Rivista Anarchica Online
Autogestire quale tecnologia?
di Dario Paccino
Uno spettro, assicurava Marx, s'aggira per l'Europa, lo spettro del comunismo. Sono passati da
allora più di 130 anni, e pensiamo che se ci fosse dato di intervistare quello spettro, e chiedergli
se gli sia riuscito di materializzarsi, pensiamo che ci direbbe, volendo essere sincero, che una
materializzazione, sì, c'è stata, ma, anziché del comunismo, in un capitalismo del tutto
identico a
quello tradizionale per quanto concerne lo sfruttamento dell'uomo e la repressione del dissenso,
con la differenza che i nuovi capitalisti, quelli rossi, non si limitano a condizionare lo stato: si
sono fatti stato, un po' come se Agnelli, in Italia, fosse anche presidente del consiglio e della
repubblica. Sappiamo che il fenomeno è spiegato in modo diverso. C'è chi dice: "Come poteva
finire
altrimenti, se Marx, classico borghese tedesco, non ha mai capito niente di comunismo, che non è
statalismo, ma liberazione?". Antitetica, naturalmente, l'interpretazione del terzinternazionalista
moderato, così culturalmente indigente da proporre l'appaiamento di rivoluzione e conservazione.
"La rivoluzione di ottobre, dice costui, ha acceso il disco verde in direzione della futura società
comunista, da realizzare con la collaborazione di tutte le classi.". Non manca, naturalmente, chi
sostiene che l'errore è consistito nell'aver voluto applicare il Marx della vecchiaia invece di
quello giovanile, o viceversa. Non si finirebbe più, se si volesse esaurire il repertorio della sedicente
sinistra, inteso a spiegare
perché lo spettro, che s'aggirava per l'Europa nel 1848, si trovi oggi, sia pure col fiore rosso
all'occhiello, nello stesso palazzo delle multinazionali. Roba da vaudeville d'altri tempi, se non fosse che,
sbandierando il vessillo comunista, i
comunisti, a occhio e croce, hanno ammazzato un maggior numero di loro confratelli di quanti ne
ammazzò il nazismo: e non è detto che altro sangue, ancor più copioso, non sarà
versato in nuovi
conflitti intercomunisti, dato il vento che tira alla frontiera cino-vietnamita e a quella sovietico-cinese. Cosa
tristissima quant'altra mai. Per due ragioni. Intanto perché i capitalisti rossi, con i loro
gulag, la loro miseria intellettuale e morale, la loro protervia, non sono per nulla migliori di
quelli tradizionali, che dobbiamo goderci in Occidente, con i loro Pinochet, Begin Sadat e,
quando va bene, con una democrazia fondata sulla schiavitù del lavoro salariato. E poi perché, se
fosse veramente dimostrato, storicamente, che il comunismo - che dovrebbe significare libertà
eguale per tutti senza condizionamenti economici - è un'utopia non diversa da quella della
micidiale "fratellanza" cristiana, che cosa ci resterebbe, se siamo persuasi che la vita abbia un
senso solo se ravvivata da una tensione etica? Un ritorno a Kant, questo ci resterebbe? Il concetto
di un imperativo categorico astratto dalla realtà sociale? E ciò in un mondo alla deriva, oscurato
dall'ombra dell'ecocidio che la produzione capitalista consuma giorno per giorno, e del genocidio
in incubazione negli arsenali atomici, fissi e semoventi? È nel quadro di questa problematica che anche
noi, che il comunismo (inteso come liberazione
dallo sfruttamento, dall'oppressione e dalle ideologie del capitalismo) lo poniamo come il dover
essere dell'uomo moderno, ci siamo interessati all'autogestione, che, si dice, può dare il
comunismo vero. Non che si sia così acquistata la capacità di analisi dell'autogestione di un
esperto in materia. Abbiamo acquisito delle informazioni non del tutto superficiali. Ebbene,
confessiamo che, in base ad esse, non siamo riusciti a capire in che cosa consista questo rimedio
- l'autogestione, appunto - che dovrebbe trasformare in libertario il comunismo incarnatosi finora
in un autoritarismo, che nulla ha di comunista, se non il nome. Questo, a nostro avviso, il punto da chiarire:
è autogestibile l'attuale sistema produttivo,
sostanzialmente lo stesso su scala planetaria? Anche non tenendo conto del fatto che i suoi attuali
beneficiari sono decisi a difenderlo, se necessario, fino all'olocausto finale, esistono più che
valide ragioni, ci pare, per dubitare ch'esso sia autogestibile, ancorché ci fosse dato di disinfestare
