Rivista Anarchica Online
Violentismo ed etica
di P. F.
Anche se finora ci è giunto solo l'intervento critico di Gianfranco Bertoli, sappiamo che
l'articolo "Emile Henry ed il senso della misura" pubblicato sullo scorso numero ha suscitato
più di una reazione. In attesa che le opinioni si concretizzino in scritti permettendo così
l'apertura sul prossimo numero di un dibattito a più voci sugli argomenti sollevati da quello
scritto pubblichiamo in queste pagine l'opinione di un compagno della redazione, che affronta
alcuni aspetti etici dei temi in discussione.
Riconoscono che le B.R. sono staliniste, però dio cane Curcio è un duro. Si entusiasmano per
Azione Rivoluzionaria, quelli sì che si danno da fare, mica come voi che ve ne state chiusi nelle
sedi a farvi seghe con la propaganda. Se gli fai notare che la strategia proclamata al processo di
Parma dai militanti di A.R. (1° obiettivo: costruire il fronte unito delle organizzazioni comuniste
combattenti) è a dir poco allucinante e suicida, ti danno del riformista, del cagasotto, tanto tu i
coglioni per fare come loro dove li hai? Anche se negano, fanno della lotta armata un mito, l'unico
mito, e di conseguenza soffrono di un terribile complesso d'inferiorità verso quelli che la fanno
"bene". E per bene intendono soprattutto tante azioni, tanti gambizzati, tanti
eliminati/puniti/giustiziati/ecc.. Se gli parli di etica anarchica, ti ridono in faccia, ti danno del
cristiano. Se strabuzzi gli occhi appena ti raccontano che all'ultimo corteo, dalle file anarchiche, si
è gridato lo slogan demenziale "dieci, cento, mille Torregiani, bottegai per voi non c'è domani",
ti rinfacciano il tuo moralismo. E ti spiegano che c'è mala e mala, che quelli della "piccola mala
per il comunismo" sono compagni, che così un torregiani qualsiasi ci penserà due volte prima di
fare il gradasso.
Quello che soprattutto non riescono a capire, è quando parli loro del valore della vita umana, della
necessità di rispettarla al massimo, dell'orrore che provi di fronte all'assurda violenza che
inutilmente caratterizza le gesta di tanti rivoluzionari. Il minimo che ti becchi è un paragone con
Woitjla. Siamo in guerra, ti dicono, e non è certo il momento più adatto per mettersi a fare i
filosofi. Chi se ne frega se un commando di Prima Linea tende un agguato a due poliziotti, li
crivella di colpi e lascia sul marciapiede il cadavere di un giovane di passaggio? Chi se ne frega se
nell'attentato rivendicato dai Gatti Selvaggi a Roma contro l'associazione dei giornalisti muore per
sbaglio una donna che non c'entra niente?
Loro, i super-compagni, se ne fregano. Noi no. Per noi il riferimento all'etica, all'etica anarchica, è
sempre prioritario rispetto a qualsiasi altra considerazione. Non ci basta che il "nemico" tragga
svantaggio da una nostra azione, ci interessa soprattutto che ne tragga vantaggio la nostra causa.
Se per "vincere" ci trovassimo nelle condizioni di dover necessariamente rinunciare alla nostra
etica, servendoci sistematicamente di mezzi contraddittori ed incompatibili con il nostro fine,
avremmo già perso in partenza. Perché l'anarchia non può nascere che dal concorso costruttivo
degli uomini, non dall'eliminazione fisica e totale del "nemico". Perché il nostro procedere nella
storia si misura in coscienze conquistate all'azione diretta e all'anarchismo, non in numero di morti
e feriti disseminati sul selciato.
Parliamoci chiaro. La logica espressa da episodi come quelli di Torino e Bologna sopra citati, ed
in generale da tutta la strategia della lotta armata oggi in Italia, è quella dello sterminio del
nemico, una logica che non è e non può essere nostra, ma di chi ha una concezione autoritaria e
totalitaria del conflitto sociale. È la logica, rovesciata, dello Stato. Ed anche se, più
modestamente, la logica non è dell'annientamento (secondo il lessico delle Brigate Rosse e di
Prima Linea), ma quella della rappresaglia, essa ci è altrettanto estranea. Una cosa è il gesto
vendicatore (che colpisce chi è soggettivamente colpevole e lo colpisce con doverosa proporzione
tra "colpa" e risposta vendicatrice), un'altra è la rappresaglia terroristica indiscriminata, che ben a
ragione ha tutta una tradizione militare culminata nella spietata efficienza nazista.
