Rivista Anarchica Online
L'esperienza portoghese
di Gruppo editoriale della rivista anarchica A Ideia
Origine e sviluppo del processo
La caduta del regime dittatoriale di Caetano ha permesso lo sviluppo di un vasto movimento
sociale, costituito soprattutto da lavoratori, che ha scosso tutte le strutture di potere della società.
Dopo cinque anni esiste ancora un settore economico, detto di "proprietà sociale", costituito da
imprese gestite da lavoratori sotto forma "cooperativa" o "autogestionaria", che conta circa
90.000 posti di lavoro. Se questa cifra non rappresenta più del 3% della popolazione attiva è
tuttavia proprio la sua esistenza, in pieno sistema capitalistico, che ci spinge ad analizzare
rapidamente alcune delle sue caratteristiche. Le forze politiche che emergono con il 25 aprile 1974 praticamente
non si preoccupano di darsi
una qualunque prospettiva rivoluzionaria o di socializzazione dei mezzi di produzione. Esse
vogliono soprattutto assicurare le libertà politiche fondamentali, abbandonare le colonie e
promuovere uno sviluppo economico maggiore. Per questo il partito comunista, ad esempio,
attacca le prime discussioni sulla nozione di autogestione definendola come "lo sfruttamento dei
lavoratori fatto da essi stessi"! È invece l'azione autonoma dei lavoratori nelle aziende, innescata
da militanti politicizzati della base e largamente seguiti, che ha cambiato molto presto la natura
delle lotte conferendo loro un carattere più spiccatamente anti-capitalista. Dopo qualche esitazione, la
reazione della borghesia si precisa: dopo gli avvenimenti del 28
settembre '74, inizia il sabotaggio economico del padronato sotto forma di serrate e
licenziamenti, di fughe di capitali, ecc.. Bisogna dire che tutte queste azioni non erano politiche:
è un fatto che gli aumenti salariali e le altre conquiste strappate nei primi mesi hanno "strozzato"
economicamente parecchie piccole imprese non redditizie. Di fronte a questa situazione, dalla fine del '74 fino
al '76, si sviluppa un movimento di
occupazioni di aziende da parte dei lavoratori, nella maggior parte dei casi per preservare il loro
posto di lavoro. I lavoratori prendono in mano la gestione delle aziende e le rimettono in moto. È
quello che viene chiamato il movimento di occupazioni e d'autogestione, sostenuto politicamente
dall'estrema sinistra e, con alcune reticenze, dal P.C.. Il potere politico, molto instabile, accorda
una certa copertura a questi fatti senza cercare di controllarli. Ma a questo movimento (essenzialmente
industriale) ne sono mescolati altri due che è necessario
cercare di distinguere chiaramente perché rappresentano altre realtà: da un lato si sviluppa un
processo di controllo operaio nelle grandi imprese e nei principali settori economici, nettamente
politicizzato e sotto l'influenza del P.C.. Questo movimento tende verso la concentrazione
economica e la nazionalizzazione come mezzo per distruggere i monopoli finanziari e rimettere
le redini dell'economia nelle mani del potere politico. È così che, dopo l'11 marzo 1975, vengono
nazionalizzate le banche e le assicurazioni, i trasporti, l'energia, l'industria di base siderurgica e
chimica, e quasi tutte le grandi imprese; inoltre lo stato interviene finanziariamente in un altro
centinaio di imprese. Il secondo processo differenziato è quello che si verifica nell'agricoltura a
sud del fiume Tago e verrà chiamato la riforma agraria. Questa si concretizza nell'occupazione
e
nello sfruttamento collettivo di grandi proprietà terriere da parte dei salariati agricoli, i braccianti,
che fino ad allora erano nella condizione di lavoratori precari. Anche se l'inquadramento politico
di questi due fenomeni non è lo stesso, resta il fatto che la loro portata ha largamente superato i
lavoratori interessati per diventare un polo di discussione decisiva nella lotta delle forze politiche
per il controllo dell'apparato di stato.
La situazione attuale
Oggi questo settore autogestionario si è indebolito rispetto al 1976 e ciò è dovuto ai
cambiamenti
politici verificatisi nel potere statale e al ritorno della maggior parte del padronato tradizionale.
Malgrado ciò esso continua ad avere una dimensione importante nell'agricoltura dove, del resto,
continua ad essere vivacemente attaccato (vedi tab.). Quindi, in totale circa 90.000 lavoratori e 1.300 imprese.