il Palazzo dai suoi abituali inquilini, aprendo così la strada al comunismo libertario. Si faccia il caso di
una centrale nucleare: è autogestibile una centrale nucleare? Chi l'ha detta
giusta, non solo sulle centrali, ma sull'intera tecnologia su cui si fonda la produzione a
capitalismo tradizionale e rosso, è il professor Felice Ippolito. Si era sotto lo shock dell'incidente di
Harrisburg, quando Ippolito, con un cinismo superbo, poco
meno che machiavellico, scrisse per "l'Unità" del 3 aprile un articolo dal titolo "Convivere con la
tecnologia", col quale dimostrava tutta la nostra illogicità, consistente nel fatto che, mentre
accettiamo la tecnologia di morte del capitale, ci tiriamo indietro dinnanzi alle centrali nucleari. Ippolito apriva
l'articolo osservando: "Nel settembre del 1921 scoppiò improvvisamente nello
stabilimento BASF di Oppau, presso Ludwigshafen (Germania), un deposito di nitrato di
ammonio che costò la vita a 560 persone; l'incidente si ripetè nel 1948 con 200 morti e 3.800
feriti e con danni per oltre 50 milioni di marchi. Il 1 giugno 1974 a Elixborough, nel Lincolnshire
(Inghilterra), si incendiarono 18.000 tonnellate di prodotti chimici esplosivi: si lamentarono 28
morti e oltre 100 feriti, perché per fortuna l'incidente avvenne di sabato. Il 9 ottobre 1963 una
frana prevedibile nel lago artificiale del Vajont provocò un'onda di piena, che distrusse
Longarone e altri centri abitati, causando danni immani e 2.000 morti, che si andarono ad
aggiungere alle altre migliaia di morti di crolli di dighe in Italia (ad esempio la diga del Gleno),
in Francia, in Spagna e un po' ovunque". Tutti incidenti con morti ben visibili, tali da disturbare la nostra
sensibilità. Harrisburg invece "non ha dato alcuna vittime immediata". Cancro? Leucemia? Rientrano
nei
"costi" del progresso tecnologico. Che vuole le sue vittime. Ragione per cui non c'è da
formalizzarsi nel caso (per altro del tutto improbabile secondo Ippolito) che il tasso di cancro e
leucemia aumenti nella zona della centrale. Ci voleva l'ingenuità di un sindacalista "progressista" Enzo
Mattina, per contestare il sanguigno
realismo di Ippolito. Mattina infatti ascritto nella "Repubblica" del 6 aprile: "'Col nucleare si
muore meglio', questo sembra essere l'assunto conclusivo dell'articolo del professor Felice
Ippolito. Le radiazioni nucleari hanno il pregio di rinviare nel tempo i loro effetti nocivi; quasi
non te ne accorgi dei morti che producono. Francamente attendevamo ben altro contributo da uno
scienziato del suo livello". Al che Ippolito ha risposto con più che giustificato disprezzo nello stesso
numero del giornale:
"In quanto alla così detta 'morte differita', Mattina, che fa il sindacalista, dovrebbe sapere che le
dosi di radioattività che l'incidente della centrale di Three Mile Islanb ha rilasciato nell'atmosfera,
sono al di sotto ampiamente dei limiti di tollerabilità, mentre l'acido solforico e altri prodotti
chimici rilasciati nell'atmosfera da tutte le industrie nelle quali lavorano i suoi rappresentati, sono
causa di morti differite ben più numerose, e di cancri alla vescica, ai polmoni e allo stomaco,
mentre ogni volta che spruzziamo un liquido da una bomboletta, contribuiamo a ledere nell'alta
atmosfera quella protezione di ozono, che ci difende dai raggi ultravioletti, e quindi dai pericoli
di cancri alla pelle". E perché non sussistesse alcun dubbio circa il proprio pensiero Ippolito
precisava: "Per il pericolo di 'morte immediata' e di catastrofi improvvise, gli esempi da me
portati non sono che una sommaria e inefficace esemplificazione di ciò che può capitare in una
miriade di città e di villaggi di tutto il mondo, ed anche particolarmente in Italia, per l'improvviso
rilascio di gas venefici da industrie chimiche, per scoppi di depositi di carburanti o di sostanze
esplosive, per crolli di dighe di sbarramento o per altrettanti incidenti causati da un'industria, che
non ha lontanamente i controlli di sicurezza e di pre-allarme di quella nucleare". Come Machiavelli ci ha
mostrato di che lacrime grondi e di sangue l'arte di governare, così
Ippolito, con pari compiacenza, ci mostra il continuo massacro, effettivo e potenziale, dell'arte di
produrre, cui, nonostante il suo professato filocomunismo, non vede alternativa. E Ippolito non ha detto tutto.