Non è una questione di lana caprina, né si tratta di "seghe moralistiche", come sono soliti definirle
i super-compagni pitrentottisti. Noi non possiamo usare mezzi estranei od addirittura antitetici ai
nostri fini, se non negando i nostri fini cioè noi stessi in quanto anarchici. Altri (riformisti o
rivoluzionari o reazionari che siano) possono giustificare i mezzi con i fini. Noi no. Al contrario,
sono semmai i nostri mezzi che giustificano i nostri fini ed in ogni caso i mezzi debbono
rispecchiare quanto più possibile quegli stessi valori morali che sono propri dei nostri fini.
E non ci si venga a dire che uccidere un poliziotto è coerente con i nostri fini perché elimina uno
strumento del potere. Questo è confondere gli uomini con i ruoli, il che è eticamente iniquo,
logicamente sciocco e strategicamente folle. Come pensare di eliminare lo sfruttamento
dell'agricoltura ammazzando fruttivendoli o di eliminare la religione uccidendo curati di
campagna. Vale a dire che si contraddice gravemente al valore fondamentale della vita umana in
cambio neppure di un modesto piatto di lenticchie propagandistiche o tattiche ma addirittura di un
risultato nullo se non negativo.
Sul valore strategico, sull'efficacia cioè della lotta armata, non ci soffermiamo. Noi non crediamo -
lo abbiamo ripetuto molte volte - che oggi in Italia la lotta armata abbia alcuna possibilità di
successo, non crediamo nemmeno che ce l'abbia in generale né tantomeno secondo la nostra
prospettiva libertaria. Comunque, non intendiamo discutere di questo con quei compagni che la
pensano (o sentono) diversamente. Noi riteniamo drammaticamente sbagliata la loro scelta per
loro innanzitutto e per il movimento: tuttavia ci rendiamo conto che sarebbe qui ed ora
ridicolmente inutile discuterla. Vorremmo solo che quella scelta non significasse - come troppi
elementi lasciano presagire - suicidio individuale e collettivo ed in più anche suicidio etico del loro
e del nostro anarchismo. Vogliamo dire che se a Torino fosse stato tratto in agguato il
generalissimo Dalla Chiesa o altri consimili primattori dell'apparato repressivo statale, sarebbe
stata cosa chiaramente ben diversa (e come tale inevitabilmente percepita dalla gente), anche se, a
nostro avviso, altrettanto inutile se non controproducente.
Ciò di cui cerchiamo di parlare è ciò che è o non è giusto, non ciò che è o non è utile. Il che però,
si badi, non è moralismo filisteo, ma solo un diverso modo di giudicare della validità anarchica dei
mezzi scelti.
Qualcuno potrebbe ritenere tutto sommato superflue queste considerazioni. A noi pare, invece,
che nel nostro movimento ci sia troppa sottovalutazione per quella coerenza etica che è anche
coerenza logica. Quella coerenza che sembra essere una debolezza dell'anarchismo perché si
oppone a tante (false) "scorciatoie" ma è in realtà la sua forza, ciò ad esempio che gli impedisce di
essere un'ideologia di copertura di nuove dominazioni e nuovi abominii, ciò che gli impedisce di
percorrere le più vergognose "via al socialismo" (!?) da altri percorse sotto l'ombrello di più
"duttili" ideologie. È proprio questa coerenza il nucleo essenziale senza il quale l'anarchismo non
sarebbe che una versione forse più estremistica ma certo più inefficiente del sinistrismo.
Chi, tra noi, privilegia l'efficienza dei mezzi sulla loro efficacia (cioè sulla loro capacità di
avvicinarsi ai fini) e ammira innanzitutto la tecnica guerrigliera, la capacità di "fuoco", l'ardimento
e consimili "valori" è tra noi per sbaglio. Crede di essere anarchico, ma dell'anarchismo non
conosce e non condivide la dimensione essenziale della coerenza mezzi-fini. Ma gli anarchici, le
bombe, i fucili, i pugnali, la storia, la tradizione, eccetera.... Certo. Ma si legga con la doverosa
attenzione il "terrorismo" anarchico e, tranne casi marginali, si vedrà che esso non era terrorismo
e che all'uso anarchico della violenza presiedeva una forte tensione etica e una costante ricerca di
coerenza, e nei casi a nostro avviso esemplari di consapevolezza v'era una dichiarata ripugnanza
(esattamente antitetica al gusto oggi diffusosi) per la violenza e la volontà di usarne il meno
possibile. Erano quelli che Albert Camus, nel suo eccezionale saggio L'uomo in rivolta, chiama gli
"uccisori delicati". Quelli che non uccidevano a cuor leggero ("gioiasamente") neppure i tiranni,
perché a cuor leggero uccidono i gangster, i poliziotti, i mercenari, i torquemada (del
cristianesimo, dell'islam, del marxismo-leninismo,...).
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