fa sì che, nelle teorie di queste femministe, dichiarazioni esplicite di lotta al
potere (ad ogni sistema di potere) si affianchino altre in cui l'alternativa, anziché essere, per lo
meno, l'assenza di potere, l'alternativa, dicevo, prende una tinta particolare: viene definita
"femminile".
L'universo femminile viene contrapposto a quello maschile (e al tempo stesso, al potere). Al
potere viene dunque attribuito un sesso: quello maschile. E questo, attenzione, non perché si
voglia eliminare il maschio e con lui i suoi attributi sessuali; ma proprio perché si vuole eliminare
la discriminazione sociale in base al sesso (negando che la gerarchia dei sessi possa avere
un'origine naturale). Così, la corrente femminista che più radicalmente si pone contro il potere è
anche quella che crea maggiori confusioni circa il problema del soggetto rivoluzionario.
Scavalcando ed abbandonando le contraddizioni marxiste, identifica nel "femminile" il valore
positivo, nel maschile quello negativo.
Infine, proietta questo valore (mitico, è evidente; per nulla storicizzato) sulla donna attuale: le
conferisce potenzialità rivoluzionarie in quanto "femminile".
Forse il percorso teorico non è così esplicito come io l'ho tracciato, ma credo che sia proprio
questo la causa, perfino, di un mutamento di slogans. Dal "non c'è liberazione senza rivoluzione"
(e viceversa), si passa qui all'idea che l'unica liberazione, quella di portata universale, sia quella
della donna (quella, per intenderci, capace di fondare o riscoprire i "valori femminili").
Il separatismo, in questo caso, vede sfumare i suoi contorni: diventa una totalità. Finisce per
assorbire ogni problema di classe, di potere, di rivoluzione, annullando tutto nel femminile. In un
certo senso, annullando anche la distanza tra il tempo reale, attuale, e quello dell'utopia.
Diventa, il separatismo, pratica di scoperta del "femminile", e si fonde con il concetto di
"autonomia", ancor meno identificata in termini sociali di quanto avvenga nell'altra "corrente".
Semmai, questa autonomia tende ad assimilarsi al concetto stesso di "potenzialità rivoluzionaria",
di "vitalità rivoluzionaria".
È il frutto, in sostanza, di una radicale opposizione al "maschile"; ma è poco teorizzato (se non
quando insiste sulla necessità di scoprire il femminile al di fuori dei condizionamenti culturali
maschili).
Esiste, infine, anche un'ultima forma di separatismo, quella che non discende né anticipa alcuna
"ideologia" femminista, ma è più che altro di tipo pragmatico. È la realtà dei "gruppi separati" di
donne, che si formano all'interno dei vari movimenti e partiti di sinistra; per ragioni che, alla fin
fine, si potrebbero ricondurre a "incompatibilità di carattere" con i compagni maschi. Questi
gruppi trovano perfettamente coerente pensare da sé alla liberazione della donna, non trovando
concordi, o considerando indifferenti, sul piano pratico, i loro compagni di strada. Armonizzati
alle rispettive tendenze di partito o di movimento questi gruppi non sentono l'esigenza di fare del
separatismo un problema (proprio perché non ne fanno una teoria) e il separatismo finisce così
con l'identificarsi, ancora una volta, nell'autonomia: l'agire cioè, in prima persona, per la propria
liberazione.
È quello che accade, mi pare, all'interno del movimento anarchico: il separatismo, se c'è, è
soprattutto un impegno autonomo, che però ha come suo massimo orizzonte la lotta contro il
potere, e che quindi non si trova in contraddizione con il pensiero libertario. In altri casi invece,
questo stesso atteggiamento pragmatista, assunto da gruppi di donne appartenenti alla sinistra
marxista, può dar luogo a rotture "inspiegabili" con i rispettivi movimenti o partiti di origine, e
letteralmente costringere queste donne a confluire nel femminismo senza magari condividerlo
completamente, e, a rovescio, ad accettare la settorialità delle soluzioni partitiche (tipo U.D.I.) o,
ancora, possono spingere il movimento femminista verso posizioni ancora più confuse nei
confronti dei partiti, delle istituzioni in genere, e dei vari momenti della vita politica istituzionale.
In conclusione, credo come ho detto all'inizio, che il separatismo femminista non possa essere
identificato con il "femminismo". Né che il problema del separatismo femminista possa essere
confuso con il separatismo presente (o che può presentarsi) nel movimento anarchico. (...)
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