Rivista Anarchica Online
Le tette della baronessa
di Piero Flecchia
Farsa italica: dove chi ruba a miliardi ha l'onore di un'assoluzione con formula più ampia, o
qualche basito annetto di galera - il che poi è lo stesso - dal sommo tribunale: la corte
costituzionale, mentre per lo scippatore c'è solo la pretura e un iter nelle patrie galere, dove
l'ergastolo è l'approdo statisticamente molto più probabile.
Farsa italica: dove i vari andreotti-lamafia si alternano - o se cambia la persona il fortore immondo
c'è sempre lo stesso - a far riflessione intorno alla governabilità governativa ingovernabile, per cui
Cassola è diventato un credibile nemico pubblico: si è messo a parlare contro le centrali nucleari e
la guerra. Contro questi discorsi il sistema ha progettato il marchingegno finestra-aperta-guida-calabresi, dove il prodotto finito è Pinelli-saltato-giù.
I meccanismi li abbiamo capiti tutti: dall'osservatorio italiano per cui viene spontaneo far finta di
niente. Che la guerra cino-viet sia la solita sporca faccenda: una cosa vecchia quanto l'uomo:
come appunto la raccontano i soliti giornali che compriamo per un'abitudine appresa: un riflesso
condizionato da cani di Pavlov. Perché di più noi non siamo, entro lo spazio delle loro favole:
dove nocciolinacarter si incontrerà con la faccia del superdecorato di stato Leonidbi a impedire
che: "... ancora una volta la macabra follia inneschi un processo di reazione per cui l'umanità si
troverebbe gettata nel vasto oceano di sangue della terza conflagrazione mondiale". Sembra una
trovata alla Petrolini, e invece è prosa di un inviato speciale, prima pagina di un grande
quotidiano, che ti racconta che solo perché ci sono dei capi noi non ci ammazziamo per le strade.
Se verrà la loro pseudopace, quali incomparabili trionfi per loro! Se verrà la guerra, sarà ancora
una volta perché l'uomo è la bestia che è.
Così ce la vogliono raccontare loro, ma dove oggi si spara ha sparato anche il mio amico
legionario. È un paio d'anni che lo incontro quasi tutti i giorni: ora che è tornato a casa. Dove
oggi si spara ha combattuto anche lui. Non ne fa mistero: ha ammazzato gente, ha stuprato donne:
"Le più belle del mondo". Esemplare è il "come" ci è capitato. Verso i quindici anni si trovò nella
resistenza: staffetta partigiana. Racconta: "Dopo la liberazione, come mangiare? Ho fatto una
rapina.". Va male, scappa, si arruola nella legione, dove si è fatta tutta la guerra viet, poi una
pausa e poi l'Algeria. Guerra partigiana e campagne coloniali formano nella sua testa un unico
inscindibile blocco. Lui odia i nazi, lui odia i rossi: lui ha sempre combattuto per la libertà
d'Europa: infatti ora si gode una meritata pensione, che va regolarmente a riscuotere, salendo una
volta al mese sul Torino-Lione. Dunque neanche quest'uomo ha accettato la nuda professionalità
dell'assassino: s'è imbevuto di tutte le altre legittimazioni, eppure, malgrado tutte le legittimazioni:
di odio per gli altri, da come ne parla, traspare una vivissima simpatia per il nemico di ieri: il viet.
Dice: "Dove si combatte oggi ho combattuto anch'io. Sono tutte montagne, ma diverse dalle
nostre. Fitte di boschi. Noi legionari le chiamavamo le tette della baronessa". Il perché della strana
definizione non gli riesce chiaro. Si può dedurre da come parla dei posti dove oggi si combatte.
Ne ha una nostalgia fisica: colline irraggiungibili: proprio come le tette di una baronessa per il
legionario. All'ombra di quelle tette boscose, ben protetti e gratificati, stavano i viet
irraggiungibili: i nemici. Nemici che guardavano da una invidia e un livore non meno profondo
gente come questo legionario: gente rinserrata in ben muniti fortilizi, gonfi di rami e scatolame che
la Francia gloriosa che ogni anno celebra l'immortale '89, mandava per proteggere la civiltà
occidentale. Due opposte invidie, dove certamente quella viet era la reazione conseguente e
ineludibile alla presenza della legione: il marchingegno di marchio francese sul tipo finestra-guida-calabresi per gettare il Pinelli viet che non si sentiva gratificato dal piacere di lavorare quattordici
ore al giorno perché noi andassimo sui pneumatici michelin, per cui è giusto e bello che la
gioventù europea si sia battuta per il viet contro il marchingegno francese finestra-guida-calabresi,
anche se storicamente la protesta giovanile ha valso quanto la raccolta della carta pro missioni che
i papalisti raccattano per incivilire l'eterno buon selvaggio. Solo che entro la protesta pro-viet il
selvaggio che si inciviliva eravamo noi: rischiarati dalla civiltà nascente viet. Noi ai quali la
propaganda insegnava la necessità di consumare la nuova serie completa di prodotti made in
rivoluzionebolscevica, con le varianti imposte dalla atipicità del mercato Italia, dall'importatore
nazionale piciI, per cui la sigla marxleninismo diventava marxgramscileninismo, offerto ai punti
vendita festival dell'unità nella celebrata strategia commerciale messa a punto dalla togliatteria: e
salvati se puoi.