Come si vede per le imprese agricole la
media dei posti di lavoro è di 150 e quindi corrisponde sempre a grandi aziende costituendo un
settore economico importante. Vi sono due tipi di impresa: le U.C.P. - unità collettive di
produzione - in cui predomina l'influenza del partito comunista, e le cooperative, sia indipendenti
sia vicine al partito socialista, ma con un funzionamento e una situazione economica e giuridica
molto simile. Invece le aziende industriali o di servizi hanno una media di posti di lavoro più bassa: circa
33, e
questo dimostra quanto sia marginale il loro peso economico e ci fornisce l'immagine del tipo di
azienda in cui questo processo ha potuto decollare: industrie a bassa composizione organica di
capitali, spesso basate su un lavoro qualificato tradizionale (cantieri, tipografie, ecc.). Le difficoltà di
sopravvivenza di queste imprese sono diverse e molte di esse sopravvivono oggi
grazie all'insistenza e al volontarismo dei lavoratori, a volte compensate da un certo successo
economico. Essendo circondate più da indifferenza che da ostilità, oggi le loro difficoltà
sono
soprattutto dovute a) a problemi di credito, poiché il sistema bancario (nazionalizzato) non fa
loro alcun "regalo"; b) a problemi giuridici, litigi con i vecchi proprietari, debiti, imposte, ecc.; c)
infine a problemi specificamente economici, di approvvigionamento e di mercato, e qui è il
caso
di notare la difficoltà nello stabilire legami inter-cooperativi capaci di trarre profitto da alcune
complementarietà e dare una solidità maggiore a tutto il settore; quello che gli anarchici
chiamerebbero legami di solidarietà federativa. Se il settore produttivo autogestionario e cooperativo
attuale non è capace di incidere sui
meccanismi economici, non bisogna dimenticare le trasformazioni nate nei rapporti di lavoro tra
i lavoratori interessati. In generale vi si trova un certo egualitarismo acquisito certamente
durante le lotte comuni. I salari non sono molto differenziati, malgrado il mantenimento di alcune
qualifiche, e gli "utili" sono pressoché uniformi. Si può anche dire che nella maggioranza dei casi
regna una vera democrazia diretta: gli organi di gestione sono eletti e revocabili in qualsiasi
momento; le assemblee generali sono sovrane e normalmente si riuniscono una volta la
settimana, ecc.. Questo però non ha impedito che raramente l'organizzazione - anche del lavoro -
ereditata dai capitalisti venisse messa in discussione. Normalmente si sono mantenute le
procedure, la divisione del lavoro e le qualifiche di prima, e questo ha finito per introdurre sottili
conflitti. Le collettività agrarie ne sono l'esempio: collettivismo spinto, ma anche la segregazione
"tradizionale" delle donne.
Qualche lezione da trarre
Come in Spagna nel 1936, è stato il bisogno immediato che ha spinto la maggior parte dei
lavoratori a prendere il controllo dei mezzi di produzione. Ma questa volta, a differenza del caso
spagnolo, non esisteva il clima ideologico libertario, il bagno culturale di un ambiente anarchico,
per fornire un modello di società da costruire. In queste condizioni una prima conseguenza
importante è stata la possibilità di strumentalizzazione politica di questi movimenti
autogestionari da parte dei partiti e di altre forze politiche nella lotta per il potere statale. Il criterio
anarchico secondo cui le assemblee generali dei lavoratori sono sempre in grado di
impedire la manipolazione e il controllo in un'ottica di potere deve - noi lo pensiamo seriamente -
essere messo fortemente in discussione. Così come le altre regole abituali della democrazia
diretta (revocabilità, delegati, ecc.) svuotate di significato dalla pratica di manipolazione e di
infiltrazione dei gruppi politici organizzati. Una seconda considerazione che possiamo trarre dal caso portoghese
è che una ideologia
produttivista-consumistica (molto presente nella generalità delle classi operaie europee) non è
stata intaccata. Risulta con evidenza che l'interiorizzazione dei valori del mercato, della
competizione e dell'arrivismo ha largamente sopportato gli assalti della realtà socio-economica.
Nella maggior parte dei casi i lavoratori autogestionari partivano anch'essi alla ricerca di una
serie di valori e di consumi borghesi e non si muovevano, invece, in una prospettiva di
soddisfazione dei bisogni. Malgrado l'esistenza di alcune condizioni favorevoli non c'è mai
stato
un movimento cosciente alla ricerca di una alternativa economica e sociale che non fosse nella
logica di stato. L'esperienza dei kibbutzin non è stata ripresa. Infine, l'autogestione è apparsa
come "impossibile" nei grandi settori decisivi dell'economia e a
partire da una certa dimensione di impresa. Dimensione, tecnologia, organizzazione, capitali -
ecco i fattori che sono apparsi determinanti per l'ipotesi autogestionaria e che devono farci
riflettere. In conclusione si può dire che l'esperienza autogestionaria portoghese ha innegabilmente degli
aspetti positivi a dispetto di tutti i condizionamenti. Ma anche il suo fallimento deve essere
analizzato attentamente perché ci sembra evidente che in assenza di un ambito culturale marcato
da valori libertari (o, se si vuole, di un progetto sociale) l'autogestione può essere un utile
strumento per esercitare un controllo politico in vista del potere di stato, e può mettere in moto
aspirazioni anti-sociali del tipo consumo-produzione-alienazione.
Agricoltura |
60.000 lavoratori |
400 imprese |
Pesca
Cantieri navali Industria Commercio Servizi manuali Servizi non
manuali |
1.000 " 5.000 " 15.000 "
1.000 " 5.000 " 3.000 " |
900
imprese |
|
30.000 |
|
|