Rivista Anarchica Online
Il cerchio si chiude
di Gianfranco Bertoli (carcere di Badu e carros - Nuoro - 18.2.1979)
Rispetto ad un anno fa, quando pubblicammo un altro servizio sulle carceri ("A" 63), la situazione
carceraria si è un po' modificata - tenuto conto della strutturale staticità del settore. Da una parte
lo stato ha stretto la morsa del controllo sulle carceri e soprattutto sulle supercarceri, creando
nuove "sezioni a massima sicurezza", dotando i reclusori di apparecchiature di controllo sempre
più sofisticate, tendendo sempre più limitati i pur ristretti spazi di agibilità personale e di socialità
interna. Dall'altra, la presenza di un numero sempre maggiore di detenuti politicizzati ha favorito
l'estendersi di lotte anche durissime all'interno delle carceri, culminate con quelle dell'Asinara
nell'agosto/settembre '78. L'elevarsi della conflittualità ha provocato anche polemiche
differenziazioni fra i detenuti in lotta, alle quali abbiamo già avuto modo di fare riferimento
presentando sul numero di febbraio la lettera aperta di Fantazzini sui fatti dell'Asinara e sulle
polemiche conseguenti.
Da quando, a fine luglio '77, ha preso l'avvio la fase operativa del progetto "carceri speciali",
divenendo così di pubblico dominio la sua esistenza e passando ad essere da argomento di studio
e di dibattito per la ristretta cerchia degli "addetti ai lavori" ad oggetto di interesse di vasti settori
di "opinione pubblica", migliaia di parole sono state spese e sono scorsi fiumi di inchiostro.
Articoli di giornali, dibattiti, conferenze "reportages televisivi", manifestazioni pubbliche anche.
Eppure, nonostante l'ampia trattazione, nonostante si sia, un po' da tutte le parti, ampiamente
"sviscerato" l'argomento, non riesco a liberarmi dalla sgradevole sensazione che vi sia qualcosa
che è sfuggito a tutti. Qualcosa di nuovo, spaventosamente "nuovo" e diverso che ho talvolta
l'impressione di riuscire ad afferrare, di riuscire a capire, ma che poi mi lascia a mani e mente
vuote. Un "passaggio di qualità" nel microcosmo carcerario che mi è difficile catalogare con i
parametri di giudizio ai quali sono, come un po' tutti, volente o nolente, abituato e condizionato e
che non può non essere visto che come sintomo di una più ampia trasformazione del modo di
gestire la dominazione sociale e di perpetuare lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo ed i principi di
autorità e gerarchia dai quali, nel contempo, trae origine e si regge.
Ogni tipo di discorso sviluppato finora sulle "carceri speciali" (fatta eccezione, forse, per la
peraltro interessante ipotesi prospettatami un giorno da Horst Fantazzini, secondo cui con la
realizzazione di un "circuito" penitenziario differenziato si sarebbero volute predisporre le
condizioni e le strutture per l'eventuale incarcerazione e "neutralizzazione" degli oppositori nel
quadro della messa in atto di una versione "democratica" del famigerato "piano Solo" del fu De
Lorenzo) può venire, secondo me, considerato come riconducibile in partenza a due principali poli
di aggregazione di tesi e di analisi.
Ora, se in ambedue le antitetiche posizioni di partenza nel considerare il fenomeno "carceri
speciali", vi è una parte di verità e per sostenere ognuna di esse è possibile addurre
argomentazioni e "dati di fatto", non credo che sia metodologicamente corretto (per quanto si
possa "soggettivamente" essere portati a farlo) assumere acriticamente una delle due ed escludere
"a priori" di considerare quanto di oggettivamente vero può esservi nell'altra. Vi è da un lato chi
(pur con ampio ventaglio di giudizi ed opinioni, che vanno dall'encomio più incondizionato o,
addirittura, dalla richiesta di un maggior "rigore" e "severità", ad una posizione di critica
"umanitaria" per il metodo adottato in questa occasione, e tendente a proporre una conciliazione
tra le esigenze della "sicurezza" e quelle di un "trattamento" che non violi certi principi
costituzionali, certe "garanzie" ecc. ecc.) accetta senza esitazioni e fa sua la tesi secondo la quale
la creazione di carceri diverse dalle altre e definite "di massima sicurezza" è stata originata e trova
la sua ragione d'essere dalla condizione insostenibile in cui era venuto a trovarsi il sistema
carcerario tradizionale dalla necessità improrogabile di porre un freno al dilagare delle evasioni,
alle continue rivolte, ad episodi frequenti di violenza. Ora, anche se ci sarebbe molto da dire sul
modo in cui, attraverso la stampa e in genere i grandi mezzi di informazione, molti episodi siano
stati strumentalmente gonfiati e sopravvalutati in importanza e "gravità", è innegabile che il potere
si era trovato a dover gestire con una certa difficoltà un settore ove si manifestano carenze anche
vistose e ove soprattutto i metodi tradizionali di integrazione nell'istituzione di chi vi veniva
ammessa si stavano dimostrando del tutto obsoleti di fronte al diffondersi di un mutato
atteggiamento mentale, soprattutto non tanto come un mutamento d'umore di massa sotto
l'influsso di un'emozione collettiva (fenomeni di questo tipo c'erano sempre stati e possono, al
massimo, dar luogo ad un'esplosione reattiva violenta di breve durata), quanto come il risultato di
una somma di modificazioni individuali tra i singoli detenuti.