Noi non ci siamo salvati: neanche quelli che dicono: "Io l'avevo capito che di là non sarebbe
venuto l'uomo nuovo, perché il marxismo...". Se il punto fosse il marxismo, se il punto fosse il
cristianesimo o il maometto di Comejni, già da un bel po' di tempo l'umanità ne sarebbe venuta
fuori. Queste dottrine che spiegano il mondo dalla parte del potere non sono che lo strumento di
legittimazione-dominio del potere stesso. Oggi per molti compagni anarchici è ancora un mistero
la vittoria del marxismo: di questo strumento di dominio i cui risultati sono la guerra cino-viet, ma
il marxismo ha vinto perché il mondo era preparato a quel tipo di mistificazione: era stato
preparato da millenni di dominazione, per cui la rivolta degli oppressi non poteva non avere i tratti
voluti dagli oppressori. La guerra cino-viet non sarà la fine del marxismo perché mai nessuna
guerra, dove preti di una stessa fede benedivano preti di opposte armate, ha messo in crisi quella
fede. Per questa strada non c'è lezione da apprendere dalla guerra cino-viet, circa la quale, il solo
giudizio sensato l'ho sentito da un capo partigiano. Si chiama Gustu - la prima u si pronuncia
come quella nefanda di furer - e ascolta da un astio amaro il legionario che parla. Anche Gustu è
un reduce della grande guerra per la redenzione dell'umanità, ma la sua pensione è da reduce di
una guerra perduta. Lui si è beccato tutta la repressione Fiat. È rimasto alla "feroce" perché così
ordinava il partito. Scrutatore, attivista, il padrone non lo ha mai buttato fuori perché era un
alesatore finito, un alesatore di prima e è andato in pensione con 180.000 lire al mese: "E vivici tu
a Torino, se sei capace". Lui che non ci riesce, dopo 45 anni di marchette, ma prima è stato
garzone in una boita - ha più anni di lavoro che di vita - deve fare le sue eterne otto ore. Quelle
eterne otto ore che invece ovviamente per i vari andreottilamafia sono almeno 32: perché loro
devono occuparsi anche di Gustu, loro devono occuparsi di noi tutti: dei nostri errori e tendenze
omicidi, perché, come dice giustamente Gustu: "Ci stiamo ammazzando un'altra volta tra noi".
Perché ha massacrarci attorno e per le tette della baronessa siamo sempre e solo noi.
Però nel momento del massacro e un noi diviso in noi contro loro; noi difendiamo il bene contro
loro che portano il male. È la struttura che aggrega l'umanità entro un tale schema che va
combattuta e distrutta. È quella stessa struttura che ha rotolato il legionario per tre continenti e
costretto Gustu a trentacinque anni di repressione Fiat. È questa la struttura che trasforma il
mondo in un campo di battaglia per gli spazi del nemico: spazi da raggiungere a tutti i costi,
perché là e solo là il vincitore troverà le belle tette della baronessa.
Bisogna andare altrove perché nel qui e ora del presente siamo stati espropriati di tutto: il mondo
è l'eterna miseria dei vari andreotti-lamafia: le loro farse-profezie contro la malvagità assenteismo,
contro la malvagità consumi distorti, contro la malvagità vita.
Ai giovani si insegna la necessità di partire: emigrare, se non fisicamente almeno
immaginativamente: verso un mondo dove la vita è meglio, per cui mentre l'occidentale sogna la
sapienza dell'oriente, l'orientale sogna il mondo occidentale. Il movimento è sempre quello: Gustu
e il legionario ne sono il prodotto finito, o meglio lo scarto, il depositarsi di due vite logorate, che
però servono ancora a incrementare la necessità della rivolta: infatti beviamo assieme un
imbevibile aperitivo per permettere a un qualche Rossi di Montelera di pagare il prezzo del suo
riscatto: poi da volgere in travolgente campagna propagandistica, per cui l'essere rapito, per chi
capisce-conosce le leggi del sistema può diventare un grasso affare. Hanno quindi ragione loro: la
guerra cino-viet non serve a niente, non insegna niente: ma solo se noi ci lasciamo intrappolare
nelle loro trame, se ci illudiamo di poter toccare, sottraendole ai marxisti le nostre tette della
baronessa. Così sognando noi non ci accorgiamo di essere solo gli eterni coglioni d'oro del signor
conte: come insegna il proverbio popolare che dice: "Il conte ha sempre le balle d'oro". Siamo noi
le sue balle d'oro: noi i suoi coglioni.
Bisogna volgerci altrove: alla parte umana del legionario, alla parte umana che ha impedito a
quest'uomo di abitare il suo eterno omicidio come puro uccidere. Se ha sognato di combattere per
l'umanità occidentale, vuol dire che, per quanto sfigurata, la sua coscienza conservava una
necessità di potersi pensare coscienza che adempie a una funzione umana, da una dignità non
diversa da quella della coscienza di Gustu: che rischiava il posto per introdurre il giornale di gente
che oggi giudica in tutto e per tutto: "padroni peggio dei vecchi padroni". Padroni che sono
diventati padroni a partire da un sogno di rivolta contro il potere. La sconfitta del marxismo è la
sconfitta di un grande sogno di redenzione umana nato tra le classi umili tra la fine dell'ottocento e
l'inizio del novecento. Da questa sconfitta emerge una nuova grande ondata di protesta: che
inventa le sue forme e i suoi linguaggi in rapporto al qui e ora. La nostra funzione è quella di
mantenere libertaria nel suo pensarsi, questa ondata di immaginazione: impedire che si ridefinisca
entro un'altra struttura operativa dove la necessità delle vittorie impongano il millenario schema
burocratico: dove al vertice stanno i capi che pensano e sotto i legionari che combattono. A
impedire questo, occorre innanzitutto nei libertari la coscienza della insostituibilità della creatività
delle masse. Noi dobbiamo cercare in quella direzione, sottraendoci alla pressione di questa
perenne farsa tragica di giudizi di corti costituzionali, dove la guerra cino-viet, è solo un momento
tattico.
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