Rivista Anarchica Online
Infermiera: mestiere o vocazione?
a cura della Redazione
Mercedes lavora in una piccola clinica, solo da poco riconosciuta come ente ospedaliero
regionale: prima era di gestione privata. È ostetrica, la sua formazione è avvenuta invece in una
grande clinica ostetrica universitaria. All'interno del posto di lavoro ha condotto molte azioni
significative, alcune anche con risultati clamorosi (una riguarda l'applicazione della legge
sull'aborto). Mi è sembrato che intervistarla consentisse di aprire tanti discorsi con le donne che
lavorano in ospedale.
La maggior parte del personale paramedico occupato negli ospedali è costituito da donne. La
tua testimonianza a me sembra un bellissimo esempio di come, anche subordinata ed isolata, la
donna possa diventare un valido fattore di mutamento nell'istituzione. Vuoi raccontarcela?
Non credo che il tuo giudizio sia giusto, ma proverò invece ad esporti i miei problemi. Tralascio il
racconto, l'esperienza della scuola, in cui ci sono state delle lotte, ma in fondo poco significative.
Voglio dire che in una grande istituzione i termini di contrapposizione sono più netti, ed in fondo
il personale può ritagliarsi i suoi spazi, una volta che ha svolto il suo compito, compito che è
rigorosamente fissato dal suo ruolo. Nei margini, negli spazi che ti lasciano, tu puoi, in fondo, fare
quello che vuoi. L'esperienza più significativa di allora per me non sono state tante le lotte nel
convitto quanto il piccolo gruppo in cui ho incominciato a conoscermi, a pormi dei problemi, che
mi hanno consentito, di trovare naturale, quasi un mio modo inevitabile di essere, il rivendicare i
miei diritti. Per esempio l'ultima battaglia che ho fatto in clinica, perché i turni non superassero le
otto ore, partiva da un mio bisogno di non fare turni più lunghi, da una mia intolleranza al modo
con cui si lavorava: intolleranza che trovavo, come dire? logico esprimere attraverso il rifiuto, la
lotta.
Ti dicevo dunque, vorrei invece analizzare con te alcune esperienze della mia venuta in clinica.
Innanzitutto il corso: un corso di preparazione al parto psico-profilattico, che io ho chiesto,
sostenuto, di cui ero responsabile. Questo corso è stato molto importante per me, perché mi
consentiva di avvicinare molte donne, stupite di trovare un tecnico che parlasse con loro da donna
a donna e non dall'alto di una cattedra, un corso che mi ha avvicinato a molte storie di donne. Un
momento bellissimo, per tutte. Come tutte le cose, però, il corso doveva evolversi se non voleva
divenire un'istituzione, una burocratizzazione, un momento di informazione, utile, ma non certo
liberatorio. Io avvertivo questo pericolo, insieme all'isolamento in cui portavo avanti l'iniziativa. I
miei colleghi non venivano quando dovevano tenere le lezioni, arrivavano tardi, lavoravano male.
Alla fine tutto ricadeva su di me, capisci? Anche i colleghi compagni si comportavano così. Mi
sembrava di essere l'unica a capire il significato del corso, a prendermi a cuore i problemi delle
donne. Uno dei loro problemi era la solitudine in cui portavano avanti la gravidanza, il parto:
senza nessuna vera collaborazione del loro compagno.
Così mi parve naturale proporre al corso un'opportunità: che i mariti partecipassero al corso, e poi
al parto. La mia proposta però trovò molta incomprensione: molti mariti non erano disposti a
partecipare al corso, ci venivano "per far piacere alla moglie", altri avevano paura della sala parto
"se vedo mia moglie così, magari mi viene un trauma e non riesco più a far l'amore con lei", mi ha
detto uno. Io, non so perché, mi arrabbiavo moltissimo con questi uomini, con questi "poveri
operai" che non volevano essere responsabilizzati, coinvolti, ma che trovavano "naturale" che la
moglie si desse da fare, venisse al corso, soffrisse durante il parto. Fare figli è un lavoro da donne,
capisci? Ma se il figlio è anche tuo, è anche tuo dovere di uomo collaborare con la tua donna, no?
Molti poi avrebbero voluto entrare in sala parto, ma del corso non ne volevano sapere.