Non ha parlato dei "normali" incidenti sul lavoro. L'anno scorso,
secondo le statistiche dei sindacati, pubblicate dall'Avanti! del 13 dicembre, c'è stato un
milione e
mezzo di tali incidenti: in media è morto un lavoratore ogni ora, e c'è stato un ferito ogni sei
secondi. Una carneficina che già nel '71 denunciava il "Giorno", osservando che in vent'anni in
Italia centomila operai erano morti sul lavoro. Tutta la produzione capitalistica e impastata di sangue umano,
sangue ben più copioso di quello
delle guerre d'altri tempi grazie a una tecnologia che fra l'altro ha espropriato l'operaio d'ogni
professionalità, riducendolo a un'appendice della macchina. Quale miracolo dovrebbe dunque
compiersi perché questa merce umana, chiamata operaio, diventi soggetto di autogestione?
Intanto dovrebbe riappropriarsi della conoscenza tecnica: ma per farne che cosa? Per gestire la
produzione di morte che oggi è gestita dal capitalismo? Se no, si dovrebbe inventare un'altra
scienza, capace di dare all'uomo una tecnologia di liberazione al posto dell'attuale finalizzata
all'asservimento. Insomma non basta l'autogestione, occorre qualcos'altro a monte, che un tempo
si chiamava rivoluzione, parola ormai introvabile nel vocabolario di chi fa politica, quella seria,
che si pratica dai partiti, si studia nelle università, si diffonde ad opera dei mass-media. Fuori della
rivoluzione, se Harrisburg ci disgusta, ci atterrisce, resta solo il gesto di Fernand
Hubin, borgomastro della cittadina belga di Huy. È noto che Hubin, appena a conoscenza
dell'incidente di Three Mile Island, ha fatto chiudere la centrale sita nel proprio comune. Con
quale risultato? Che il governo belga l'ha fatta immediatamente riaprire. Hubin, e tutti i samaritani suoi pari, non
sanno che la scienza e la tecnologia, che stanno a
fondamento dell'attuale mondo produttivo, non sono divinità che l'uomo ha rintracciato
girovagando nei giardini del sapere. Si tratta di modelli che il dominio in generale, e il
capitalismo in particolare, hanno prescelto in funzione del controllo e del profitto. Non è certo la catena
di montaggio "la" tecnologia, quanto di meglio "la" scienza, ai giorni nostri,
ci mette a disposizione per fabbricare le migliori auto immaginabili. Le nostre auto, nonostante
tutti i loro pseudo confort, e il sapiente design che le modella, sono giocattolini a rapida
senescenza, capaci di utilizzare sì e no il cinque per cento dell'energia contenuta nel carburante, e
che non è esagerato definire bare ambulanti, considerato che solo negli Stati Uniti mandano al
cimitero ogni anno qualcosa come cinquantamila persone. Quanto alla catena di montaggio, e in
genere a tutto ciò che oggi esiste in tema di robotizzazione produttiva, chi non lo sa che d'altro
non si tratta che della traduzione meccanica dell'imperativo capitalistico del più alto grado di
controllo e sfruttamento? La tecnologia per fabbricare queste auto, e le auto stesse, sono frutto di una scelta del
capitale, e
non già un passaggio obbligato della storia del progresso scientifico in materia di trasporti. Il che
vale per qualsiasi altra attività produttiva, compresa l'industria sanitario-farmaceutica, che è
quella che è per il predominio dell'industria chimica, senza il quale sicuramente sarebbe tutt'altra
cosa. Concetti che, c'è da giurarlo, sfuggono al buon borgomastro belga. Chi invece sembra capirli
è
Gorz. Nella sua più recente opera, Ecologie et liberté, André Gorz afferma che
una corretta
gestione ambientale non è compatibile né col nostro capitalismo, né con quello socialista.