In sostanza, in passato l'atteggiamento e l'attitudine mentale predominanti tra i carcerati erano
intrisi di fatalismo e di rassegnazione quasi come di fronte ad una forza naturale o a quella di una
divinità. Non che mancassero di verificarsi eccessi di rabbia, momenti di protesta individuale o
anche collettiva, atti magari di autolesionismo, rancori, ecc. ecc.. Il singolo individuo poteva
ritenersi e dirsi vittima di un'"ingiustizia", di una "persecuzione", di un "errore giudiziario", ma
sempre in relazione ad una o più particolari circostanze. Quello che rimaneva inattaccato e mai
messo coscientemente in dubbio era il "diritto" dello stato a giudicare. L'operato e la personalità
di un singolo magistrato, di un collegio giudicante, di uno o più funzionari, potevano venir
criticati e anche disprezzati. Ma quando questo avveniva era proprio in quanto considerati indegni
del ruolo "sacrale" della funzione esercitata. Ogni invettiva contro la "giustizia" ed i suoi operatori
aveva, per chi la pronunziava, il sapore e il tono di una "bestemmia". E il bestemmiatore, si sa, è
un "credente" deluso, la bestemmia stessa non è che l'immagine al negativo della preghiera. Chi
subiva una condanna poteva certo ritenerla esagerata od ingiusta, ma non si sarebbe mai sognato
di mettere in dubbio il principio generale ed il diritto delle autorità a giudicare e condannare.
Piano piano, in maniera quasi impercettibile, si è andato però facendo strada un altro
atteggiamento, un modo diverso di considerare se stesso e la propria condizione, la tendenza
(spesso solo a livello inconscio) a vedere nell'apparato dello stato e nelle stesse leggi non più un
qualcosa di superiore e quasi "divino" verso cui si nutre del "rispetto", bensì un nemico, potente
quanto si vuole, un qualcosa nei confronti di cui il semplice fatto di trovarcisi in contraddizione
non conduce ad interiorizzare alcun "senso di colpa". È in questo processo di trasformazione della
mentalità media della "popolazione carceraria" che può individuarsi, secondo me, la causa
principale del "malessere" diffuso e delle difficoltà di gestire l'istituzione penitenziaria incontrate
dai prepostivi.
Quanto ad una analisi ed una individuazione dei fattori che hanno favorito questo fenomeno, si
tratterebbe di inoltrarsi su di un terreno e in un campo con implicazioni psicologiche e
sociologiche troppo complesse perché io possa qui arrischiarmici, con la pochezza di preparazione
e di mezzi che mi riconosco. Mi limito a constatare un dato di fatto di cui ho potuto rendermi
personalmente conto attraverso passate ed attuali esperienze carcerarie. Certo anche da parte dei
detentori del potere si è avuta una parziale percezione di tutto questo e si è creduto (forse sarebbe
meglio dire "voluto") di individuarne la causa principale nella presenza e nell'opera di proselitismo
attuata da questi. Questa spiegazione è a mio avviso di comodo e senz'altro superficiale e sotto
certi punti di vista addirittura puerile.
Senza negare infatti (come potrei?) che la vicinanza ed il dialogo con elementi di particolari
concezioni ideologiche possa influire, anche notevolmente, nel modo di pensare e anche di agire di
altri individui, rimane il fatto che ogni tipo di "predicazione" può svilupparsi e dare frutti solo su
di un terreno predisposto a raccoglierla.
Basta, credo, a riprova di questo, considerare quanto accadde nel ventennio fascista: vennero
allora immessi nelle carceri italiane numerosissimi oppositori. Si trovarono ad esservi richiusi, per
periodi più o meno lunghi, rappresentanti tra i più qualificati, preparati ed "autorevoli" di tutte le
componenti dell'antifascismo: anarchici, comunisti, repubblicani, socialisti, ecc. ecc.. Ebbene,
forse che per questa ragione i penitenziari italiani divennero focolai di antifascismo? Vi furono
forse episodi di detenuti cosidetti "comuni" che abbracciarono la causa dell'antifascismo e una
volta usciti si impegnarono in essa? A me non risulta e se accadde non può essersi trattato che di
casi isolati e non certo di un fenomeno generalizzato e "preoccupante" per il potere di allora.
