Rivista Anarchica Online
Il nostro progetto
di Federazione Anarchica Italiana - Palermo
Dibattito violenza
Ai nostri giorni stiamo assistendo ad un profondo cambiamento del concetto di "stato".
Quest'ultimo tende a diventare, infatti, sempre più espressione di se stesso, piuttosto che essere,
come nel passato, espressione degli interessi di una classe dominante, che schiaccia le altre classi e
che, con metodi più o meno rozzamente violenti, opprime i singoli. Lo stato tende oggi ad essere
totalizzante e solo nel suo ambito di definizione ha senso parlare di interesse, di ruolo, di scopo, di
progettazione. Tutto quello che all'interno dello stato non è definito, va diventando privo di senso.
Non solo, ma lo stato si prende cura di essere garante delle esigenze che esso stesso promuove e
giustifica, presentandosi come l'unico possibile fornitore della probabilità di soddisfazione.
Alla luce di questo assunto, i cittadini si vanno configurando non più come cellule di un
organismo alle quali sia consentito di conservare una certa qual propria individualità (vedi stato
liberale), bensì come frammenti organizzati nelle categorie, che sono il fondamento primo dello
stato e attorno alle quali ruota tutta la sua organizzazione. Tutti i gesti, tutte le azioni che
quotidianamente l'individuo compie, tendono a confluire, attraverso il ruolo, nella categoria. La
sopravvivenza di ciascun uomo appare rigidamente legata a quella della categoria d'appartenenza
e, per ciò stesso, allo stato.
È chiaro che questo processo, che vede lo stato porsi come entità totalizzante e garante, per certi
versi non si è ancora completamente compiuto.
Se è corretto quanto sin qui detto, quali sono le possibilità di quel tipo di lotta che da un po' di
tempo a questa parte va definendosi come lotta armata? Quali sono le possibilità, sotto
un'angolazione anarchica, che questo tipo di lotta porti ad un ribaltamento dell'attuale stato di
cose?
Se è vero che per un anarchico l'unica rivoluzione è quella sociale (cioè quella che passa
attraverso la coscienza del singolo uomo che, rivendicando per ciascuno la propria individualità,
cambia la società), e non una rivoluzione politica che si estrinsechi solamente in un cambiamento
dei vertici dello stato e delle istituzioni, allora la lotta armata, in una situazione come quella
attuale, diventa inutile, anzi dannosa alla causa della rivoluzione anarchica.
Gli omicidi politici - e tutti gli omicidi sono oggi interessatamente interpretati in chiave politica -
ormai quasi quotidiani, hanno portato gli uomini ad una sorta di indifferenza davanti alla morte di
altri uomini. La morte, anzi, purché violenta, sembra indispensabile alla vita dello stato, un
sacrificio dovuto, garanzia di vita per la categoria di appartenenza del cadavere, tributo doveroso
allo stato, divenuto così un moloch ed un Saturno che si ciba dei suoi figli. Né la lotta armata
riesce a smascherare le istituzioni, "spingendole verso destra": l'esperienza dimostra, infatti, come,
nella realtà, in certe situazioni, siano i cittadini stessi a spingersi più a destra dello stato. Inoltre, la
tendenza ovvia del terrorismo, per non cadere nel "già visto", è quella di alzare il livello degli
attentati. Ciò richiede elevata professionalità ed efficienza. L'organizzazione diventa, così, rigida e
disumana, più ancora dell'organizzazione statale che vuol combattere. Non per nulla i più bravi a
praticare la lotta armata sono proprio coloro che hanno una visione ascetica di se stessi e della
propria missione, immersi come sono nella fede cieca della bontà delle proprie idee, poste al di
sopra di se stessi e degli altri. Gli armamenti necessari e la professionalità richiedono sempre più
appoggi, guarda caso, di stati che forniscano mezzi tecnici e finanziari, addestramento e coperture
di vario tipo.
Mentre questa logica è alla base di organizzazioni di tipo stalinista, è invece estranea a quelle di
tipo libertario, malgrado queste ultime, per il tipo di struttura che presuppongono, hanno molte
più esigenze di mezzi e di "professionalità".
Quanto detto serve a ribadire come in questa fase storica la lotta armata non è praticabile come
mezzo per giungere alla rivoluzione sociale. Questa scelta, inoltre, così definitiva, presuppone
anche una serie di condizioni storiche sul piano internazionale che ne permettano uno sbocco
meno episodico.
Ci sembra peraltro paternalistico sostenere che coloro che praticano la lotta armata siano
"compagni che sbagliano". La lotta armata è una scelta politica che si può condividere o non.
Essa, come qualsiasi scelta complessiva, è totalizzante per chi la attua. Ogni valutazione va
pertanto inserita nella globalità della scelta, e non si possono - perché fuorvianti - trarre
conclusioni dalle singole pistolettate.
Chi poi ha fatto una scelta che presuppone nell'esistente condizioni tali da rendere la lotta armata
oggi scardinante, non può certo pretendere solidarietà da chi non condivide la scelta del campo
sul quale scontrarsi con lo stato. Se questa solidarietà ci fosse, sarebbe o asettica - e perciò
umiliante per il lottarmatista - o tanto coinvolgente da finire col portare a sposare le tesi della lotta
armata chi non le condivide.
Se - come noi riteniamo - il processo di identificazione fra individuo e istituzioni è la massima
aspirazione di ogni stato contemporaneo, la lotta armata oggi funge da catalizzatore per questo
processo. Né dubitiamo peraltro che questo meccanismo sia conosciuto a governanti vecchi e
nuovi: ne è palese conferma il sempre più frequente ricorso alla tecnica delle retate nell'area
antistituzionale e di opposizione in generale, onde spingere verso scelte definitive e ampiamente
previste dagli organi repressivi dello stato.
Appare oggi più che mai scoperto il gioco dell'apparato di potere: far passare per reale, nei termini
di una introiezione collettiva, la fittizia equazione: area del dissenso o dell'opposizione
antistituzionale eguale area del terrorismo e della lotta armata, ovvero: oppositori eguale
terroristi. In un quadro del genere, la posizione degli incerti diviene funzionalmente inaccettata da
ambedue i campi; negato ogni margine al dubbio, non rimane che l'obbligatorietà dello
schieramento bipolare, manicheistico. Molti di coloro che, in condizioni appena meno asfittiche,
rifiuterebbero di soggiacere alla logica di una tale alternativa, sono così sospinti, da motivazioni
irrazionali - rese convincenti, nell'una direzione come nell'altra, e dalla realtà del contesto politico
e dalla dinamica del progetto repressivo statale, che si basa, soprattutto, sulla creazione di sempre
più ampi spazi di "terra bruciata" - ad un'opposizione inautentica, ambigua e comunque, oggi
come oggi, dal nostro punto di vista, suicida: si tratti dell'adesione alle istituzioni o alla lotta
armata. Sottrarsi perentoriamente alla logica di un tale aut aut ci sembra, come anarchici,
necessario e indispensabile. Occorre piuttosto indirizzare le nostre intelligenze verso la
puntualizzazione di un progetto fondato sulla nostra storia e sul nostro patrimonio teorico - e che
tuttavia né superi limiti e inattualità - capace di scardinare il reale e di rendere praticabile l'utopia.
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