Né le
multinazionali, né i burocrati rossi possono evitare l'ecocatastrofe, porre le condizioni per la
liberazione dell'uomo. Se sarà possibile salvarci, ottenere per l'uomo l'effettiva libertà, sostiene
Gorz, sarà possibile soltanto sulla base dell'autogestione. Una prospettiva esaltante l'autogestione nella
dinamica concettuale di Gorz. Nel mondo
dell'autogestione generalizzata non avremo più il lavoro salariato, che, per dirla con Marx, è "per
sua natura l'attività asservita, inumana, asociale, che dipende dalla proprietà privata e la crea"; e
allora, venendo meno questa schiavitù moderna, non ci sarà più bisogno di sbirri, né
di generali;
e la tecnologia sarà quella più proficua per l'uomo, e meno dannosa per la natura; e i beni prodotti
saranno quelli utili e necessari, per cui nessuno si sognerà di preparare la bomba a neutroni
anziché costruire ospedali. Si realizzerà, in altre parole, la profezia marxiana del salto dal regno
della necessità al regno della libertà. Il guaio però è che Gorz non chiarisce chi
ce la dia l'autogestione, o, nel caso che nessuno voglia
darcela, come si conquisti, sempre che sia ancora realizzabile dati gli esistenti livelli tecnologici. Problema
politico a parte (e cioè una rivoluzione che ci sbarazzi sia del capitalismo tradizionale
sia di quello rosso), resta quell'altro problema, cui si è già accennato: la distruzione di una
scienza e di una tecnologia micidiali e non autogestibili neppure se si riuscisse a socializzare le
conoscenze al punto che tutti possano concorrere con eguali capacità a produrre le cose utili e
necessarie alla generalità dei cittadini. Com'è dunque possibile una produzione autogestita, che
rappresenti, in quanto tale, la condizione
di un eguale libertà per tutti, se non basterebbe neppure cancellare l'attuale dominio capitalista,
ma sarebbe inoltre necessario rifondare la base scientifica e tecnologica sul quale si regge? Sia chiaro: non si
tratta di quesito inteso a spalancare le porte della rinuncia, o del nichilismo, dal
momento che nessuno forse è più convinto di me che il cosiddetto pragmatismo, che vorrebbe
farci accettare l'attuale situazione, non è solo utopia, ma anche vocazione alla catastrofe e
all'annichilimento umano. Si tratta semplicemente per un lato di confessione, e per l'altro di
messa in guardia. Questa la confessione: ho scritto in questi ultimi tempi un libro dal titolo in certo qual modo
emblematico, "La trappola della scienza - Tutti vivi a Harrisburg", e quando, nella parte
conclusiva, si è trattato di rispondere alla domanda sul che fare per dischiudere la trappola, e
sconfiggere il dominio, ho dovuto confessare di non avere tale risposta, che dovrà scaturire -
sempre che esista ancora una risposta - dalle lotte per la liberazione dalla schiavitù del lavoro
salariato. La messa in guardia, rivolta in primo luogo a me stesso, concerne i tempi in cui viviamo, tempi
di estremo disordine, e come tali, secondo quanto diceva Mao, particolarmente idonei
all'elaborazione del nuovo, a condizione però di saper individuare la strada giusta, in mancanza
della quale si accresce soltanto, nel tentativo di cambiare, il disordine esistente.
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