Rivista Anarchica Online
Ruba compagno ruba
di Fausta B.
Milano, un mercoledì sera. Come sempre ci troviamo nella redazione di "A" dopo aver cenato
tutti insieme nella trattoria all'angolo dove l'Eugenia (che ormai ci considera suoi figli adottivi) ci
rimpinza a dovere. Stiamo lavorando, un po' appesantiti e stanchi dopo una giornata di lavoro e
dopo il pasto affrettato, quando sentiamo un gran vociare nella strada. Ci affacciamo incuriositi
alla finestra: s'è formato un capannello di gente che non ci permette di vedere, ma sentiamo
qualcuno che urla di chiamare la polizia. Allora tutti ci precipitiamo.
Proprio di fronte alla redazione c'è un negozio in cui abita una numerosa famiglia di meridionali.
Una squallida tenda a fiori è l'unico riparo alla loro privacy, ma spesso ci capita di dover
ascoltare, nostro malgrado, gli echi di furiosi litigi prodotti dalla miseria e dall'ignoranza. Ebbene,
proprio questa famiglia aveva colto sul fatto poco prima un ragazzo che stava rubando il loro
motorino. Arriviamo nel bel mezzo della bagarre. L'uomo di casa sta picchiando sonoramente il
ragazzotto e intanto grida agli altri di chiamare la polizia. Ovviamente interveniamo subito,
immobilizziamo l'uomo, facciamo "casino" per dar modo al ragazzo di scappare e poi cerchiamo
di far capire al derubato e alla gente accorsa che chiamare la polizia non risolverebbe nulla,
eccetera, eccetera.
La spuntiamo noi, la polizia non viene chiamata e noi ritorniamo al nostro lavoro soddisfatti per il
nostro intervento, per il ragazzo che se l'è cavata con qualche cazzotto ed anche per quel povero
disgraziato che non ci ha rimesso il suo motorino. Il giorno successivo ritorniamo in redazione e ci
ferma l'Eugenia. "Avete fatto proprio una bella azione ieri sera" ci dice ironicamente. "Sapete cosa
ha combinato quel ragazzo dopo? È andato a casa di una vecchietta, l'ha derubata di quei quattro
soldi che aveva e l'ha buttata giù dalle scale!". Non c'è bisogno di dire che siamo rimasti malissimo
e che, se l'avessimo potuto avere fra le mani, gli avremmo volentieri dato una lezione a suon di
sberle.
Probabilmente quel ragazzo avrà avuto bisogno di soldi o avrà creduto di averne bisogno (per
comprarsi magari un paio di jeans di marca, o un paio di stivaletti alla moda, o per andare in
discoteca, o per comprarsi una dose) ma niente, proprio niente può giustificare la guerra tra
poveri, nemmeno il discorso, a noi tanto caro, della società bastarda che è colpevole di tutto. Un
livello, seppur minimo, di responsabilità individuale credo sia indispensabile per rientrare nella
categoria degli esseri umani.
Ovviamente questo che ho raccontato è solo uno dei mille episodi che giornalmente avvengono,
soprattutto nelle grandi città dove il processo di degradazione (non solo ambientale) ha raggiunto
stadi avanzati. Ma se fino a un po' di anni fa potevo almeno pensare che l'area rivoluzionaria fosse
qualitativamente e umanamente migliore, che costituisse l'embrione di una nuova società retta da
principi e da valori non codificati ma sentiti e condivisi, ora non ne sono più tanto sicura. Molte
sono le cose che hanno messo in dubbio questa mia certezza e che vorrei provare a discutere per
chiarirmi/ci le idee.
Innanzitutto l'ideologia del furto che si è diffusa a macchia d'olio nell'ambito rivoluzionario.
Intendiamoci bene. Esistono diversi livelli e diversi aspetti del furto. Una distinzione potrebbe
riguardare le motivazioni.
Esiste chi ruba per sfamare sé o la sua famiglia perché in quel momento non ha altre possibilità, e
non c'è bisogno di dire che il suo agire è sacrosanto. Esiste chi ruba per rimpinguare le casse di
organizzazioni rivoluzionarie assumendosi in prima persona i rischi e le responsabilità. Si tratta, in
linea teorica, di una scelta di tutto rispetto, ma nella pratica sappiamo che sono esistiti ben pochi
esempi di militanti - ladri all'occasione - che poi sono tornati a fare i militanti (mi viene in mente
solo Durruti). Spesso, invece, si corre il rischio di diventare dei "professionisti", di lasciarsi
prendere dalla logica "malavitosa" e di perdere quindi di vista i motivi etici iniziali. Esiste chi ruba
esattamente come potrebbe fare carriera in una azienda, cioè per desiderio, conscio o inconscio, di
uscire dalla sua classe e di entrare a far parte di quella superiore dei padroni, cioè dei ladri
legalizzati. Esiste infine chi ruba per sé come forma di ribellione verso un sistema ingiusto con la
coscienza più o meno precisa di prendersi ciò che gli spetta.
In linea generale, proprio perché si tratta di una forma di ribellione sotterranea, questo potrebbe
essere considerato un fenomeno positivo, ma proviamo a prenderne in considerazione alcuni
aspetti.