Ritornando all'oggi e, per così dire, "in tema", avevo cominciato a considerare la tesi che vuole il
ricorso alle "supercarceri" come un mezzo per riportare alla "normalità" un settore che appariva
scosso, turbato e ingovernabile. Se così fosse, se solo di questo si trattasse, se, insomma,
l'intenzione fosse quella di tenere in piedi il sistema penitenziario tradizionale, tipico prodotto di
un particolare "modello" di società e di una particolare forma di rapporto di produzione e delle
modalità di gestione del potere che ne derivano, potremmo dedurne che l'espediente cui si è
ricorsi è quanto di più goffo, irrazionale e sbagliato si poteva realizzare. La creazione, infatti, di
un settore di universo carcerario, differenziato e sottoposto a norme e regole particolari e
"speciali" non può non portare progressivamente ad una sempre maggiore autonomizzazione del
"nuovo" rispetto al "vecchio" sistema originario. Come ogni nuova istituzione, il supercarcere
tenderà automaticamente a perpetuarsi ed a crescere prevaricando i suoi limiti fino ad assorbire
nella sua logica le strutture preesistenti.
Lo stesso principio ispiratore, poi, della creazione delle carceri speciali, essendo quello di
privilegiare in assoluto il concetto di "massima sicurezza", finisce, attraverso il corollario di norme
e di proibizioni che ne discendono, con l'ingenerare una serie di frustrazioni che non possono
(proprio perché l'eccesso di "misure preventive" non lascia spazio alcuno) trovare una
compensazione o un qualsivoglia tipo di "sublimazione", non può che condurre, quasi fatalmente,
ad un risultato: quello di un'interiorizzazione ed un'assunzione del ruolo suggerito ed imposto. Il
detenuto definito e trattato come "superpericoloso" non potrà che diventare ed accettarsi come
tale. Il supercarcere e le sue norme soffocanti finiranno per produrre proprio il tipo di individuo
per il contenimento del quale sono stati programmati. Il cerchio si chiude e l'istituzione produce
autonomamente la sua giustificazione e legittimazione. Va da sé che tutto conduce l'istituzione
stessa a darsi norme sempre più ferree e rigidamente osservate e fatte osservare, fino a non potersi
concretizzare e realizzare che come finalizzata ad un progetto di annientamento e di eliminazione
fisica e, a lungo termine, finire con l'autodistruggersi. Ad evitare di venir frainteso, preciso che
con questa mia "profezia" non intendo esprimere un'ottimistica convinzione che, in un futuro più o
meno lontano, la società gerarchica non si darà più mezzi e strumenti di repressione, bensì quello
che questi mezzi e questi strumenti saranno "diversi" e più spietatamente "funzionali".
Avevo accennato, più sopra, a due posizioni fondamentalmente antitetiche nel giudicare il
fenomeno "carceri speciali". Oltre a quella di chi accetta di considerare la questione partendo dal
dare per accettabile la versione governativa relativamente ai motivi di questo tipo di scelte in
campo di "politica carceraria", vi è chi ha rigettato in blocco questo tipo di "spiegazioni" e vede in
tutto il progetto "carceri speciali" l'avvio di un programma di annientamento e di eliminazione
fisica di quei prigionieri di cui lo stato si vuole sbarazzare perché troppo "ingombranti" e
pericolosi.
Essendomi già troppo dilungato nella prima parte di questa lettera, cercherò di essere il più
conciso possibile. Dirò quindi subito che non mi sento di abbracciare questa tesi. Anche se
"oggettivamente" il potere ha scelto di imboccare una strada "a senso unico" che può condurlo
fino a prospettarsi l'ipotesi di una "soluzione finale" del problema, non sono propenso a credere ad
una precisa volontà di arrivarci. Ciò non tanto perché io attribuisca agli attuali detentori del potere
una sensibilità a "valori umani" o a norme etiche ("debolezze", queste, contro le quali in ogni
tempo le classi dominanti sono risultate "vaccinate" ed immuni), quanto perché credo che,
nell'attuale momento, nessun uomo di potere potrebbe ritenere conveniente rischiare di perdere
quel consenso di massa e quella "credibilità" democratica che gli consentono, appunto, la sua
posizione.
Vero si è che nei momenti di "emergenza" e particolarmente nelle fasi, per forza di cose mai del
tutto indolori, di transizione da una forma di dominazione sociale ad un'altra, si manifesta sempre
(contemporaneamente ad una volontà di cambiamento e all'apparizione di aspirazioni ed istanze
libertarie tra gli oppressi), una tentazione da parte del potere al ricorso a soluzioni di tipo
"militare", ma questa è sempre una "estrema ratio" che finisce per dimostrarsi inutile e spesso
pericolosa.
In ultima analisi, la condizione per l'affermarsi e per il mantenersi di un potere si fonda sulla sua
capacità di garantirsi un certo grado di consenso, se questo grado di consenso (comunque
ottenuto o carpito) si abbassa oltre un certo livello il potere crolla. Né bastano a tenerlo in piedi i
più efficienti e perfetti apparati militari o di polizia. Basterebbe a provarlo l'esempio iraniano.
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