Adducevano la scusa del lavoro, in realtà ritenevano ridicolo fare una battaglia in fabbrica per
ottenere tre, quattro ore di permesso per prepararsi a diventare padri. Ma che cosa avrebbero
potuto fare in sala parto se non si fossero preparati prima a capire quello che stava succedendo?
Magari sarebbero stati di ostacolo, di ingombro. Se si fossero preparati, nei momenti difficili,
vicino alla moglie, potevano ricordarle come rilassarsi, aiutarla a respirare nel modo giusto, ma
impreparati avrebbero solo aggiunto nervosismo. I miei colleghi non capivano questo mio
insistere che i padri partecipassero al corso, nemmeno molte donne lo capivano: e se non si
battevano loro, se loro erano complici dei loro compagni, se vedevano solo un femminismo
esasperato nella mia proposta, che potevo fare io? Così ho capito che se la donna vuole rimanere
schiava, tu non la puoi liberare, che è sempre chi paga, in prima persona, che deve darsi da fare,
ribellarsi. Ho lasciato perdere il corso, c'è ancora, ma a me sembra ormai un'istituzione, svuotato
del suo significato più profondo. Poi ci sono state le vicende dell'aborto, le denunce per
istigazione a disattendere alla legge, la nostra vittoria in tribunale, ma rispetto alla sconfitta subita
con il corso mi sembrano poca cosa.
La ritieni una sconfitta definitiva? Non pensi che è legata a molti fattori, ad esempio al fatto che
le donne si presentavano in ospedale solo nel momento in cui erano incinte, ma non avevano con
l'ospedale altri rapporti?
Forse: per questo sto preparandomi a un corso per lavorare nei consultori familiari, ma forse è
un'illusione sperare che lì ci siano maggiori possibilità...
Attualmente, forse per frenare la tua rivendicazione sui turni, ti hanno promosso caposala, ma
nel frattempo ti hanno trasferito dal reparto ostetricia alla sala culle. Come ti trovi, quali
problemi incontri, come pensi di risolverli?
È una situazione delicata ed imbarazzante: molte cose non vanno, il personale lavora male, sembra
non gliene importi niente dei neonati. Mi sono trovata a passare da una situazione in cui mi
mettevo totalmente dalla parte del personale ad una in cui ho verso le colleghe puericultrici una
forte ambivalenza. Mi trovo a pensare che la scarsa paga, lo sfruttamento, non giustifica il fatto
che se ne freghino dei bambini: c'è una grande trascuratezza, capisci? Al punto che non si lavano,
provocano eczemi.... Ma come posso far loro capire l'importanza del loro lavoro senza impormi in
modo arrogante ed autoritario?
Non pensi che delle riunioni periodiche del personale consentirebbero di far questo?
Anche le riunioni debbono essere imposte, perché il personale non ne sente il bisogno. Ho cercato
di parlare con le colleghe, di discutere il loro rapporto con il bambino, di capire perché non
prendono certe precauzioni (ad esempio perché non mettono la cuffia, non portano la mascherina
quando hanno il raffreddore). Mi hanno risposto con un'alzata di spalle.
Forse avvertono il loro lavoro come tanto degradato che non pensano di avere le loro
responsabilità. Pensi che l'essere donne incida in modo particolare su questo?
Non mi è chiaro. Forse la donna è meno portata a sentire il lavoro come suo, è stata abituata a
vedersi realizzata solo nella famiglia, per questo le mie colleghe forse coccolano i bambini come
gioco, li spupazzano, ma poi non si preoccupano dell'igiene, come a dire: giocano un ruolo
"materno" senza preoccuparsi della professionalità. Addirittura mi viene il dubbio che il rifiuto
della cuffia sia il rifiuto a qualcosa che le imbruttisce o rovina loro la permanente.
Ancora quindi assenza di professionalità.... Del resto molte portano civettuole cuffiette piazzate
in cima al capo e lasciano cadere sul bimbo o sul malato capelli spioventi ed infetti: queste forse
sono lige al regolamento, ma non si rendono conto dei motivi nemmeno loro, ti pare? In fondo
alla sciatteria forse c'è un'inconscia ribellione....
Vorrei che fosse così: ti saprò dire fra qualche mese.... Certo che non è con questo tipo di
ribellione che cambi le cose.
Certo.
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