1. Cosa si ruba. Si tratta in genere di beni "voluttuari" o considerati tali: i cibi più costosi, capi di
abbigliamento alla moda (periodicamente i negozi tipo Fiorucci sono oggetto di espropri di
gruppo, soprattutto durante le manifestazioni), macchine fotografiche, ecc.. Ora, il desiderio di
avere beni di questo tipo in sé e per sé e cosa comprensibile, ma io non posso impedirmi di
sentirmi a disagio quando questi desideri vengono espressi da "rivoluzionari" e quando si spaccia
il loro soddisfacimento come "pratica rivoluzionaria", perché ho la sensazione che tutto questo
rientri perfettamente nella logica del sistema che è riuscito a massificare persino i gusti dei
rivoluzionari e a farli agire in un ambito del tutto "privato".
2. Come si ruba. Individualmente "di nascosto", in modo circospetto, in una atmosfera di falsità
diffusa che diviene, nella pratica quotidiana, l'atteggiamento sfuggente e ambiguo di chi disimpara
a guardare negli occhi. Io non ho mai amato la finzione, e credo sia un prezzo da pagare solo per
cose ben più importanti. Collettivamente in modo aperto, con il coraggio che ormai purtroppo
riesce a dare solo il gruppo, il sentirsi le spalle coperte, il sentirsi parte del gregge. Sarà che io
sono un po' individualista (seppure organizzata, nel senso che ho sempre lavorato in un piccolo
gruppo), ma non mi sono mai sentita a mio agio negli ambiti numerosi (assemblee, manifestazioni,
ecc.) perché ho sempre verificato che in queste situazioni scattano i meccanismi della psicologia di
massa: l'individuo cessa di essere se stesso, diventa pecora tra le pecore, scatta il gregarismo,
scatta il leaderismo.
3. A chi si ruba. Mi sembra che nell'ambito rivoluzionario la pratica del furto in grande stile ai
ricchi (per intenderci come faceva Marius Jacob alias Arsenio Lupin) sia decisamente caduta in
disuso. Al contrario, si è enormemente diffusa la pratica dei "furtarelli" per soddisfare esigenze
puramente individuali. È un fatto, comunque, che chi ruba non fa nessuna distinzione, anzi di
solito preferisce farlo dove è più facile, dove minori sono i rischi, per cui spesso finisce per rubare
proprio ad altri compagni. Se, come è accaduto, ad una festa anarchica per il primo maggio
organizzata con fatica e a cui era presente solo l'area libertaria, vengono "espropriati" libri, bibite
e torte, questo può essere considerato un atto rivoluzionario? Se ospiti un compagno di
passaggio, gli lasci le chiavi di casa e questo se ne va con libri, una coperta o qualche altra cosa,
bisogna considerarlo un atto rivoluzionario? Se da una sede anarchica spariscono soldi e cose, chi
le ha trafugate può essere considerato rivoluzionario? Se i soldi ricavati dalla vendita della rivista
vengono utilizzati per comprarsi una moto o per pagare l'affitto di una sede anarchica perché i
compagni non si sentono di rinunciare a qualcosa per pagare l'affitto di tasca propria, questo si
può definire un comportamento rivoluzionario?
Io credo che questi "coraggiosi" individui di rivoluzionario non abbiano proprio nulla, se non
fosse l'abbigliamento sinistrese standardizzato, credo siano tanti manichini completamente vuoti.
Mi fanno una gran pena e una gran rabbia, pena per la loro esistenza così stupidamente inutile,
rabbia perché hanno avuto tutti gli strumenti per capire e non hanno capito proprio niente.
4. Perché si ruba. Non a caso l'ideologia del furtarello si è diffusa nella sinistra negli ultimi anni,
cioè con la "caduta delle illusioni", con il conseguente rifiuto dell'impegno politico, con la
riscoperta del privato. Tutta una serie di valori sono stati buttati alle ortiche ma senza essere
sostituiti, se non dal principio, estremamente discutibile, del benessere complessivo individuale.
Come se fosse possibile "stare bene" in un vasetto di vetro sterilizzato. E poi, li vedi ogni giorno
questi fantasmi svagati della sinistra, li riconosci a colpo d'occhio, un po' per il loro abbigliamento,
ma soprattutto per la loro aria un po' infelice, un po' rassegnata, un po' vacua, un po' (tanto)
spenta.
Costituiscono una società nella società, un ghetto nel ghetto. Il furtarello credo abbia per loro due
funzioni: da un lato fornirgli i beni di consumo che desiderano senza fatica, dall'altro fornirgli quel
brivido che dà il fare qualcosa di illegale, l'aver "fregato" qualcuno. La filosofia che sottende
questo comportamento è quella del "tutto mi è dovuto - tutto mi spetta", è quella, in sintesi,
dell'assistito. A casa, per la maggior parte hanno la mamma (quella stronza) che gli lava i calzini e
il papà (quello pirla) che gli passa il mensile, ma i soldi, si sa, non bastano mai. Il desiderio di
libertà e di indipendenza manco li sfiora. E sono talmente sicuri di essere furbi che considerano
coglioni quelli che non si comportano come loro, quelli ad esempio che lavorano per vivere e
magari lottano sul posto di lavoro, quelli che si ostinano a fare militanza per cercare di modificare
la realtà. Loro, il tempo libero lo dedicano a ben altro. A suonare la chitarra, a trovarsi nei locali-ghetto della sinistra (a quanto mi si dice frequentatissimi), a sproloquiare sulle loro "menate
personali", a sentire corsi di animazione o di mimo o di riappropriazione del corpo. Buon pro gli
faccia. Sono, tutto sommato, esattamente quelli che io non vorrei mai avere come compagni di
strada se potessi/dovessi costruire domani una società libertaria. Pallide ombre senza spina dorsale
e senza idee.
Credo proprio che dovremo cercarci i nostri interlocutori altrove.
|